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Quando l’uomo è il cattivo genio della donna (e di se stesso)

di Francesco Lamendola - 25/03/2010



In un articolo di circa due anni fa, «Quando la donna è il cattivo genio dell’uomo (e di se stessa)» (apparso sul sito di Arianna Editrice in data 09/07/2008), avevamo considerato un caso esemplare in cui la donna, come compagna dell’uomo, ne è stata l’angelo della distruzione: quello dell’attrice Siri von Essen e del drammaturgo August Strindberg.
Vogliamo ora svolgere alcune riflessioni su di un caso opposto e speculare, ossia quello di un matrimonio in cui è stato l’uomo a svolgere, sia pure inconsapevolmente, la parte del cattivo genio della sua compagna, salvo poi levare alti lamenti contro la crudeltà della vita che glie l’ha strappata in giovanissima età: quello dello scrittore Edgar Allan Poe e della sua enigmatica moglie-bambina, Virginia Clemm.
A differenza di Siri von Essen, della quale sappiamo molte cose e che ebbe dei figli, di Virginia sappiamo pochissimo, se non che andò in sposa all’età veramente sconcertante di tredici anni, forse per le oscure manovre di sua mamma, nonché zia del marito, Maria Clemm ((i due fidanzati erano, infatti, cugini di primo grado); che visse nell’ombra del tormentato marito, il quale, oltre ad annegare i propri fantasmi nell’alcool, intrecciava numerose relazioni amorose con donne di varia età ed estrazione sociale, tutte probabilmente platoniche; e che infine morì, consumata dalla tisi, nel 1847, a soli ventiquattro anni, precedendo Poe nella tomba di soli due anni.
Quasi nulla sappiamo di lei prima del matrimonio, avvenuto a Richmond nel 1836, e pochissimo anche su quei dieci anni che gli rimasero da vivere, amareggiati dai tradimenti dello sposo e da penose discussioni con i mariti delle sue amanti, relative alla destinazione finale degli epistolari scottanti. È molto probabile che il matrimonio non sia mai stato effettivamente consumato e che la sfortunata Virginia sia morta vergine, senza aver conosciuto non solo le gioie della maternità, ma neppure quelle dell’amore.
Una figura umbratile, quasi evanescente; l’unico ritratto certo è quello che fu eseguito subito dopo il decesso e che la raffigura, inevitabilmente - nonostante gli artifici dell’artista - con un qualcosa di lugubremente fisso e con una bellezza triste sul volto dai lineamenti fini e stranamente infantili. Una figura che rimanda subito ai cupi e tuttavia languidi racconti (come, ad esempio, «Morella»), nei quali Poe ne ha celebrato sia la diafana venustà che il precoce destino di morte, senza peraltro nascondere il rapporto morboso che legava queste due creature che paiono uscite dal sogno malato di un negromante o di un incantatore.
Perché è certo che Poe, fin dall’inizio, vide nella propria sposa-bamina un bell’oggetto da collezionare, una creatura dolce e malinconica da poter accudire e cui sentirsi indispensabile, lui che nei rapporti con le donne doveva avere parecchi problemi e che, inoltre, si portava dentro l’ossessivo ricordo della propria madre perduta troppo presto, e di cui forse vide in Virginia una specie di resurrezione o, piuttosto, il frutto di una evocazione magica.
Ed eccoci arrivati al punto, che esorbita dalla tematica specifica relativa alla biografia di questi due sfortunati personaggi e riveste una dimensione assai più ampia, universale:.
Quando l’uomo non vede nella propria donna una compagna di viaggio che possiede le sue stesse esigenze, le sue stesse speranze e la sua stessa dignità; quando cerca di trasformarla in un oggetto che serva a placare le proprie nevrosi, le proprie angosce, a riassestare il proprio fragile equilibrio; quando se ne serve come di una infermiera, di un bastone, di una stampella per reggersi in piedi; quando la vuole servire come una eterna malata, per sentirsi un po’ più forte e più necessario di quanto non senta di essere in realtà: ebbene, in tutti questi casi egli, consapevolmente o inconsapevolmente, diviene il cattivo genio di lei e la avvia verso la strada della solitudine, dell’infelicità e della perdita di stima in se stessa.
La modernità, fra le altre cose, ci ha portato a una totale confusione di ruoli fra i due sessi, col risultato che un numero sempre più grande di persone cercano nell’altro sesso quello che non possono trovarvi e costruiscono, sulla base di illusioni ed equivoci, dei rapporti squilibrati e inautentici, viziati sin dall’inizio dalla assoluta incapacità di vedere nell’altro un completamento armonioso di se stesso.
Sono nati così due errori simmetrici e complementari.
Il primo è quello della donna emancipata che vuol gareggiare con l’uomo e superarlo sul suo stesso terreno, ma che, al tempo stesso, vorrebbe eternamente sedurlo e conquistarlo, per sentirsi sempre più forte, attraente, irresistibile e vedere così confermata la stima di sé. È un errore, perché si tratta di due obiettivi contrastanti e, perciò, irrealizzabili: non si può essere in competizione con lo stesso soggetto da cui ci attende attenzione e gratificazione. Entrare in competizione vuol dire trattare l’altro da nemico, effettivo o potenziale; dopo di che, si raccoglie da lui quello che si è seminato: diffidenza, fastidio, ostilità.
Il secondo è quello dell’uomo incerto e titubante, che cerca di mascherare la propria insicurezza dietro pose anacronistiche da maschio onnipotente e che vorrebbe trovare una conferma alla propria potenza indossando una maschera. È un errore perché anch’egli si pone in contraddizione con se stesso: o si è maschi, o non lo si è; se lo si è, non si ha alcun bisogno di ostentarlo; se lo si ostenta, si finisce per trovare esattamente quel genere di donna che scopre il bluff e da cui non si riceve la sperata conferma alla propria virilità, ma derisione e ripulsa (peraltro ben meritate).
Bisogna ammettere che il panorama appare piuttosto sconfortante, sia per l’uomo che per la donna. A tanto ci ha portato l’aver voluto negare una legge evidente di natura, la strutturale diversità e complementarità dei sessi, in nome di un egualitarismo che, rivendicando pari diritti civili e politici, ha oltrepassato il segno e si è spinto fino a negare, di fatto se non in teoria, la specifica differenza di genere.
Donne che non sono più veramente donne, anche se gonfiate di silicone in tutti i punti giusti, cercano disperatamente di attirare l’attenzione per essere desiderate, apprezzate ed amate da uomini che non sono più uomini, i quali - sovente dietro la maschera di una sicurezza che più non possiedono - cercano piuttosto delle mamme, delle sorelle, delle infermiere capaci di accudirli, proteggerli, rassicurarli.
È uno spettacolo sconcertante.
Ovunque si vedono donne mascolinizzate che cercano la conferma della propria supposta femminilità eccezionale nell’approvazione di uomini svirilizzati, i quali, a loro volta, rivolgono le loro attenzioni sui fanciulli o cercano in esse delle eterne mamme e sorelle maggiori.
Ma torniamo al discorso dell’uomo come cattivo genio della donna.
Potremmo citare molti casi famosi: per limitarci ai più drammatici, ricordiamo quello dello scrittore Heinrich von Kleist, che si suicida dopo aver ucciso la propria amica Henriette Vogel, malata di tumore, lasciando una straziante lettera di addio; e quello del principe Rodolfo d’Asburgo, figlio di Francesco Giuseppe e di Elisabetta di Baviera, che compie lo stesso macabro rituale con l’amante ancora adolescente, Maria Vetsera: la uccide e poi si toglie la vita.
Tuttavia, anche senza arrivare alla distruzione fisica della donna, l’uomo, quando non è in grado di svolgere degnamente il proprio ruolo di compagno, è in grado in molti modi di rovinarne l’esistenza, di inaridirne le qualità, di spegnerne lo slancio vitale e di distruggerne la fiducia in se stessa. Ciò accade specialmente quando l’uomo, immaturo e viziato da genitori troppo compiacenti, le si accosta come il naufrago che si afferra al primo relitto a portata di mano, caricandola di una responsabilità eccessiva e costringendola ad interpretare una parte artificiale, quella del sostituto materno.
Intendiamoci: ogni uomo cerca, nella donna, ANCHE la figura materna; così come vi cerca altre figure ed altri ruoli, a cominciare da quelli, fondamentali, dell’amica e dell’amante. Ma l’uomo che nella sua compagna cerchi SOLO il sostituto della figura materna, fa violenza alla natura delle cose e crea le premesse per infinite incomprensioni, sofferenze, amarezze, dalle quali entrambi usciranno stravolti e indeboliti; ma specialmente la donna, se sarà stata così imprudente o sfortunata da immedesimarsi troppo, per compiacenza e per malinteso senso di protezione, nel ruolo di sostituto della madre di lui.
Contrariamente a ciò che una cultura pseudo-libertaria e pseudo-emancipata va predicando ormai da decenni, la verità è che l’uomo e la donna non possono incontrarsi felicemente se non sulla base delle loro differenze, che sono proprio ciò che li rende desiderabili l’uno all’altra. Quando i loro ruoli si sovrappongono e si confondono, nascono i fraintendimenti, le delusioni, gli insanabili conflitti e gli implacabili rancori. La frustrazione è figlia del malinteso secondo cui i ruoli dell’uomo e della donna sarebbero perfettamente intercambiabili.
Ammettere ciò non significa, ovviamente, stabilire una gerarchia di ruoli, poiché sono entrambi importanti, entrambi necessari. Bisognerebbe però fare piazza pulita dei postumi della ubriacatura femminista, secondo cui la maternità, per la donna, non sarebbe altro che un “optional” e che anzi, tutto sommato, essa andrebbe, per quanto possibile, evitata o rimandata fino al limite estremo, per lo meno per una donna che abbia ambizione e grandi progetti e che sia, insomma, pienamente cosciente del proprio valore e della stima dovuta a se stessa: come se la donna che sceglie la maternità abdichi, in qualche modo, al rispetto di sé.
Le femministe hanno predicato per anni che la maternità è l’arma usata dal maschio per sottomettere la donna, per restringere i suoi orizzonti materiali e spirituali, per rimpicciolirla, per dominarla e umiliarla: il che è una solenne sciocchezza. Certo, la maternità non è l’unico modo in cui la donna realizza il proprio ruolo; ma non si può nemmeno cadere nell’esagerazione opposta. La verità è che, se trova l’uomo giusto, la donna non desidera altro che di avere dei figli da lui, perché a ciò la porta un istinto potente e assolutamente naturale.
Il problema è, appunto, che la figura dell’uomo virile incomincia a venir meno e la donna, che pure ha contribuito al crearsi di questa situazione, inseguendo il modello maschile sul suo stesso terreno, finisce per ritrovarsi terribilmente sola. Carica di aspettative, tirata a lucido secondo il prototipo algido e banale delle attrici hollywoodiane o, peggio ancora, secondo quello sciatto e volgare delle veline televisive, la donna si ritrova oggi come la debuttante che nessuno invita a ballare e che si aggira, umiliata e depressa, in una affollata solitudine, dove nessuno la cerca per quello che è, ma solo per ciò che di lei appare.
Questo è il prezzo che si paga allorché si punta tutto sulla esteriorità, allorché ci si carica di cose per colmare una fondamentale mancanza di amore verso se stessi. La donna che si vuole bene non si butta via col primo che passa e non si affanna disperatamente per piacere a tutti, dal momento che già piace a se stessa, senza narcisismo ma anche senza complessi di inferiorità. Perché la donna equilibrata e  serena non si sente per niente inferiore all’uomo (checché ne dica Freud sull’invidia del pene)  e non ha, quindi, alcun bisogno di dimostrare che vale almeno quanto lui, NEGLI STESSI RUOLI CHE SONO TRADIZIONALMENTE DI COMPETENZA MASCHILE.
Ma c’è una buona notizia per gli uomini e per le donne di questa ambigua post-modernità: ed è che non è stato deciso dalle stelle che la loro reciproca incomprensione e la loro disarmonia debbano durare in eterno, se soltanto sono disposti a rientrare in se stessi e a riconoscere gli errori commessi nel passato.
L’uomo realmente, semplicemente virile, non avrà più bisogno né di spose-bambine, né di amanti-madri, né di compagne androgine e sorelle; e la donna realmente, semplicemente femminile, non dovrà più aggirarsi, sconfitta e disperata, nella vana attesa di essere invitata al ballo da qualche compagno interessante.
Si ritroveranno, si piaceranno, si accoglieranno e si completeranno l’uno con l’altra, offrendosi reciprocamente amore, amicizia, sostegno, complicità  e comprensione. Ricominceranno a fare più figli, perché riscopriranno la gioia di essere genitori. Smetteranno di preoccuparsi delle apparenze, perché capiranno che, per star bene con se stessi e con l’altro, quello che conta non è l’involucro, ma il profumo dell’anima.