Alcune tardive traduzioni, assieme alla pubblicazione di lavori recentissimi, presentano ormai ampiamente in Italia Zygmunt Bauman, uno dei più interessanti osservatori contemporanei della società postmoderna, e delle sue patologie. Bauman, i cui lavori sulla globalizzazione non sembrano purtroppo familiarissimi agli italici Social Forum, restii a studiare i temi in nome dei quali chiedono la parola, è un pensatore drammatico.
Egli rappresenta bene l’impasse in cui si trova gran parte del pensiero di formazione marxista, quando studia la società postmoderna. E’ visibile la perturbante nostalgia di un nemico, che ora non ha più bisogno della tua subalternità. E quindi della tua alleanza.
Nasce anche da questo La solitudine del cittadino globale, che Bauman illustra nel libro pubblicato da Feltrinelli, con postfazione di Alessandro Dal Lago. La vecchia passione del potere per uno stretto controllo del territorio è sostituita, nell’epoca della globalizzazione, dalla facilità, e spesso dalla convenienza, ad abbandonarlo. Di questi ingredienti è fatta: La società dell’incertezza, di cui parla anche il testo pubblicato da Il Mulino, che ripropone nella seconda parte l’ottimo Catalogo delle paure postmoderne, un capitolo di Life in fragments, Blackwell, 1995.
Nei tempi della globalizzazione, non è più possibile la “secessione dei plebei contro cui nell’antica Roma si levò il monito di Menenio Agrippa”. Ora invece basta che i “patrizi”, minaccino di fare i bagagli e andarsene, perché i primi si acquietino.
La rappresentazione della realtà globale proposta da Bauman contiene anche confusioni, e a volte semibanalità. Ben diversa, sugli stessi temi, la precisione di Serge Latouche (di cui Arianna pubblica ora: L’invenzione dell’economia, con postfazione di Pietro Montanari), cui manca, però, il sostegno del network editoriale e universitario anglosassone, di cui dispone Bauman. Ciò non toglie, come ha osservato lo junghiano Etienne Perrot su Etudes, che “La tesi fondamentale di Bauman, vale a dire la mondializzazione vista come sovversione dei territori per opera dello spazio mercantile, rimane solida”, anche se non l’ha scoperta lui. Bauman l’ha illustrata, tra l’altro, anche in Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza.
Questa “sovversione dei territori”, non solo e non tanto fisici, quanto psicologici, e culturali, e i rischi da essa prodotti sull’individuo (un tema già impostato, con minor drammaticità, nei lavori di Anthony Giddens), porta Bauman ad affrontare la questione cui sono dedicati in buona parte i suoi ultimi lavori.
Come quella Voglia di comunità (Missing Community, nel testo inglese), pubblicato ora da Laterza. In esso Bauman, fedele alla vocazione utilitaristica della sua riflessione, propone un ritorno, dall’ anarchia postmoderna, ad “una comunità intessuta di comune e reciproco interesse”. Gli interessi però, come sapeva bene non solo Ferdinand Tönnies, ma anche Max Weber, non bastano a convincere gli individui ai sacrifici necessari alla comunità. Quest’opus assai più impegnativo richiede la condivisione di un sistema simbolico. Una questione che Bauman non può affrontare davvero, perché la sua strada è sbarrata dalla convinzione che ” i grandi crimini cominciano dalle grandi idee”, che come è noto rimandano a sistemi simbolici, da cui spesso nascono.
Di qui il dramma di Bauman, e non solo il suo. Eppure le scienze umane sanno fin dall’origine che gli ingradienti della Gemeinschaft, la Comunità, sono diversi da quelli della Gesellschaft, la società. Se la prima ti fa troppa paura, tieniti la seconda.
E’ impossibile avere Menenio Agrippa, senza l’ordine simbolico cui il suo apologo si riferisce.