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L’eterno dilemma del lavoro: maledizione divina o autorealizzazione?

di Valerio Zecchini - 18/04/2010



Da alcuni anni l’attuale Ministro dell’economia Giulio Tremonti ha modificato piuttosto radicalmente le sue idee e la sua immagine politica:  da ultraliberista  e difensore della cosiddetta “finanza creativa” ad antimercatista e spietato critico della globalizzazione (e del suo frutto più perverso, le delocalizzazioni). Qualche mese fa Tremonti è addirittura arrivato ad annunciare che il  governo  intende attuare la partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese. Ciò ha ovviamente fatto gridare vittoria ai numerosi ex missini che militano nelle file del PDL. Per vari decenni infatti il Movimento Sociale Italiano si era proposto  (anche tramite un’organizzazione parallela come l’ISC, Istituto Studi Corporativi) come paladino dell’economia partecipata, rivendicando l’applicazione dell’art. 46 della Costituzione Italiana a tutt’oggi inattuato, il quale prevede la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende. Inoltre nel dopoguerra, in Germania, esperienze in tale direzione pare siano andate a buon fine. L’economia partecipata potrebbe costituire un’inversione di tendenza rispetto all’economia globale di oggi, basato sullo sfruttamento della manodopera a basso costo dei Paesi in via di sviluppo, sulla speculazione su mercati finanziari sempre più incontrollati, sul totale annichilimento della dignità della persona.
E’ stato questo uno dei principali temi del riuscito convegno tenutosi lo scorso 6 marzo a Bologna col titolo “La socializzazione delle imprese”; relatori Sonia Michelacci, autrice de “Il comunismo gerarchico” (edizioni di AR), e l’ingegner Arturo Conti, presidente dell’Istituto Storico della Repubblica Sociale Italiana, promotore del convegno assieme all’Associazione culturale Edera.
L’Italia ha in questo campo un importante precedente storico: il tentativo di attuare un’effettiva partecipazione delle componenti sociali nella gestione del lavoro. Infatti il 12 febbraio 1944 la Repubblica Sociale italiana istituisce la socializzazione delle imprese con un decreto legislativo, decreto che l’Italia “liberata” e “democratica” si affretterà a cancellare il 25 aprile 1945, pur ritenendo opportuno mantenere in vigore l’aspetto sanzionatorio del precedente regime rappresentato dal codice di procedura penale Rocco. La socializzazione si può considerare come l’approdo finale dell’esperienza corporativa fascista, esperienza che poi il Movimento Sociale Italiano difese e fece propria fino allo scioglimento del partito nel 1994. L’odierna proposta di Tremonti è economia partecipata all’acqua di rose: si parla infatti di partecipazione agli utili, spartizione delle eccedenze, ma è esclusa ogni possibile forma di cogestione. Quest’ultima costituiva invece l’essenza del progetto corporativo fascista, come illustra in maniera esaustiva il bel libro di Sonia Michelacci. Il volume parte dall’analisi della Carta del Carnaro, promulgata da Gabriele D’Annunzio e Alceste de Ambris durante l’occupazione di Fiume, poiché in essa sono individuate le premesse dell’ordinamento corporativo; ordinamento che avrà le sue fondamenta nella carta del lavoro del 1927. Ma già al secondo convegno di studi sindacali e corporativi (Ferrara, 1932) il corporativismo inizierà a rivelarsi come “rivoluzione incompiuta”. La socializzazione imposta per legge nel ’44 (applicazione pratica dei “diciotto punti di Verona”) fu un esperimento che avrà il tempo di realizzarsi solo in minima parte.
Ugo Spirito, filosofo di matrice attualista e massimo teorico del corporativismo, coniò il termine “comunismo gerarchico”: comunismo inteso non in senso dogmatico-marxista, ma metafisico; gerarchico in quanto intende conferire ai lavoratori pari dignità ma non pari grado – libertà vera di accedere ai vertici da parte di una èlite umana fortemente selezionata dal diritto al lavoro e dalla qualità del merito.
Al convegno di Ferrara del ’32 Spirito scandalizzò gli astanti propugnando l’economia programmata e la partecipazione dei lavoratori alla proprietà e alla gestione dell’impresa.  La sua idea di “corporazione proprietaria” consisteva nella socializzazione dei mezzi di produzione e  dunque nella fusione tra lavoro, azienda  e proprietà a fini comunitari. Mussolini in privato aveva approvato il progetto di Spirito, ma poi non lo difese in pubblico e le corporazioni finirono comunque per tenere in vita la contrapposizione tra capitale e lavoro. Il codice civile del ’42 (tuttora vigente) avrebbe poi reso indiscutibile la proprietà privata dell’azienda.
La Legge del ’44, che socializzò le imprese con più di un milione di capitale o più di cento operai, secondo la Michelacci (ma anche secondo Spirito) non solo realizzò le aspirazioni del filosofo aretino, ma avvicinò l’Italia al modello nazionalsocialista tedesco. La legge istituì la rivoluzionaria norma che imponeva che nei consigli di amministrazione metà dei membri dovevano essere lavoratori. Come si è detto, il CLN abrogò immediatamente la legge appena finita la guerra.
La socializzazione non nega la proprietà, ma la riordina e la responsabilizza; l’uomo non è il mezzo, ma diventa il fine del lavoro, come sostenuto anche da tutte le encicliche sociali della Chiesa fino ad oggi. Ma è in Germania dove, secondo l’autrice, la proprietà sociale aveva conosciuto una realizzazione autentica; essa aveva preso piede sin dagli esordi del nazionalsocialismo, indebolendo il potere dei Krupp e degli altri grandi gruppi industriali. E’ qui che si invera il controllo della comunità organica di popolo sulla produzione; le imprese non vengono nazionalizzate, ma i lavoratori vengono garantiti al massimo, viene imposto l’avanguardistico concetto di “onore del lavoro” e i relativi tribunali per tutelarlo. La vittoria dell’io comunitario si verificò anche nelle campagne: la Germania promulgò la proprietà sociale anche in agricoltura. Il III° Reich azzerò il debito pubblico e abolì l’usura e il tasso di interesse, ma tutte queste conquiste sono oggi bandite da qualsiasi discorso politico. Infatti Jorg Haider, defunto leader del FPO austriaco, circa un decennio fa fu duramente sanzionato dall’Unione Europea per aver espresso ammirazione per la politica economica del III° Reich, il quale evidentemente può essere menzionato solo per parlare di olocausto.
In realtà la socializzazione responsabilizza il lavoratore, che invece oggi si lamenta e basta proprio perché non ha nessun potere contrattuale; il sindacato è soltanto un tramite per la lamentela perenne. Obiettivo di Spirito era l’abolizione del sindacato (come in Germania dove i comitati di gestione avevano sostituito i sindacati) per unire nella corporazione capitale e lavoratori, creare dunque una identità speculativa tra individuo e stato. La proprietà sociale si può quindi definire come una proprietà intermedia tra privato e pubblico che socializza i profitti – l’esatto contrario della proprietà come concepita oggi, che socializza solo le perdite.
Secondo l’autrice fiorentina, nell’attuale fase di ultraliberismo compiuto la socializzazione è un’utopia; per riproporla oggi sarebbe prima necessario riformare radicalmente la mentalità dominante , afflitta dal più ottuso individualismo. Ma, aggiungiamo noi, sarebbe anche urgente ripensare l’intera concezione del lavoro che, tra robotica, automazione dilagante, telelavoro, ineludibile necessità del reddito di cittadinanza, sta rapidamente perdendo il suo status di strumento per la realizzazione delle proprie aspirazioni personali. Ritornerà ad essere la maledizione divina di biblica memoria?