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Quando Varsavia, col nemico alle porte, aspettava d’ora in ora il colpo di Stato degli Ebrei

di Francesco Lamendola - 18/04/2010

Poliziotti ebrei presidiano una delle entrate del ghetto di Varsavia, ostruita da filo spinato. Polonia, febbraio 1941.

Abbiamo già avuto modo di descrivere gli avvenimenti storici che videro infrangersi, sotto le mura di Varsavia, nell’agosto del 1920, il sogno bolscevico di esportare con la forza la rivoluzione comunista nell’Europa centrale, considerando però quell’evento prevalentemente sotto il profilo politico-militare (cfr. «Chi ha voluto la guerra sovietico-polacca del 1920? Una questione storiografica ancora aperta», sul sito di Arianna Editrice in data 07/11/2008).
Ma c’è un altro aspetto di quella vicenda che la maggioranza del pubblico non conosce, vale a dire il retroscena costituito da 500.000 Ebrei che aspettavano a Varsavia, impazienti e gioiosi, che si compisse la disfatta dello Stato polacco, per spalancare le porte all’Armata Rossa ormai vicina e potersi prendere la rivincita sugli odiati cattolici.
Forse, sul silenzio della storiografia degli ultimi settanta anni, ha pesato il ricordo della tragedia vissuta dagli Ebrei polacchi dopo il settembre del 1939 e, in particolare, il fatto che proprio in Polonia si trovasse il famigerato campo di Auschwitz; e che il Ghetto di Varsavia, nel 1943, fosse stato testimone di una eroica, disperata rivolta contro le forze d’occupazione germaniche, terminata con la totale distruzione degli insorti.
Forse, il senso di colpa ha gravato sull’animo degli storici contemporanei al punto da far passare loro sotto silenzio il fatto,  oltremodo evidente, che i Polacchi detestavano la numerosissima minoranza ebraica fin dalla nascita del loro Stato nazionale, alla fine della prima guerra mondiale; e che tali sentimenti erano ampiamente ricambiati dagli Ebrei medesimi. Questi ultimi avevano ardentemente sperato che questo venisse distrutto in sul nascere, per mano dell’Armata Rossa di Trotzkij, loro connazionale, mentre a Pietrogrado si era stabilito un ferreo regime in cui gli elementi ebrei costituivano una presenza vistosissima (a cominciare da uomini come Zinov’ev, braccio destro di Lenin fin dall’esilio in Svizzera, e da Radek, proveniente dall’ex Galizia austriaca); e senza dimenticare che tutto l’«affaire» del rientro in Russia sul “treno piombato” germanico era stato condotto sotto la regia del ricchissimo ebreo Parvus, che, divenuto cittadino tedesco, aveva pensato di servirsi dei bolscevichi per arrivare al potere in Russia.
O forse è sembrato a tutti più semplice scaricare tutta la responsabilità dell’antisemitismo sui “cattivi” tedeschi, che erano stati duramente sconfitti nella seconda guerra mondiale, piuttosto che sui “buoni” polacchi, i quali, essendo stati i primi a fare le spese della tremenda efficienza bellica del Terzo Reich (altro discorso è vedere se essi non abbiano avuto la loro brava parte di responsabilità nello scoppio della guerra), erano stati delle vittime e, per di più, nel 1945 si errano venuti a trovare dalla parte giusta, ossia quella dei vincitori.
Ma, soprattutto, mai e poi mai si sarebbe potuto dire che gli Ebrei medesimi, con il loro contegno, si erano attirati numerose antipatie da parte della popolazione degli Stati dell’Europa centro-orientale, nei quali essi si erano insediati da alcuni secoli. Il loro ostinato rifiuto di integrarsi; il loro orgoglio religioso; il loro disprezzo verso i cattolici e tutti i non Ebrei, non erano fatti per attirare verso di loro sentimenti di benevolenza. Per aver osato suggerire che, forse, nella rivoluzione ungherese del 1956 vi era una componente anti-ebraica, dovuta alla presenza di una forte leadership ebraica nella dittatura comunista filo-sovietica, lo storico inglese David Irving è stato immediatamente accusato del peggiore antisemitismo.
Non si può nemmeno immaginare cosa capiterebbe a uno storico il quale, pur senza nutrire alcun occulto disegno ideologico, si prendesse la briga di mostrare che l’antisemitismo delle Guardie di Ferro, in Romania, non nasceva dal niente, ma da una lunga e difficile convivenza in cui non solo il popolo romeno, ma anche gli Ebrei residenti in quel Paese, portavano una parte di responsabilità. Dopo l’Olocausto, sembra che sia divenuto impossibile dire simili cose: più facile, molto più facile scaricare ogni colpa su Hitler e sul suo regime, lavando così la coscienza collettiva non solo del popolo tedesco e degli altri popoli dell’Europa centro-orientale, ma anche escludendo “a priori” che gli Ebrei medesimi potessero aver fatto alcunché per meritare di attirarsi sentimenti poco benevoli da parte dei loro vicini cristiani.
Così, quando le truppe bolsceviche giunsero davanti ai sobborghi di Varsavia (invero compiendo imperdonabili errori strategici e, in particolare, trascurando di proteggersi i fianchi da una controffensiva polacca, sul tipo di quella lanciata dai Francesi sulla Marna nel 1914), erano in molti a pensare che gli Ebrei del Ghetto sarebbero insorti, spalancando le porte all’invasore e provocando il tracollo dell’ormai agonizzante governo polacco.
Invece, quando le truppe sovietiche ebbero ricacciato indietro i Polacchi da Kiev fin sotto le mura di Varsavia, avvenne l’imprevisto: l’esercito di Pilsudski, già battuto e volto in ritirata, tornò all’attacco (sulla base di un piano predisposto da quest’ultimo e non già, come erroneamente si disse, del generale francese Weygand) e colse sul fianco l’invasore, ricacciandolo indietro e costringendolo a fuggire precipitosamente.
«Avevamo contato sulla rivoluzione in Polonia - riconoscerà amaramente Lenin a Clara Zetkin nel’autunno del 1920 -, e la rivoluzione non è venuta». Nelle sue parole sembra quasi di cogliere l’amarezza un pensiero nascosto: «Vatti a fidare degli Ebrei…». Ma un Ebreo polacco che conosceva molto bene i suoi connazionali, Karl Radek, era anche stato l’unico, in Unione Sovietica, a non farsi alcuna illusione sulla possibilità di una rivoluzione polacca prima che Budyonni entrasse a Varsavia. Egli sembra essere stato l’unico, fra tutti i bolscevichi, o quasi, a rendersi conto che una rivoluzione, in Polonia, avrebbe potuto essere innescata solo artificialmente, vale a dire attizzandola dal di fuori; ma non sarebbe mai iniziata spontaneamente.
D’altra parte, come osservò il nostro Curzio Malaparte, gli Ebrei, a quell’epoca, preferivano organizzarle, le rivoluzioni (vedi, appunto, in Russia, Parvus, Trotzki, Zinov’ev; per non parlare di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg in Germania e di Béla Kun in Ungheria); non amavano esporsi per farle in prima persona. È un copione, del resto, che tende a ripetersi continuamente: da Marx a Cohn-Bendit…
E occorre dire che Maurizio Blondet, anche per aver mostrato come la rivoluzione dei Giovani Turchi del 1908 (che portò al potere il triumvirato che, sette anni dopo, decise a freddo il genocidio degli Armeni) fosse stata quanto meno influenzata dalla potentissima comunità ebraica di Salonicco, città ove ebbe inizio la marcia su Istanbul, è stato ostracizzato in cento modi e, infine, espulso da salotto buono della cultura italiana?
Niente rivoluzione a Varsavia, dunque, nell’agosto del 1920; nemmeno un colpo di Stato che era alla portata di chiunque, con ottime prospettive di successo, come ebbe a dire il generale Bulach Balacovic, un russo passato al servizio della Polonia con le sue bande di “cosacchi neri”, contro i “cosacchi rossi” di Budyonni. Le sue testuali parole erano state: «In questo momento, qualunque imbecille si potrebbe impadronire del potere».
Quei timori erano, in varia misura, condivisi dagli ambasciatori e dagli addetti militari di Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia rimasti a Varsavia, e ormai divisi sull’opportunità di abbandonare la città in procinto di cadere, nonché dal Nunzio Apostolico, preoccupato per la sorte della cattolica Polonia ma, forse, segretamente desideroso di instaurare relazioni diplomatiche con i Sovietici per strappare garanzie circa la sorte della Chiesa uniate dell’Ucraina. Il ministro di Francia a Varsavia, M. de Panafieu, era convinto che i comunisti e gli Ebrei della città stessero preparando un colpo di mano per impadronirsi del governo e della capitale. «Io temo - egli ebbe a dire - un colpo di coltello nella schiena di Pilsudski e di Weygand».
Invece quello che era mancato, al momento decisivo, era stato un diversivo alle spalle dei difensori di Varsavia: una azione rapida e decisa della numerosissima colonia ebraica, la quale, pur avendo atteso con evidenti segni di giubilo e impazienza il compiersi dell’invasione, non aveva saputo o voluto passare concretamente all’azione, anche se un acuto osservatore italiano presente in città, Curzio Malaparte, aveva osservato che mille uomini ben decisi avrebbero potuto far cadere Varsavia dall’interno, praticamente senza colpo ferire.
Dal libro di Curzio Malaparte «Tecnica del colpo di Stato» (Milano, Mondadori, 1983, pp. 93-95):

«L’aspetto di Varsavia, in quei giorni, era quello di una città rassegnata al saccheggio. L’afa di agosto soffocava le voci e i rumori, un profondo silenzio stagnava sulla folla accampata nelle strade. Ogni tanto file interminabili di tram, carichi di feriti, fendevano lentamente la calca. I feriti imprecavano, sporgendo il viso e le braccia dai finestrini: un lungo mormorio si propagava di marciapiede in marciapiede, di strada in strada. Passavano, in mezzo agli ulani di scorta, gruppi di prigionieri bolscevichi, vestiti di stracci, con la stella rossa sul petto, zoppicando curvi tra le zampe dei cavalli. Al passaggio dei prigionieri la folla si apriva in silenzio, si richiudeva pesantemente alle loro spalle. Scoppiavano qua e là tumulti, subito soffocati dalla ressa improvvisa. Su quel mare di teste, alte croci di legni spuntavano di quando in quando, portate in processione da soldati magri e febbricitanti: il popolo si moveva lentamente, ondeggiando un fiume di gente si fermava in mezzo alla strada, s’avviava dietro le croci, sostava, rifluiva, si perdeva in rivi tumultuosi nella moltitudine. All’imbocco dei ponti sulla Vistola una fola vociante e irrequieta tendeva l’orecchio a un tuonare lontano; dense nuvole, gialle di sole e di polvere chiudevano l’orizzonte, che vibrava rombando come percosso da un ariete.  La stazione centrale era assediata notte e giorno da turbe fameliche di disertori, di profughi, di fuggiaschi d’ogni razza e d’ogni condizione. soltanto gli ebrei parevano trovarsi a casa loro nel tumulto di quei giorni. Il quartiere di Nalewki, il ghetto di Varsavia, era in festa. L’odio contro i polacchi persecutori dei figli d’Israele, la sete di vendetta, la gioia di assistere alla grande miseria della Polonia cattolica e intollerante, si manifestavano con ati di coraggio e di violenza, insoliti negli ebrei di Nalewki, muti e passivi per prudenza e per tradizione. Gli ebrei diventavano sediziosi: brutto segno per i polacchi.
Le notizie che i fuggiaschi recavano dalle regioni invase alimentavano lo spirito di sedizione: in ogni città, in ogni villaggio conquistato, i bolscevichi si affrettavano a installare un Soviet, composto di Ebrei del luogo. Da perseguitati, gli ebrei diventavano persecutori. Il fritto della libertà, della vendetta e del potere era troppo dolce perché la miserabile plebe di Nalewki non agognasse di mettervi i denti. L’esercito rosso, che ormai era a poche miglia da Varsavia, aveva un naturale alleato ne’enorme popolazione ebraica della città, che ogni giorno più cresceva di numero e di coraggio. Ai primi di agosto, gli ebrei di Varsavia si calcolavano a mezzo milione. Mi sono molte volte domandato, in quei giorni, che cosa trattenesse quell’enorme massa sediziosa, accesa d’odio fanatico e famelica di libertà, dal tentare un’insurrezione. Qualunque colpo di mano sarebbe riuscito.
Lo Stato in dissoluzione, il governo in agonia, l’esercito in ritta, gran parte del territorio nazionale invaso, la capitale in preda al disordine e già stretta d’assedio: mille uomini risoluti e pronti a tutto sarebbero bastati per impadronirsi della città senza colpo ferire. Ma l’esperienza di quei giorni mi ha persuaso che se Catilina può essere ebreo, i catilinari, cioè gli esecutori del colpo di Stato, non debbono essere reclutati tra i figli d’Israele. Nell’ottobre del 1917, a Pietrogrado, ilo Catilina dell’insurrezione fu l’ebreo Trotzki, non già il russo Lenin; ma gli esecutori, i catilinari, erano in maggioranza rissi, marinai, soldati e operai. Nel 1927Trotzki, nella sua lotta contro Stalin, dovette imparare a sue spese quanto sia pericoloso tentare un colpo di Stato affidandone l’esecuzione a elementi in maggioranza ebrei.»

Al di là della tesi sostenuta da Malaparte nel suo libro (pubblicato in Francia nel 1931 ma in Italia solo dopo la caduta del fascismo, nel 1948), e cioè che, negli Stati moderni, la presa del potere con un atto di forza è una questione più tecnica che politica, resta il fatto che la sua testimonianza di prima mano getta una luce significativa sui reciproci stati d’animo esistenti a Varsavia fra la popolazione polacca e la forte minoranza ebraica; stati d’animo che, passato il pericolo, non poterono non gettare un’ombra durevole sui rapporti fra le due comunità.
La battaglia di Varsavia, combattuta dal 13 al 25 agosto, costò ai Sovietici perdite enormi: 60.000 uomini vennero fatti prigionieri e il governo sovietico dovette intavolare trattative di pace per contenere la pericolosa controffensiva polacca. Tale successo spianò la strada al potere di Pilsudski, visto ormai come un eroe nazionale e deciso ad instaurare con mano di ferro un regime autoritario di tipo parafascista.
Ed è bene ricordare che il regime di Pilsudski fu fortemente antisemita fin dall’inizio, per le ragioni che ora crediamo di avere sufficientemente  illustrato; ma quanti storici occidentali, e specialmente italiani, si ricordano ancora di dirle, queste cose? Piuttosto, si continua a stracciarsi le vesti per le leggi razziali di Mussolini del 1938, senza troppo insistere sul fatto che esse scaturirono da una necessità di politica estera, discutibile fin che si vuole  (l’avvicinamento alla Germania), mentre non avevano quasi alcuna base ideologica all’interno del fascismo.
Quando finiremo di scrivere la storia a senso unico, mettendo tutti i buoni da una parte (guarda caso, i vincitori di turno) e tutti i cattivi dall’altra (gli sconfitti), per trovare il coraggio di guardare la delicata complessità degli eventi umani, nelle loro luci ed anche nelle loro ombre?