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La frontiera contro la metropoli

di miro renzaglia - 22/04/2010



E’ una manìa tutta americana quella di immaginare le proprie immense metropoli, ma anche le piccole città della loro provincia devastate da guerre, inondazioni, cicloni, invasioni marziane, morti viventi, virus letali e altre catastrofi possibili e impossibili. L’elenco della letteratura e dei film hollywoodiani con un tale soggetto è praticamente interminabile. E non dà segni di stanchezza, visto che dal 20 aprile è nelle sale: La città verrà distrutta all’alba, remake, dal titolo identico, di un vecchio successo del grande George Romero, uscito nel 1973 con la sceneggiatura di Paul McCollough. La trama, a sfondo horror, è in realtà paradigmatica del ricorrente immaginario apocalittico di cui dicevamo sopra ma, anche, del rapporto del cittadino americano con le proprie istituzioni e, brevemente, è questa: la tranquilla Evans City, in Pennsylvania, è investita da un’ondata di violenza: normali cittadini si trasformano in killer seriali a causa di una’arma biologica, la tossina “Trixie”, riversata nei serbatoi idraulici da un aereo militare ivi accidentalmente precipitato. Non bastasse già tanto a maledire quelle sante istituzioni che sono gli eserciti militari di ogni latitudine e longitudine e i loro mortiferi armamentari, il potere centrale, non trovando antidoti all’epidemia assassina, ordina ai propri reparti speciali l’eliminazione fisica della città tutta. E così avverrà.

Perfino al di là dello specifico racconto cinematografico, è Emiliano Ilardi, insegnate di sociologia presso l’Università di Cagliari – autore fra l’altro di Il senso della posizione. Romanzo, media e metropoli da Balzac a Ballard (2005) – con il suo saggio La frontiera contro la metropoli (Liguori Editore, pp. 110, € 12,50, disponibile anche in versione e-book a € 6,00) a spiegarci le cause consce ed inconsce  di una così fiorente cultura autodistruttiva.

«È da almeno un secolo – scrive l’autore –  che l’America assiste, attraverso romanzi, film, serie TV e videogiochi, alla distruzione delle sue città (meteoriti, uragani, terremoti, alieni, rivolte, attentati). Possibile che proprio la cultura americana contenga una forte carica antimetropolitana? Eppure la parola metropoli evoca immediatamente i grattacieli di New York, lo sprawl di Los Angeles, le luci di Las Vegas. Scopo di questo lavoro non è la ricostruzione storica del pensiero antiurbano degli Stati Uniti, ma capire le ragioni che impediscono alla cultura americana di convivere con la metropoli, di accettarne le relazioni sociali, di mediarne politicamente e simbolicamente i conflitti. Alla metropoli gli americani affidano un’unica grande funzione: quella di creare spazio, di inventare nuove frontiere. È quel luogo magico in cui tutte le forze della nazione (economiche, politiche, sociali, culturali, tecnologiche) si alleano per produrre nuove dimensioni spaziali. Una volta raggiunto lo scopo, non serve più e va abbandonata o distrutta il prima possibile». Sembra quasi ovvia la conclusione al postulato che, non potendolo fare materialmente, l’americano sublima il suo desiderio di annientare gli immensi agglomerati in cemento nella costruzione di immaginario.

In effetti, e a pensarci bene, il sogno americano vissuto dai pionieri, fin dalla scoperta del Nuovo Continente, non era quello di fondare città ma di trovare spazi liberi dal controllo dello stato e della proprietà inalienabile per eredità, come avveniva in Europa. Le prime città erano pensate quasi esclusivamente come semplici stazioni di servizio, luoghi di ristoro per potersi spingere più avanti ancora e sempre più avanti: uno stato di necessità provvisorio, non il luogo per permanere. E lo sceriffo era, come rappresentante della legge statale, un sopportato, nel migliore dei casi, se non un bersaglio da tiro per il Billy The Kid, pluri celebrato “fuori-legge”, di turno. E finché c’è stata frontiera aperta e terra libera sotto il passo dei coloni, il sogno è rimasto vivo. L’incubo è arrivato quando il pioniere si è trovato davanti l’ultimo orizzonte: il deserto o il Pacifico. E quando anche l’ultimo centimetro di libertà dell’individuo venne messo a registro dalle regole della legge che già vigevano imperanti nelle organizzazioni urbane.

Senza che ciò, tuttavia, abbia posto a indice di rassegnazione il desiderio di fuga dalla metropoli. Di cos’altro è espressione quel monumento aereo che la cultura beat ha posto in essere con On the road di Jack Kerouac? Se l’aria della città non rende liberi, allora la strada diventa l’unica soluzione. La strada, non la ferrovia; non il treno con i suoi itinerari previsti e le sue stazioni prescritte ma l’automobile o la motocicletta (do you remember Easy Rider?) che lasciano al viandante la possibilità  di scegliersi, ad ogni incrocio, ad ogni quadrivio la “svolta” determinante il proprio e solo il proprio percorso. Via dalla città diventa, quindi, un imperativo categorico per rimanere fedeli al sogno, anche quando il sogno si frantuma in minuscoli frammenti di realtà: un cesso di autogrill, o un buco di stanza di motel. Ovunque – sembra dire il transfuga  – ma fuori da qui: dalla maledetta città.

L’indagine di Ilardi, seguendo la chiave interpretativa del conflitto fra città e strada, tra metropoli e frontiera, disegna la storia americana negli snodi del suo cammino: dalla conquista del West coltivabile, all’industrializzazione capitalista; dal tentativo di addomesticare la wilderness – la regione selvaggia – nei parchi nazionali (tipo Yellowstone) ai Central Park, visti come «il più ridicolo tentativo di riprodurre il villaggio puritano in piena New York»  e dove il grattacielo che li delimita è definito «luogo in cui la folla perde la sua anomia [per essere] funzionalizzata e incanalata in percorsi prestabiliti», fino al tentativo di percorrere la strada inversa e riprodurre nei sobborghi metropolitani gli antichi villaggi dei pionieri, secondo la filosofia urbana dei sobborghi. Ma, per ironia della sorte di  Lewis Mumford, il sociologo e urbanista che li concepì (i sobborghi) come antidoto all’invadenza dell’anomia per sovraffollamento  metropolitano: «Il sobborgo, lungi dal rappresentare una nuova esperienza comunitaria, non è altro che il feroce individualismo della frontiera, quello che non conosce comunità…». Evidentemente, c’è poco da opporsi al proprio Dna: a differenza della Rivoluzione francese che fu eminentemente sociale e cittadina (non a caso i rivoluzionari parigini si appellavano l’uno l’altro con il titolo, appunto, di “cittadino”, e non si fecero scrupolo di annientare la Vandea contadina), la Rivoluzione americana concepì e percepì se stessa come espressione della libertà individuale maturata nelle praterie dell’ultima frontiera prossima e successiva.

E anche quando la frontiera continentale è conquistata, ed è proprio l’ultima, l’americano non si arrende all’evidenza: nel Novecento, con le guerre mondiali e quelle successive, si aprono nuovi orizzonti al di là dei due Oceani. Inoltre, c’è lo spazio celeste da colonizzare e, non bastasse questo, c’è anche quello virtuale per immaginare un’altra vita. Fosse pure una “Second Life” al silicone (o al simil-clone), proprio al confine fra essere e non essere.