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Occidente spaccato a Kabul

di Roberto Zavaglia - 25/04/2010

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L’Afghanistan è, per dirla con le parole di Alessandro Colombo nel suo recente e importante libro “La disunità del mondo” (Feltrinelli), il “luogo emblematico di dissoluzione della potenza”. Dopo che vi era stata fiaccata quella dell’impero britannico, toccò al colosso sovietico sperimentare, nel secolo scorso, l’irriducibilità dei suoi abitanti ad accettare un dominio straniero. Gli Stati Uniti, la sola superpotenza esistente, non sanno ancora come venire a capo della situazione, a nove anni dall’invasione di quel Paese di contadini e pastori, capaci di trasformarsi in formidabili combattenti.
  Mentre le difficoltà degli Usa sono sotto gli occhi di tutti, poco si parla della misera prova che di sé sta dando pure la Nato. L’Alleanza Atlantica, come è noto, è alla guida della missione Isaf che affianca gli statunitensi nella lotta contro la ribellione talebana. La Nato, però, è entrata nella nuova guerra afgana in ritardo e per vie tortuose. All’indomani dell’11 settembre, Bush rifiutò di servirsi dell’articolo 5 dell’alleanza, come gli avevano invece chiesto gli europei, che comporta l’aiuto dei Paesi aderenti all’organizzazione militare in caso di attacco a uno dei suoi membri. La Nato venne privata di ogni ruolo preparatorio e operativo perché Washington, bramosa di un’immediata “vendetta”, intendeva mantenere le mani libere, senza perdere tempo in trattative e mediazioni con altri governi. All’alleanza di cui erano il dominus gli Usa preferirono piuttosto, dopo la presa di Kabul, la presenza di una debole forza di stabilizzazione (Isaf) nella capitale del Paese, sotto l’egida dell’Onu.
  Solo nel 2003 la guida dell’Isaf passò alla Nato che fece di tutto per entrare in gioco, in modo da giustificare la sua esistenza dopo che la scomparsa dell’Unione Sovietica, per contrastare la quale era sorta, ne aveva messo in dubbio il ruolo. A quel punto, agli Usa, che pensavano di avere finito il “lavoro grosso”, ma scoprivano le prime difficoltà della “pace”, andò bene ricevere un aiuto sul campo. Nei due anni successivi, la Nato estese progressivamente la sua missione a tutto l’Afghanistan, ma scoprì che si trattava di un compito meno semplice del previsto quando, nel 2006, le sue truppe incominciarono ad essere inviate nelle zone del Sud e dell’Est, le più calde del Paese per la forte presenza della guerriglia. A farne le spese sono stati soprattutto i contingenti britannici e canadesi, che sono quelli, dopo gli statunitensi, ad avere subito le maggiori perdite.
  Quasi da subito, si venne a creare una divaricazione tra gli eserciti dei Paesi che avevano accettato di combattere contro l’insorgenza e quelli che presidiavano regioni più tranquille i quali, pur con qualche differenza di approccio, si limitavano a difendersi da attacchi sporadici. Ogni contingente, comunque, agiva secondo le direttive, le regole e i cosiddetti caveat stabili dal proprio governo. Di fatto, non è mai entrato in azione un comando integrato dell’alleanza, anche perché il Consiglio Nordatlantico non aveva dato una ordine ufficiale per l’intervento in Afghanistan. La situazione è dunque quella di un teatro di guerra in cui combattono molti Paesi sotto il simbolico cappello della Nato, senza che le strutture di comando dell’alleanza decidano o coordino alcunché. Si tratta di un disastro politico, militare e d’immagine per la Nato alla sua prima vera prova del fuoco, dopo i bombardamenti aerei sulla semi inerme Serbia.
  E’ significativo che mentre negli Usa si discute accanitamente intorno alle strategia da adottare, in ambito Nato è quasi del tutto assente un lavoro di riflessione simile. Il “surge” deciso da Obama, con il massiccio invio di rinforzi, rende ancora più marginale il ruolo dell’Alleanza Atlantica che, nonostante le pressanti richieste di Washington, riuscirà a fornire, al massimo, sette-ottomila soldati in più. Anche la Turchia, considerata durante la Guerra fredda un imprescindibile baluardo dell’Alleanza Atlantica, intende la missione a modo suo, rifiutando compiti di combattimento (si è contato un solo caduto tra i suoi soldati) e privilegiando, in un’ottica di interesse nazionale, la tutela di quel 10% abbondante di popolazione turcofona. Quella in Afghanistan è, dunque, sempre più una guerra degli Usa che si sentono autorizzati ad intervenire pesantemente anche in quei settori affidati ad altri Stati, rischiando di coinvolgerli nell’escalation in atto.
  La Nato esce con le ossa rotte dalla prova Afghanistan poco dopo il  suo allargamento ad Est che ne aveva esteso le competenze territoriali. I suoi vertici pensavano di essersi assicurati un solido futuro anche attraverso il nuovo concetto strategico che fa dell’alleanza uno strumento, almeno potenziale, di sicurezza e stabilizzazione a livello globale. Questi due risultati, però, non stati un successo della Nato, ma piuttosto dei soli Stati Uniti, i quali, nel Baltico, possono ora direttamente guardare l’ex nemico russo dall’altra parte del confine. Anche il ruolo di gendarme globale può essere assunto solo da Washington che è l’unico Paese della Nato a disporre di una capacità di proiezione delle proprie forze a livello mondiale.
   Se con Bush si era consumata una parziale rottura tra Washington e la “vecchia Europa”, il clima non sembra cambiato di molto, sul piano concreto, con la presidenza Obama. Nel Vecchio Continente, dopo le troppe illusioni dei primi tempi, si è compreso che il nuovo presidente chiede, con toni più garbati e con finalità meno aggressive, più o meno le stesse cose che pretendeva il suo predecessore: un aiuto per favorire le strategie decise a Washington. Il multilateralismo e il “decidere insieme” di Obama funzionano fino a quando l’agenda europea coincide con quella Usa. Quando vi sono divergenze sostanziali, come nel caso della Conferenza sul clima di Copenaghen, gli Usa trascurano “lo storico alleato con cui condividono radici culturali e obiettivi politici” e non si fanno remore di affiancarsi alla Cina per sabotare ogni mediazione possibile.
  Il fascino di Obama è sempre meno seducente per l’Europa che gli rifiuta rinforzi sostanziosi per l’Afghanistan e non cambia parere quando il presidente chiede l’ingresso della Turchia nella Ue. Certo, la sudditanza e la sfiducia nelle proprie forze rimangono elevate in un’Europa che non ha il coraggio di avviare una ridiscussione generale sui rapporti con la potenza d’oltre atlantico. Quella Nato che rimane indiscussa e indiscutibile sta però mostrando in Afghanistan tutta la sua debolezza effettiva. Dovrebbe apparire chiaro come la vera forza e i veri scopi dell’Alleanza Atlantica siano ormai solo di natura politica, rappresentando lo strumento dell’egemonia Usa sull’Europa e mettendone, tra l’altro, a rischio i rapporti con la confinante, e necessaria per molti aspetti, Russia. Anche se l’ideologia dominante cerca di occultarla, la realtà dei fatti è spalancata davanti a quanti hanno il coraggio di guardarla.