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Inopportunisti contro cazzeggiatori, ovvero elogio del pensiero libero

di Franco Cardini - 25/04/2010


Nuntio vobis gaudium magnum. Scrivo all’alba del 23 aprile 2010: il sole è entrato da due giorni nel toro, oggi è il genetliaco di William Shakespeare, siamo in piena ancorché timida primavera, la nube del vulcano islandese incombe ancora su di noi ma il mondo è bello e santo è l’avvenire. La strada da fare è ancora lunga, e senza dubbio vi saranno difficoltà e amarezze. Poi, quando sentiremo di essere usciti da questo brutto tunnel, verranno altre prove: la vita è fatta così.

Però, questa è fatta. Ieri, abbiamo assistito tutti al principio della fine della Dittatura del Berluskariato. E’ vero che la stampa aziendale, saldamente tenuta in mano dal personale di servizio di Arcore, ha travestito la cocente sconfitta del Berluska dal suo trionfo solo perché la Direzione nazionale di un partito-ameba che non c’è ma che coagula funambolicamente milioni di voti di cittadini disorientati, disinformati e incoscienti hanno votato, con poco più di una decina di coraggiosi, come voleva il Sciur Padrùn. Però l’abbiamo visto tutti il Sciur padrùn livido in volto, mentre minaccia dall’alto del podio la terza autorità ufficiale della repubblica rea di non voler star più al suo gioco. Berlusconi ha umiliato Fini, ha blaterato in coro la stampa asservita. E’ vero il contrario, perdinci, e il Sciur Padrùn se n’è accorto benissimo, e gli è andato di traverso, e mal pro gli faccia. “Leader carismatico”, lo proclamano quelli della sua corte di comprati un tanto al chilo e di voltagabbana, tutti gli ex-comunisti, gli ex-craxiani, gli ex-radicali e gli ex-missini uniti nella profonda coscienza che “Lui” li ha miracolati promovendo a ministri e a senatori gente che al massimo avrebbe fatto scialba figura in un consiglio comunale della prima repubblica e gestendo i due rami del parlamento che, grazie all’infame legge elettorale che egli ha voluto, è ormai fatta di reggicoda designati dall’alto e legittimati ohimè dal plebiscitario consenso di un popolo sempre più depoliticizzato e scippato di quelle che erano e dovrebbero essere le sue prerogative sovrane. Ben gli sta, al Popolo Bue. Ma ora l’incanto è rotto: Fini, che pur ha pesantissime responsabilità nella sua resistibile ascesa, ha dimostrato che gli si può dir di no. Pochi per adesso lo hanno seguito: ma, come si diceva nel Sessantotto, ca n’est qu’un debut. A quei pochi che non lo hanno abbandonato, se ne aggiungeranno altri: e sarà una frana. Se il Re è Nudo, figurarsi il Berluska.

Certo, nessuno è innocente. Se il Sciur Padrùn è stato e resterà ancora per alcuni mesi a esercitare il suo ruolo di Grande Corruttore della società civile italiana o di quel poco che ne rimane, ciò è dovuto al fatto che essa è costituita in gran parte da Piccoli Corrotti.

E allora, lasciatemi sciogliere un elogio al Pensiero Libero. Che non è il Libero Pensiero, espressione compromessa da laicisti anticattolici. Ma che è quello che è: il pensiero di chi non accetta di pigarsi alle circostanze e agli opportunismi.

Nemmeno io sono innocente. Nel 1993-94 ero talmente invelenito con la classe dirigente di allora, che mi capitò di ritenere che l’arrivo dell’avventuriero di Arcore avrebbe potuto portar una folata di vento rigeneratore. Invano il mio maestro di giornalismo, Indro Montanelli, mi avvertì, quando mi chiese di abbandonare “Il Giornale” ormai destinato a far da foglio dell’Azienda di Arcore e di seguirlo nell’avventura de “La Voce”. Berlusconi entra in politica per salvarsi dal disastro che incombe su di lui per le sue malefatte, mi avvertiva Indro. Non gli credetti. Invece aveva ragione lui.

Io sono un in opportunista, un anticamaleonte. Adagiato su un tavolo verde, divento immediatamente d’un bel rosso squillante. E viceversa. Sono stato orgogliosamente neofascista, al tempo in cui nella nostra Italia si mangiava solo Pane e Resistenza: e non so nemmeno io come sono riuscito, nuotando controcorrente, a vincere per concorso una cattedra all’università: perché nemmeno allora i concorsi erano uno specchio di equità. Ero abituato, cattolico demaistriano e “reazionario”, ad arrancare quando i padroni del vapore si sceglievano i loro Comitati d’Affari politici solo fra gli intellettuali di sinistra e i cattocomunismi.

Eppure, quel pur pesantissimo clima lasciava qualche spiraglio. “E’ un fascista, ma è intelligente, è preparato”, dicevano di me. Così insegnavo e scribacchiavo anche su qualche giornale. Certo, niente posti di rilievo, niente riconoscimenti, niente prebende e consulenze. Ma tiravo avanti a testa alta, perché potevo dir quello che volevo.

Così, mi capitò anche di venir notato. Nel ’94 mi notò una ragazzina leghista diventata per caso presidente della Camera, Irene Pivetti. Gli piaceva il mio cattolicesimo anarcoide, il mio dirmi reazionario in politica e nella cultura e socialista sul piano socioeconomico. Ch’è ancora quel che sono oggi, e come diceva Don Giovanni “No, no, ch’io non mi pento”. La Pivetti mi spedì nel Consiglio d’Amministrazione della RAI contro il parere del Berluska: allora, mi fregai altamente di non piacere granché al Gran Capo (che sembra non abbia simpatia per la gente con la barba): oggi, me ne congratulo e me ne vanto. Per due anni restai in RAI; ed evidentemente dovetti dar prova di una qualche capacità e di parecchio senso d’indipendenza, perché nel ’96, allo scadere del mandato, Walter Veltroni – che sapeva bene fino a che punto fossi d’una parrocchia diversa dalla sua – mi spedì a Cinecitta per altri sei.

Ma dopo allora, cioè dal 2002, provai ormai sessantenne che cosa sul serio significava l’ostracismo. Il Berluska era tornato al governo ed era decisamente incarognito. Io commisi alcuni peccati: mi schierai – e non senza cognizione di causa – con quelli che sostenevano che non tutto era chiaro nella ricostruzione ufficiale dei fatti del tragico 11 settembre 2001; poi, nell’estate del 2002, dissi (e ne addussi le prove) ch’era impossibile che Saddam Hussein disponesse di terribili armi di distruzione di massa, mentre il Berluska, nel nome della Libertà e della Dignità nazionale, si affrettava a mandare i nostri soldati a morire in Iraq e in Afghanistan per guerre infami che non ci riguardano, pur di far piacere al suo boss d’Oltreoceano, quel George W.Bush che resterà nella storia come il Più Coglione dei Tiranni. Il Berluska obbediva, il Grande Coglione gli affibbiava sonore pacche sulle spalle e lui era contento. A questo livello di mancanza di decoro l’uomo di Arcore ha trascinato il nostro paese.

Scrissi vari libri su quegli anni. Uno, significativo, uscì nel 2007 presso l’editore Fazi di Roma: si chiamava La fatica della libertà e nessun media di rilievo mostrò di accorgersene. Eppure non ero l’ultimo arrivato sulla scena culturale del Bel Paese. Il fatto è che sono un Opportunista e un Anticamaleonte; e il Berluska - padrone d’un partito-azienda, della radiotelevisione di servizio diciamo cosi “pubblico”, di case editrici e di giornali - manda avanti quelli che appartengono al partito opposto al mio: quello dei Leccaculo e dei Cazzeggiatori.

A questo punto va detto che conosciamo tutti alcune delle presunte regole d’oro del successo: aver sempre qualcosa da dire e una tribuna dalla quale dirla, non consentire all’opinione pubblica di scordarsi di noi, rilanciare costantemente la propria presenza in modo da dar l’impressione d’essere - al tempo stesso - presenti e indispensabili. Che poi questa presenza sia, nella sua essenza intima, profondamente superflua, è irrilevante. La cosa che conta èe che appaia il contrario. E che ci s’ingrazi i poteri che gestiscono i media di cui abbiamo bisogno.

In questa cultura dell’apparire, dell’esserci - che non è certo il Dasein di Martin Heidegger - l’Italia vanta dei primati da Guinnes, dei veri campioni del “c’era-questo-c’era-quello”. Essi sono - con le dovute, venerabili eccezioni – non certamente tutti, tuttavia molti fra i nostri politici, i nostri intellettuali e i nostri opinion makers. Come i Maestri della moda hanno bisogno di continue novità stagionali per le loro collezioni, allo stesso modo i Maestri del Pensiero Inesistente hanno bisogno di parlare, di scriver sui giornali, di apparire in TV. Di farsi credere onnipresenti e necessari. L’incensar il potere di turno è la scorciatoia per ottenere tutto ciò. E, al solito, il Leccaculo Cazzeggiante per sua natura tende a strafare: il Padrone si accontenterebbe anche di corvée adulatrici meno intense, ma è meglio abbondare: non si sa mai.

La fabbrica dei neologismi - nella quale essi sono tutto: coproprietari, cogestori, agenti pubblicitari, manovali, guardiani notturni...- li aiuta. Anni fa, ad esempio, si elaborò la categoria dell’ “impegno”: e allora tutti giù a dirsi impegnati, anche se si capiva benissimo che tale termine era, in realtà, un eufemismo per indicare la propaganda politica. Più di recente ci si adeguo alla dimensione del “pensiero debole”: dal momento che l’ideologia che si era cavalcata per far carriera - e che prometteva di rifondare il mondo, crear l’uomo nuovo e trascinare il paradiso in terra - si era fracassata urtando contro la storia, bisognava inventar qualcosa di soft per distrarre l’opinione pubblica. Et voila, personaggi fino ad allora rigorosissimi, abituati a strapazzar cose e persone con tanto d’occhi iniettati di sangue, diventarono gentilissimi cagnetti da salotto che ti confessavano con gentile umilta le loro debolezze e le loro sconfitte. Tutto cio si tiro dietro il “buonismo”: e gli arcigni custodi del Senso e del Vento della Storia si riciclarono in sorridenti e flessibili cultori di tutti i relativismi e i possibilismi di questo mondo.

L’ulteriore strillo del pret-à-porter intellettuale fu il “leggerismo”, che naturalmente si contrapponeva al “profondismo”. Ormai non lo chiamano più così: la parola, in effetti, non ebbe fortuna. L’aveva lanciata anni fa sull’ ”Espresso” Eugenio Scalfari il quale, rivisitando con l’usata arguta capacità di sintesi storia e filosofia universali, scopriva come a forza di voler andar in fondo alle cose si sprofondi; e proclamava pertanto solennemente che tutti i grandi spiriti dell'universo sono stati, in fondo, dei “cazzeggiatori”.

In effetti, cazzeggismo, cazzatologia e cazzeggiologia comparata - in attesa del sorgere d’una vera e propria cazzatosofia sistematica; e Dio non voglia che giunga il tempo della cazzatolatria - dominano ormai grande stampa e piccolo schermo. Accadeva anche prima: si trattava però d’iniziative private o di felici, casuali e sovente involontarie occasioni. Ma ormai, si è visto quante ballerine di fila del Gran Galà della Cultura Mondana si siano uniformate al nuovo verbo: quanti hanno tentato, spesso magari riuscendovi, di far passare la loro abituale stolidità per autentico Cazzeggiar d’Autore D.O.C.

E le citazioni già si sprecano. Pensate al grande Umberto Eco, che notoriamente ha continuato a lungo – ora, la quasi ottantina gli consiglia maggior prudenza – ad andar per osterie, a sbevazzare e a strafogarsi, a dir le parolacce, a inventar filastrocche in rima, a urlar a squarciagola le canzonacce goliardiche dei suoi anni verdi, quelle col paraponziponzipò: ma lui resta un Maestro, se lo può permettere. Ricordate Ugo Sciascia e il suo cazzeggiare pallido e assorto, da gran signore? Ricordate Federico Zevi, il suo sgranar piselli in pubblico, i suoi tormentoni, i suoi eroici furori dove non si sapeva mai se era un arrabbiato che si divertiva annoiandosi o un annoiato che si arrabbiava divertendosi o un divertito che si annoiava arrabbiandosi? Questi però sono i modelli “alti”, davanti ai quali sbiadiscono gli Sgarbi e i Mughini. Ma se l’intellettuale dev’essere uno che ingrana collanine di battute di spirito, che si diverte coi giochi di parole, che si butta sul ridere-ridere-ridere peggio di Petrolini, allora giù con la Hit Parade televisiva di quelli che la cultura la intendono e la vivono nel senso del girar con la sciarpetta di seta, il papillon, le camicie a scacchi, il ciuffo al vento, il cappelluccio. E pensate agli opinion makers. Avete presente tutti gli ex inferociti di Lotta Continua e di Avanguardia Operaia, ora passati giulivamente, e a quel che sembra senza alcun imbarazzo (salvo dar del provocatore a chi ricorda il loro passato), alla difesa delle magnifiche sorti del liberal-liberismo, e regolarmente premiati con la direzione o la vicedirezione di quotidiani nazionali, la titolarità di talkshows televisivi di grido eccetera? Ricordate gli apocalittici di professione, quelli che predicavano dagli spalti inattaccabili della Tradizione cattolica la rivolta contro il mondo moderno e che oggi pontificano sui periodici berlusconiani sostenendo che cattolicità e liberismo sian tutt’uno e che perfino il Sillabo di Pio IX, del quale sono estimatori e magari editori, diceva proprio quello per quanto non ne fosse cosciente? Leggerezza nel guardar alla propria coerenza – del resto virtù degli imbecilli, come dichiarava Giovanni Papini -, leggerezza nell’assolver se stessi così come nel condannare irremissibilmente tutti gli altri, quelli che la pensano in modo diverso.

Per la verità, questa storia dello “spirito di leggerezza” l’avevano già tirata fuori in parecchi. Se non sbaglio, sono i Padri della Chiesa ad affermare spesso che il diavolo non ride mai (il sorrisetto di scherno o la sghignazzata sono un’altra cosa). Se non prendo abbagli, le categorie dell’ironia, della satira, della parodia, del paradosso e perfino dell’allegria sono antichi strumenti della dialettica. Se non m’inganno, di “leggerezza” aveva già parlato il vecchio Nietzsche. Se non vado errato, un certo Johan Huizinga, in un modesto pamphlet intitolato Homo ludens, aveva già fatto l’elogio del gioco e dimostrato com’esso racchiuda una profonda, autentica serietà.

Ma ormai siamo al trionfo non solo del deja vu, bensì addirittura dell’ovvio. L’Italia sempre piu teledipendente è stata consegnata dal Sciur padrùn di Arcore, sotto il profilo dell cultura massmediale, in mano a una ben organizzata mafia di Grilli Parlanti, “intellettuali” per autocertificazione e per certificazione reciproca. Siamo abituati a vederli citarsi a vicenda, invitarsi a turno ai loro shows, far propaganda ai loro libri e l’uno ai libri dell’altro, scambiarsi favori sotto forma di premi letterari. L’italiano medio che - purtroppo - qualche volta entra ancora in libreria, i consigli su che cosa leggere se li fa dare dall’anchor man di turno. E da parecchi anni gli anchor men sono sempre gli stessi, o i loro amici (amiche), o i loro allievi (allieve), o i loro eredi. In passato, li abbiamo visti ridicolmente mobilitati ogni volta che i loro padroni politici avevano bisogno di un “manifesto” da far firmare. Oggi, li vediamo impegnati in battaglie politiche o intellettuali o sedicenti tali ch’essi combattono timbrando il loro bravo cartellino, con l’aria di chi lavora in un’azienda: e difatti c’è l’azienda-partito, l’azienda-Italia, mentre a Bassora abbiamo impiantato per ordine del Pentagono - è la dignita nazionale dei Frattini e dei La Russa - l’azienda-militarumanitaria che sostiene di fare il peacekeeping mentre invece, neomussolinianamente, serve la patria facendo la guardia a un bidone di benzina (quello che gli americani hanno promesso all’ENI, se il nostro paese continuerà a rendersi complice dell’occupazione dell’Iraq). Un bidone di benzina altrui.

Cazzeggiano, loro. Intanto, finito il sanguinoso “secolo breve”, col nuovo millennio si è tornati a bombardare e si è perfino rispolverata una fino a qualche anno fa impensabile attualitè delle crociate: e loro, ex di molte battaglie pacifiste, ci hanno riscodellato riscaldati i marinettiani elogi della guerra igiene del mondo, quella che esporta la democrazia. Sono accadute poi cose come l’orrore di Guantanamo: e loro, che col loro blaterar prezzolato o col loro silenzio quando non con la loro acquiescenza hanno favorito (talora perfino invocato) i bombardamenti sulla Serbia, sull’Afghanistan, sull’Iraq, tacciono. Ora, stanno inventando la minaccia nucleare iraniana (per il nucleare militare occorre l’uranio arricchito all’80%: l’Iran può arricchirlo solo fino al 3,5%).

Ma qualcuno accusa i cazzeggiatori, ormai diventati impiegati dell’azienda brianzola che per ora continua a “governarci”, di cinismo e di latitanza morale: ed eccoli pronti a sfoderare l’ennesimo alibi, a rivendicar il loro diritto al cazzeggiamento travestito da nuovo impegno politico.

Nossignori, non possiamo starci. Questa gente, o i loro maestri e protettori, un ventennio fa non perdeva occasione per lanciare appelli e redigere manifesti. Ricordiamo tutti che, proprio sul medesimo organo di stampa che si fece poi alfiere del cazzeggiamento teorizzato da Scalfari, illustri intellettuali ormai da tempo iscritti nelle folte file del partito dei cazzeggianti, dei cazzeggisti e dei cazzeggiofili incitavano ieri a imbracciare il mitra e a rovesciare la società del privilegio. E’ anche a causa del clima da essi instaurato - e al quale molti di essi sono debitori di cattedre universitarie, scranni parlamentari, poltrone dirigenziali di vario genere - che a suo tempo vennero ammazzati i Calabresi e i Casalegno. Negli anni di piombo per causa loro andarono ad uccidere e a morire tanti ragazzi di destra e di sinistra vittime delle cose che i cazzeggiatori di oggi scrivevano per guadagnarsi le prime pagine e per far carriera. Ora l’hanno fatta: e continuano a imperversare, dopo aver tranquillamente cambiato musica. Al servizio del Sciur padrun.

Nossignori: non ci sto. Intendiamoci, non sto proclamando nessuna guerra totale: molti di questi personaggi sono intelligenti, abili, perfino simpatici; magari hanno un sacco di buone qualità umane e individuali. Non mi sognerei mai di indicarli come candidati ad alcuna gogna e nemmeno di toglier loro il saluto: sarà che da buon cattolico allievo della Compagnia di Gesù sono un possibilista e non riesco a indignarmi delle debolezze umane e tanto meno a sentirmene estraneo; sarà che sto invecchiando. Tuttavia, non mi piace la loro abilità nel dir come se niente fosse quello che il Padrone vuole che tutti dicano e pensino e poi proporsi a capofila di quel che tutti dicono e vogliono sentirsi dire perché sono stati proprio loro a suggerirlo.

Sono sicuro che ogni uomo ha un prezzo e credo che pochi potrebbero dire in buona fede che, quanto a loro, non si venderebbero mai. Spesso chi non si è venduto lo ha fatto soltanto perché non ha mai trovato un compratore. Vorrei soltanto, per il rispetto dell’uomo che ho appreso da Platone, da Gesù e da Erasmo da Rotterdam, che ci si vendesse solo a prezzi altissimi, stratosferici: e qui mi sembra invece che stia crollando il mercato.

Una settanta-ottantina d’anni or sono, quando in Italia andava di moda il “Me ne frego!”, uno che la fronda la faceva sul serio e la pagava di tasca sua, Berto Ricci, scriveva su “L’Universale” - tanto caro a Indro Montanelli; e anche a me - che no, non era lecito, non si poteva proprio fregarsene, perche stavano succedendo nel mondo cose molto gravi.

Oggi le cose sono cambiate, ma il problema di fondo resta. Non c’e nulla da cazzeggiare. E il peggior cazzeggio odierno è quello di chi accetta di star con chi vince: è secondario che lo faccia per viltà o per furbizia o per interesse o perfino per ingenuità. Dalla persona di cultura e di pensiero ci si aspettano suggerimenti seri, che aiutino a vivere e a migliorare: il che oggi equivale a prender strade difficili, in salita. Se l’intellettuale rivendica un ruolo clownesco e salottiero, se accetta e anzi sollecita il suo ruolo di gadget inutile - ma strapagato - nella società dei consumi, se invita al cazzeggio come forma di filosofia esistenziale (e la forma piu ricercata e meglio retribuita del suo cazzeggio è oggi dar ragione al più forte, soprattutto perché il piu forte riesce bene a far creder di averla), allora si deve rispondergli chiedendogli a quanto ammontano i guadagni del suo cazzeggiare. Perché il cazzeggiator cortese appartiene - in questo nostro mondo globale - al tipo di persona disposto a giustificare che i l 15% della popolazione del pianeta gestisca l’85% delle risorse e gli altri vivacchino sulle briciole che restano. Sfido che, a chi si trova bene in questa condizione, gli venga il cazzeggio facile.

Ma chiedetelo agli altri. Chiedetelo ai kosovari, ai ceceni, agli irakeni, alla gente di Timor Est, ai disgraziati costretti a lasciare il loro paese per fuggir la miseria, chiedetelo alle folle diseredate e sfruttate d’Africa e d’America, chiedetelo ai bambini che muoiono di AIDS, chiedetelo ai poveri del sud del pianeta ai quali le multinazionali stanno vendendo a caro prezzo l’acqua potabile, da “diritto” degradata” a “servizio” per la gloria della Nestle, della Danone e della Coca Cola.

I diseredati, però, c’impartiscono una dura lezione. Quella che la vita non è un premio letterario, non è un festival, non è una battuta di spirito, non è una puntata del “Grande Fratello” o dell’ “Isola dei Famosi”. La Dittatura del Berluskariato ha semiaddormentato le coscienze e si e insediata su questo dormiveglia collettivo. E’ l’ora di svegliarsi. E il primo passo dev’essere, appunto, individuare Leccaculo e Cazzeggiatori: e chiamarli con i loro nomi, anche quando – soprattutto quando – sono Venerabili Mezzibusti Televisivi oppure Signori Professori.