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Ditirambi di Dioniso

di Enrico Schirò - 25/04/2010


 

 

 

 

 


 

Sebbene siano caduti nel dimenticatoio, i Ditirambi di Dioniso, uno degli ultimi scritti non pubblicati personalmente da Nietzsche, che vi mise mano in quei fatidici primi giorni del Gennaio 1889, hanno diviso la critica tra coloro che ne contestavano finanche il valore letterario (Ladislao Mittner ad esempio) e coloro che, invece, apprezzandone fonti e destino letterario – destino che avrebbe portato i suoi frutti in particolare nell'esperienza dada e nell'ermetismo novecentesco – rimanevano scettici sul valore filosofico del loro contenuto (Italo Alighieri Chiusano e Giorgio Colli in particolare).

L'edizione Rizzoli, curata da Sossio Giametta, allievo e collega di Giorgio Colli, vuole introdursi direttamente nel dibattito sottile – pungente e silenzioso – a proposito della leggibilità e dello statuto (letterario, filosofico, autobiografico) di questi testi e lo fa proponendo una nuova traduzione accompagnata da un apparato di note e soprattutto da un commentario rigoroso e puntuale che cerca di recuperare il senso negletto della conclusiva esperienza poetica nietzschiana.

L'operazione ha una sua strategia specifica che riposa su un argomento in qualche modo sicuro: i componimenti qui presentati non sono, come aveva asserito Colli, guidati «da una certa accidentalità» (p. IX), ma semmai, in quanto costruiti nel tempo e solo in parte composti nell'ultimo anno di lucidità del moralista, indicherebbero un qualche intento programmatico. Alcuni dei componimenti, infatti, «furono composti prima e soltanto raccolti e sistemati da ultimo, quando Nietzsche già scriveva e spediva i biglietti della follia: segno, questo, che essi corrispondevano a un bisogno costitutivo e non meramente occasionale» (p. XI).

Si può concordare con il giudizio di Colli quanto alla mancanza in questi testi di autonomia espressiva, «ma soltanto in senso estetico [...] perché essi, invece, consentono a Nietzsche un'apertura emotiva, di disserrare la sua impervia interiorità, che le altre opere non gli consentivano» (p. XI). Giametta articola allora il discorso attorno alla specificità espressiva e mediale di ogni arte e alla possibile lettura di questi testi come una delle tante manifestazioni di una personalità poliedrica: «Questa ricca, complessa, contrastata personalità, che è più precisamente quella di un pensatore-moralista-poeta-filologo-psicologo-profeta, richiede ed è capace non di una sola, ma di più forme di espressione» (p. VII).

In conclusione è certamente possibile, a giudizio di Giametta, rimproverare a Nietzsche il disimpegno espressivo e artistico, altrimenti assente nella sua produzione, ma non è in alcun modo permesso delegittimare i Ditirambi a Dioniso utilizzando un apparato concettuale troppo costrittivo (dalla questione del genere letterario, all'impossibilità di una verifica dell'esperienza lamentata da Colli), o una strategia escludente che agiti lo spauracchio della follia.

Tuttavia a questo proposito non credo si possa concordare del tutto con Giametta, se non altro per mancanza di radicalità. All'interno di una cornice escludente l'argomento della datazione dei testi può certamente funzionare con ragionevolezza, ma, per quanto l'evento della follia, nel caso di Nietzsche, non possa essere in alcun modo negato o ricondotto a strategia teatrale, si dovrebbe forse prendere sul serio la lettera della follia se non nel suo significato semantico – probabilmente non più ricostruibile – almeno nella significanza, per usare un concetto di Roland Barthes, dell'atto di scrittura e di invio. In caso contrario non potremmo che discutere ancora e per sempre sul senso proprio del messaggio nietzschiano, sulle intenzioni di quella voce che, rifiutando l'onorificenza di «pretendente della verità», rispose: «No, solo giullare, solo poeta!» (p. 3-5).

Nei Ditirambi a Dioniso parla, talvolta mascherato, l'uomo di conoscenza; un uomo che è una fiamma «la cui brama guizza in fredde lontananze» e che «verso sempre più pure altezze piega il collo» (p. 59). L'anima stessa dell'uomo di conoscenza, l'anima stessa di Nietzsche è questa fiamma che «insaziabile divampa in alto, in alto/ verso nuove lontananze» (ibidem), abbandonando ogni terra ferma, ogni stabilità.

È questa una fiamma dionisiaca, una fiamma che, insaziata, arde e si consuma; immagine duplice e impossibilitata a qualsivoglia movimento dialettico, di un divenire-luce e di un divenire-carbone: «Luce diventa tutto ciò che tengo,/ E ciò che lascio, carbone e fumo:/ Fiamma sono io sicuramente» (Ecce Homo, cit. p. 65). Tenere, forse trattenere e lasciare insieme sono le due prospettive di un unico gesto che produce fumo e luce al medesimo tempo. Sarebbe forse possibile leggere questo gesto con la lente heideggeriana del trattenere e del lasciar-essere l'ente, ovvero della Sorge e della Gelassenheit, se non fosse che la pietas del filosofo di Meßkirch difficilmente può apparentarsi con la figura, dionisiaca al pari della fiamma, dell'amico che muore «vincendo, annientando...» (p. 41).

La figura dell'amico, dietro alla quale con molta probabilità si nasconde Wagner, è la forte presenza di una trasformazione reale e non solo possibile dell'umano – dietro al Letzter Wille si è voluto vedere, in effetti, un'ulteriore formulazione della dottrina dell'Übermensch; figura di danzatore nella battaglia, «tra i guerrieri il più ilare,/ tra i vincitori il più grave,/ piantato come un destino sul suo destino» (ibidem). Di questo ditirambo due aspetti sono rimarchevoli: da una parte il fatto che, come scrive Sossio Giametta, «il ditirambo regge così com'è, senza un nome» (p. 42) e che perciò non è poi necessario sottolineare quel «l'amico che lampi e sguardi divinamente gettò nella mia oscura giovinezza» (p. 41) per scorgervi il compositore di Lipsia – anche perché l'assenza del nome, forse, altro non è che un nome diverso all’interno di quel «io sono tutti i nomi della storia» che risuona nella famosa lettera inviata a Burckhardt il 6 Gennaio 1889. Dall'altra parte, questo ditirambo è l'espressione, forse tra le più chiare, di una concezione meta-destinale del destino. Questo non sarebbe affatto un piano preordinato, prestabilito e assicurato dall'inizio dei tempi da qualche Dio o potenza trascendente, ma innanzitutto una destinazione, l'impressione di una svolta nel corso destinale della storia: un destino non ordinato dal passato, ma che apre il futuro interrompendo il corso degli eventi. Per questo motivo, in Nietzsche, il destino è sempre 'piantato su un destino', innestato potremmo dire.

Ma torniamo alla natura dionisiaca dell'uomo di conoscenza, della fiamma, dell'amico che muore vincendo e annientando al contempo. Cosa può una natura del genere? Cancella la cupa afflizione e  nutre «con forte cibo d'uomini e vigorose sentenze» (p. 23). Nelle parole del viandante, che si chiamava l'ombra di Zarathustra: «Soltanto tu fai l'aria intorno a te forte e limpida! Ho mai trovato sulla terra un'aria altrettanto buona che da te nella tua caverna? Eppure ho visto molti paesi, il mio naso ha imparato ad assaggiare e vagliare molte specie di aria; ma da te le mie narici provano il loro godimento massimo!» (ibidem). È noto che Nietzsche fosse un «un grande degustatore di aria, e [che] ne distingueva i vari tipi come un degustatore distingue i vari tipi di vino e di olio» (p. 37); il gusto dell'aria permetteva a Nietzsche di distinguere la salute dalla malattia. Così Zarathustra, l'uomo di conoscenza, non solo è un critico di arie malsane, ma un fattore di arie limpide; faro «per i naviganti sperduti» (p. 59) e annuncio, già presente nell'aria, di «una promessa,/ un soffio che giunge da bocche sconosciute/ – viene la gran rinfrescata...» (p. 67).

Ma contestare l'aria malaticcia dell'Occidente cristiano non è una pratica da sanatorio e, per arditezza, coraggio e veemenza, si corre il rischio di non ricevere più il plauso di nessuno. È il tema dell'ultimo componimento, che affronta di petto – «io sono la tua verità» (p. 109) – il problema: Nietzsche. Il problema, ovvero, di un pensiero tanto radicale da non permettere l'esistenza di un uditorio. Un pensiero radicale è un pensiero ricco – innanzitutto ricco di conoscenze, senza perciò essere ricco di archivi, documenti e scartoffie storiche – un gai saber, il pensiero di chi ha l'aria di aver «inghiottito l'oro». Ma chi mai dovrebbe amare un «Überreicher»?

La verità di Nietzsche parla e spiega: «La tua felicità fa arido intorno, fa povero d'amore – una terra senza pioggia» (p.107). Ed ecco spiegate le tristezze decennali – «Dieci anni son passati – /Non mi giunse una goccia,/ non un umido vento, non una rugiada d'amore/ – una terra senza pioggia...» (p. 101) – la malasorte (p. 89), la freddezza – ben rappresentata nel ditirambo Klage der Ariadne, che, a tutti gli effetti è l'inversione di un lamento nietzschiano (p. 75) – il bilancio consuntivo di Die Sonne sinkt con il suo dubbioso «– Percorsi troppo presto il mio cammino?» (p. 69). Del resto «sol s'amano i sofferenti» (p. 109) e non certo i «cuori traboccanti» (p. 107). Questa è la verità di Nietzsche annunciata a lui stesso da sé medesimo in una delle tipiche estraneazioni teatrali, dissacranti, fulminee del suo stile.

Ma la solitudine dell'uomo di conoscenza – una figura che torna spesso nei ditirambi sotto la dicitura non decifrata di settima o settupla solitudine – l'assenza di riconoscimento (umano, sociale, culturale, destinale) è anche il trampolino e l'occasione per un'auto-riflessione solida, ferma e lucida che è in gran parte la cifra di questi ditirambi e che solo per cecità può essere misconosciuta. Ruhm und Ewigkeit, non plus ultra grazie al quale Nietzsche avrebbe, a suo dire, «poetato al di là di tutti i sette cieli» (p. 88), trasformano la dannosa afflizione – tanto più dannosa in quanto lascia Zarathustra «diffidente, ulcerato, fosco, uno che da un pezzo sta in agguato» (???) e che gli fa covare un uovo di basilisco (figura mitologica e biblica di serpente velenoso) – prima in maledizione, poi in disprezzo della fama e infine in visione estasiata e solitaria. 

Inoltre, quella stessa solitudine, quel deserto, quella terra senza pioggia che l'uomo di conoscenza si scava tutto intorno e il rammarico che essa produce, rischia di far precipitare Nietzsche in se stesso: chi ama l'abisso della conoscenza, che produce solitudine e sofferenza, non deve fare come l'abete, non deve mettere «radici dove/ rabbrividisce anche il dirupo/ che guarda in basso» (p. 45). Se si ama la conoscenza, se si ama l'abisso «si devono avere le ali […] non si deve restare appesi/ come te, impiccato!» (p. 47). Appendersi a se stessi significa essere catturati da se stessi, conficcati in se stessi in una dimensione in cui il conoscitore diventa un carnefice di se stesso (p. 49). Nel ditirambo Zwischen Raubvögeln le espressioni metaforiche a riguardo si moltiplicano: malato, prigioniero, incavernito in se stesso, che scava se stesso, sovraccaricato di sé, un enigma stanco. Certo queste parole non provengono dalla bocca di Zarathustra, ma dall'unico ospite di uno Zarathustra sugli abissi: il rapace. Figura accusatoria, intimidatoria, tentatrice, ma forse ancora maschera di un Nietzsche che si preoccupa del destino del suo messaggio abissale – penso all'ultima strofa in cui si dice che i rapaci sono già affamati dello «scioglimento» del suo enigma (p. 51).

In ogni caso, seppure la ricchezza auto-riflessiva del pensiero di Nietzsche, dell'ultimo periodo in particolare, non sia da sottovalutare da un punto di vista interpretativo quanto a forza espressiva e strategia enunciativa, appendersi a se stessi come all'ultima scialuppa di salvataggio, come un impiccato, non può che essere un rischio a cui si deve saper rispondere. E la risposta pronunciata da Nietzsche in questi stessi ditirambi non è altro che un'invocazione a una più profonda e ulteriore solitudine, che sia anche comunicazione tra solitari e annuncio, dedica e dono a essi: «verso tutti i solitari io getto ora l'amo» (p. 61). E in effetti non è forse questa solitudine scavata intorno, questa aridità di riconoscimento, questa tristezza dell'isolato, il contraltare di un ripiegamento su di sé che potrebbe portare infine a scavare dentro di sé un deserto? Alla terra senza pioggia che circonda l'uomo di conoscenza non fa da eco il deserto che cresce di cui Nietzsche parla in Unter Töchtern der Wüste? Con quel misterioso enunciato  «Il deserto cresce: guai a colui che alberga deserti...» non si può voler fare riferimento al contempo all'astioso disprezzo e alla macerazione emotiva dell'abbandonato e all'appiglio scavato dentro di sé, al sé ridotto a spelonca sicura, quel sé sconfessato da Nietzsche stesso come circolazione energetica imprevista e imprevedibile?

Ma forse esiste anche un'altra lettura possibile dell'ambiguo riferimento all'abete presente in Zwischen Raubvögeln. Altrove Nietzsche paragona Zarathustra ad un pino che, scrive, «cresce verso l'alto come te: lungo, taciturno, duro, solitario, fatto di legno migliore e più duttile, magnifico» (Così parlo Zarathustra, IV, «Il saluto», cit. p. 45); tutto al contrario di quelle immagini drammatiche dipinte nel ditirambo sotto il segno dell'abete che mette radici: solo con te stesso, falso di fronte a te medesimo, incerto, fiaccato da ogni ferita, freddo per ogni gelo, strozzato dai tuoi lacci (p. 47). L'abete, allora, potrebbe succedere al pino come colui che dopo essersi sollevato fino alle più alte vette, abbandonasse se stesso dal suo messaggio, liberando questo al suo destino e scomparendo dietro alla sua opera non in maniera monumentale, mancando del resto il riconoscimento necessario ad una consacrazione, ma fantasmaticamente, follemente, in una comunicazione senza senso che partendo dall'autobiografismo termina nella lettera: «È un pregiudizio che io sia un uomo» (Lettera a Cosima Wagner del 3 Gennaio 1889, p. 86).

 

Nietzsche, Friedrich W., Ditirambi di Dioniso, Rizzoli, Milano 2009, pp. 120, € 8