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Stiamo bene o stiamo male? Il paradosso della medicina moderna

di Stefano Di Ludovico - 26/04/2010


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Uno dei massimi vanti della modernità è il presunto e clamoroso progresso della medicina, grazie a cui possiamo senza ombra di dubbio affermare che l’umanità stia molto meglio di quanto stesse prima, molto più in salute di quanto non stesse nelle epoche passate. Malattie e patologie che una volta portavano irrimediabilmente alla morte o comunque a sofferenze atroci sono oggi debellate o in ogni caso curate in modo tale da non arrecare più quelle sofferenze che l’uomo era prima costretto a sopportare. La vita media si è incredibilmente allungata e, quanto meno nei paesi sviluppati ma tendenzialmente ormai in tutto il globo, medici, medicine e centri di cura sono alla portata di tutti per cui le malattie sembrano non spaventare più nessuno. Chi potrebbe mettere in discussione tutto ciò? Quale eventuale nostalgico dei bei tempi andati, di quando magari si stava meglio anche se si stava peggio, potrebbe negare anche tale indubbio aspetto dello sviluppo e del progresso della civiltà? Oggi stiamo tutti bene, o comunque stiamo molto meglio: sembra ciò che di più scontato si possa affermare circa il mondo in cui viviamo. Ma ne siamo così sicuri? Davvero non è lecito nutrire alcun dubbio in proposito? Davvero l’umanità gode di uno stato di salute come non mai nella storia? Cerchiamo di vedere più da vicino la questione; ci sia permesso quanto meno di indagare più approfonditamente il problema, che l’indagine e il dubbio non ci portino magari a sfatare qualche incrollabile certezza, qualche granitica verità e risultino per tanto, e inaspettatamente, essi stessi davvero “salutari”.
Innanzi tutto, è il concetto di “salute” che deve essere indagato, analizzato. Che vuol dire “star bene”, essere in “salute”? E cosa significa star meglio di altri, godere di migliore salute rispetto ad altri? Su quali parametri, principi, riferimenti ci basiamo? Ci sembra evidente che il discorso non possa che partire da qui, che tale appare il nocciolo della questione. A guardar bene, il concetto di “salute” - come quello corrispettivo di “malattia” - è un concetto molto relativo, e molto “soggettivo”. Soggettivo nel senso che la “salute” più che uno stato che appartenga all’oggetto – in questo caso quell’oggetto che è il nostro corpo – è una condizione propria del soggetto, quel soggetto che siamo noi in quanto realtà percipienti, sensibili, che avvertono un determinato stato del proprio corpo e più in generale una determinata situazione di vita appunto come “salutari” o, al contrario, come “malati”, ovvero come negativi, perniciosi, o quanto meno insopportabili, intollerabili. Per fare esempi banali: uno può star “male” per un raffreddore, e per ciò chiudersi in casa e imbottirsi di aspirine; un altro non farci nemmeno caso, e continuare a fare tutto quello che normalmente fa, in presenza o meno di quel fenomeno. Uno può ritenersi “malato” se ha 37 e mezzo di febbre e per tanto mettersi a letto; un altro sentirsi in ottima forma e andare tranquillamente a lavoro o a farsi l’abituale partita di calcetto. Considerando casi più estremi, sempre a titolo esemplificativo: uno può ritenersi malato perché ha perso l’udito, un altro trovare piacevole vivere senza sentire tutti i rumori del mondo (ci sono infatti gruppi di sordi che non si considerano “malati”, ma solo una sorta di “minoranza etnica” e come tali, e non come malati, vogliono essere tutelati dalla legge); fino ad arrivare al caso più emblematico, quello del masochista, che “gode” di tutto ciò che per gli altri sarebbe soltanto dolore, sofferenza, appunto “malattia”. A rigore, quindi, non è il dato fisiologico che può definirsi oggettivamente malato o meno, ma appunto la nostra particolare percezione di esso. E la percezione non può che variare da soggetto a soggetto, contribuendo alla definizione di essa tutta una serie di fattori sia strettamente individuali – il carattere, la psicologia, lo stato d’animo di quel particolare soggetto – sia ambientali, ovvero tutto ciò che è inerente all’educazione, alla società, alla cultura in cui quel soggetto è cresciuto e vissuto, di modo che certi fenomeni fisiologici possono apparire come “patologie” in un determinato contesto sociale e culturale e invece sintomi di buona “salute” in altri. In poche parole, anche i concetti di “salute” e di “malattia” sono, come tutti i concetti e le nozioni, costrutti mentali, culturalmente e storicamente plasmati e definiti, e che quindi variano a seconda dei contesti e delle situazioni in cui sono stati elaborati e di cui sono espressione.
Visto ciò, cerchiamo di capire in che senso possiamo noi sostenere di star meglio, di godere di miglior salute, rispetto ai nostri avi e che quindi la medicina moderna rappresenti un evidente progresso rispetto a quella di una volta. Proviamo a vedere innanzi tutto come se la passavano i nostri antenati, come vivevano e come si ponevano di fronte ai vari fatti ed eventi che interessavano il loro organismo e la loro vita in genere. Un dato balza subito agli occhi: pare che essi, gli uomini delle civiltà premoderne, ma, senza andare troppo indietro nel tempo, ancora i nostri nonni o bisnonni, vivessero praticamente – o certamente in misura quasi inavvertibile di fronte a ciò che avviene per noi oggi - senza “curarsi”, ovvero senza quasi mai vedere un medico, prendere delle medicine, farsi delle analisi, essere ricoverati in ospedale e cliniche varie; tutte cose che invece accompagnano e scandiscono la nostra vita quasi quotidianamente. Ma allora, se la gente viveva senza ricorrere a dottori e a medicine, non sarebbe già questo un segno di… buona salute? Pensiamo, per contro, al tempo che ciascuno di noi passa e ha passato – e ai soldi che spende e ha speso – nelle sua vita tra studi medici, farmacie, cliniche e ospedali: ci vengono quasi i brividi! Praticamente, a confronto dei nostri antenati, siamo davvero dei malati cronici! Del resto, se oggi qualcuno ci viene a raccontare di non vedere un dottore, di non prendere una medicina da anni (cosa alquanto rara…), non ci complimentiamo con lui invidiandogli la sua ottima e inconsueta salute? E non era questa la condizione normale in cui vivevano i nostri antenati? E allora come facciamo a dire, a pretendere, che oggi si stia molto meglio di prima? Immaginiamo già la critica a tale nostro argomento, critica che lo vorrebbe far sembrare a dir poco ridicolo: non è che i nostri nonni stessero meglio; semplicemente non si curavano! E non si curavano perché vivevano in epoche sottosviluppate, arretrate, in tempi in cui la medicina non aveva ancora conosciuto i progressi di oggi! A pensarci bene, è proprio questa critica ad apparire piuttosto ridicola: se così fosse, infatti, perché mai in quelle epoche non si sono dati da fare per “progredire”, per creare e sviluppare la medicina come oggi la conosciamo? La suddetta critica presuppone difatti la convinzione secondo cui i nostri antenati soffrivano di tutti i mali di cui soffriamo noi, solo che, poveretti, non avevano i mezzi per curarsi. Quindi, altro che godere di ottima salute: i nostri avi vivevano in uno stato di perenne sofferenza, dato che erano costretti a convivere con tutte le malattie che noi oggi invece possiamo curare! Di nuovo: ma se davvero vivevano in uno stato di perenne sofferenza, perché mai nessuno si è industriato per creare la medicina “moderna”? Perché mai nelle epoche passate le società, i governi, gli uomini di scienza a tutto pensavano (a organizzare guerre, contese politiche, dispute intellettuali e religiose) tranne che a lenire la sofferenza che, a dir dei nostri detrattori, era sotto gli occhi di tutti e di cui essi stessi… soffrivano? Ecco la loro risposta: pensavano solo a far guerre e non a sviluppare la medicina perché erano ancora incivili! E già, chiediamo a questo punto noi: e perché mai sarebbero stati incivili? Perché appunto pensavano solo a farsi la guerra anziché curarsi, rispondono loro! Ma può esservi un circolo più vizioso di questo? Non è più semplice – e onesto – riconoscere che in quelle epoche gli uomini amavano pensare ad altro, avevano cioè altri valori, altri riferimenti, altre visioni del mondo rispetto ai nostri? Non è più semplice dire che se noi riteniamo primo dovere della società e dello Stato guarire la più semplice delle influenze come il più banale dei raffreddori in epoche passate si riteneva più giusto impegnare gran parte delle risorse a disposizione in guerre e dispute metafisiche? E quindi che noi stiamo “male” solo al pensiero di dover convivere con un raffreddore mentre i nostri avi stavano “benissimo” a farsi la guerra e di tutte quelle che per noi oggi sono insopportabili patologie loro non si “curavano” e manco sapevano che esistessero? Allora di nuovo: chi è che sta meglio in salute, chi sviene solo alla vista di una goccia di sangue o chi con tutto ciò che oggi è considerato “dolore”, “malattia”, “infermità” sapeva conviverci senza troppi problemi?
In fondo, come sopra accennato, i nostri antenati non si “curavano” perché di tutte quelle che noi consideriamo e abbiamo classificato come “malattie” neanche conoscevano l’esistenza. Dunque, non avevano nulla di cui “soffrire”. Essere “malati”, star “male”, significa infatti avere delle “malattie”. Quante malattie ha o ha avuto nel corso della sua vita ciascuno di noi? Un’infinità. Dunque tutti noi stiamo o siamo stati più volte “male”. Se invece i nostri avi di tutto ciò non hanno visto neanche l’ombra, tutt’al più qualche sintomo di cui non si “curavano” più di tanto, non vuol dire che stavano “bene”? Anche qui i nostri detrattori credono di avere buon gioco sostenendo che a quel tempo non si trattava di star bene, ma di ignoranza: non conoscevano le patologie che avevano, dunque non sapevano come curarle, quindi stavano malissimo, altro che! Ma di nuovo: se stavano così male, perché non si sono industriati per scoprirle queste benedette malattie? Cosa lo impediva loro? L’arretratezza scientifica, l’arretratezza tecnica? Ancora: ma perché mai allora non si sono dati da fare per farle sviluppare la scienza, la tecnica, invece di trastullarsi in altro? Si può mai pensare che uno stia male ma non faccia niente per alleviare il suo dolore? O vogliamo arrivare a dire che magari stavano male ma… non se n’erano manco accorti? Se pure così fosse, allora sarebbe confermata la nostra tesi: se uno sta male e non se ne accorge, vuol dire che alla fine sta “bene”, no?! Ed è proprio quello che stiamo sostenendo: il concetto di “male”, di “malattia”, è soggettivo; noi non stiamo dicendo che le patologie che ci affliggono oggi una volta non esistevano (parliamo in generale: è chiaro poi che anche le patologie hanno una loro storia e ogni epoca ha le sue), ma che appunto non venivano sentite come “malattie” e che ci si sapeva convivere benissimo; quindi alla fine si stava “bene”.
Sembrerebbe quindi, già da queste semplici considerazioni, che se c’è qualcuno che sta davvero “male” questo è proprio l’uomo delle nostra epoca. Del resto basta guardarsi intorno: le sale d’aspetto dei medici sono sempre piene; le farmacie fanno affari d’oro; i tempi d’attesa per farsi qualsiasi esame biblici; gli ospedali super affollati che i malati li devono mettere per i corridoi; in televisione, sui giornali e ovunque non si fa altro che parlare di malattie, cure e medicamenti vari. Ma in quale altra epoca della storia si è mai vista una cosa simile? Ma che penserebbe un uomo di un’epoca passata che, catapultato per assurdo nella nostra società, si ritrovasse di fronte ad un simile spettacolo? “Resterebbe estasiato dal progresso e dal benessere di cui tutto ciò - ovvero la più avanzata ricerca, gli ultimi ritrovati farmacologici, le più moderne ed attrezzate cliniche - è testimonianza!” direbbero gli entusiasti apologeti della civiltà moderna! Progresso? Benessere? “Dio mio, ma cos’è successo – esclamerebbe invece scioccato il povero malcapitato a parer nostro – che state tutti così male?!”
Già, cos’è successo?  Perché, al di là di come la si pensi, è sotto gli occhi di tutti che qualcosa è certamente cambiato nella percezione delle malattie, nella valutazione del dolore, nel concetto stesso di “salute” tra l’uomo delle civiltà del passato e l’uomo del mondo moderno. Perché di questo si tratta, di un cambiamento di percezione, di valutazione, di vera e propria visione della vita e del mondo tra la nostra epoca e quelle che in genere l’hanno preceduta, e non certo di un banale - quanto insostenibile alla prova dei fatti - sviluppo lineare di un’unica tendenza, di un’unica visione delle cose, che avrebbe caratterizzato l’uomo di tutte le età, sviluppo al quale solo un ingenuo quanto ormai del tutto screditato pregiudizio progressista può ancora dar credito. In realtà l’uomo moderno ha fatto propria una visione della vita, e quindi della sua salute e del suo star bene, che non trova riscontro in nessun’altra civiltà o epoca passata, visione che paradossalmente, lungi dal farci stare tutti “meglio”, ha finito, secondo quella sorta di “eterogenesi dei fini”, quella “nemesi” per dirla con Ivan Illich, l’autore del celebre Nemesi medica, che caratterizza tanti fenomeni della modernità, per farci stare sempre “peggio”, ovvero in uno stato di “malattia” permanente e quindi di necessità e ricerca continua di “cure”.
Il fatto è che la moderna visione della “salute” e della medicina non fa che riflettere la più generale visione “tecnica” della realtà che è alla base del mondo moderno. Come sappiamo, secondo tale visione, l’unico fine che la società deve porsi è quello del perfezionamento indefinito della funzionalità, fine a se stessa, dell’apparato tecnico medesimo; in poche parole: porre la Tecnica stessa come fine del corpo sociale, fine al quale l’intera attività umana deve essere subordinata. Stando così le cose, la medicina moderna non fa altro che tradurre nel campo di sua competenza l’imperativo “tecnico”: perfezionare, migliorare indefinitamente la funzionalità del corpo umano secondo un processo fine a se stesso. A questo punto, i concetti tradizionali di malattia e di salute ne escono completamente stravolti: se il corpo umano, come tutti gli oggetti dell’universo tecnico, è indefinitamente migliorabile, la malattia non è più vista come un fatto eccezionale, un guasto, un evento negativo sopraggiunto che va a rompere l’equilibrio iniziale, e la cura, conseguentemente, l’atto volto al riequilibrio come era nella medicina tradizionale, bensì come uno stato permanente, la condizione normale del nostro organismo, organismo bisognoso, quindi, di cure continue e persistenti. Se il miglioramento, se il progresso, secondo la logica intrinseca della Tecnica, non hanno di per sé fine, la “salute”, il cosiddetto “benessere”, non può essere uno stato conseguito una volta per tutte, ovvero una volta che la “malattia” sia stata “curata”, ma uno stato da porre e da spostare continuamente in avanti, un orizzonte che, a rigore, non potrà mai essere definitivamente raggiunto, da far valere come mera idea limite, dato che, a rigore, per la Tecnica il progresso non può avere appunto limiti. Da qui la “ricerca” - e la conseguente “scoperta” – di sempre nuove “malattie”, di presunti novelli stati patologici, e delle relative cure: se il progresso, il miglioramento non conoscono limiti, alcun limite può essere posto alla “ricerca”, per cui appena guariti da una “malattia”, ecco che se ne scopre un’altra, e poi un’altra ancora, all’infinito. Paradossalmente, proprio la visione progressista, “migliorista”, che dovrebbe, per la sua stessa ragion d’essere, portare al raggiungimento del benessere, della felicità e della serenità, proietta per contro l’individuo in uno stato di precarietà, di bisogno, e dunque di “malessere”, infelicità e tormento permanenti: raggiunto un determinato livello, appagato quel determinato bisogno, se ne crea subito un altro, e la “salute” è quindi rimandata sistematicamente ad un domani mai definitivamente raggiungibile. È lo stesso meccanismo perverso che caratterizza del resto tutti gli aspetti della società della Tecnica: il sistema economico capitalistico, ad esempio, lungi dal soddisfare i bisogni materiali degli individui garantendo loro il benessere economico come illusoriamente crediamo, li fa vivere in uno stato di bisogno, e quindi di “sofferenza”, permanente, dato che consumato un oggetto e soddisfatto il relativo bisogno, il meccanismo consumista che è alla base di tale sistema ne crea subito un altro, per cui il soggetto non può mai ritrovarsi nella condizione di ritenersi appagato e soddisfatto definitivamente. Come è il sistema economico che crea continui oggetti il cui bisogno si reputa necessario al fine di una ricchezza materiale sempre maggiore, è il sistema medico che crea continue nuove “malattie”, ovvero un continuo bisogno di cure al fine di una “salute” sempre migliore.  
Se ci pensiamo bene, infatti, gran parte delle “patologie” di cui ci riteniamo affetti e che ci fanno di conseguenza soffrire non sono oggetto della nostra stessa percezione, non emergono quali “mali” segnalatici da dolori, sintomi che il nostro stesso corpo manifesta e che avvertiamo a livello di esperienza quotidiana: sappiamo che siamo “malati”, e che quindi abbiamo bisogno di “cure”, perché è il sistema medico a dircelo. Come per qualsiasi altro ambito dell’universo tecnico, il meccanismo è quello tipico dell’“espertocrazia”: noi ce ne stavamo tranquilli e beati tra le nostre cose, presi dai nostri affari e dai nostri affetti, quando dagli “esperti” di turno – in questo caso i medici - ci viene comunicata l’ultima “scoperta”, il risultato dei più recenti esperimenti, l’ultima frontiera della ricerca, ovvero che il nostro corpo c’ha questo e quello, che questo può portare a quello e quello a quest’altro. Insomma che, anche se non lo sapevamo, abbiamo una “malattia”. Ovviamente iniziamo a sentirci “male”, nasce cioè in noi il bisogno di cure, di medicine, di controlli, di dottori. Il bisogno, poi, diventa eo ipso un “diritto”: se sto male, ho diritto ad essere curato, no? E vai con le agitazioni, le battaglie, le rivendicazioni per una sanità giusta, una sanità che funzioni, medici e pazienti uniti nella lotta per il sacrosanto “diritto alla salute”! Ma non stavamo meglio prima, quando nessuno ci diceva niente? Non stavano meglio i nostri nonni che di essere malati, di avere tutti questi bisogni, tutti questi “diritti”, non se n’erano neanche accorti? O forse – e torniamo alle considerazioni di prima – vogliamo essere così ingenui – e così arroganti – da pensare che essi avessero gli stessi nostri bisogni, pensassero di avere i nostri stessi diritti solo che… siccome vivevano, poveracci, in epoche “arretrate”, nessuno se li filava e così fossero condannati a tormentarsi e a contorcersi per tutta le vita costretti dai loro bisogni e dai loro diritti insoddisfatti? Sarebbe come dire che prima che inventassero le automobili, le lavatrici e i cellulari, la gente si contorcesse dal dolore a pensare a tutti questi begli oggetti della società moderna che mancavano loro! Come se prima che inventassero la televisione la gente passasse le serate disperata davanti le pareti nude delle loro stanze non sapendo come soddisfare il bisogno di film, talk-show e reality vari! Non siamo noi, invece, gli “insoddisfatti” cronici e, dunque, i “malati” cronici? Non gode chi si accontenta? Può mai godere chi non si accontenta mai?
Abbarbicati ai nostri pregiudizi ed alle nostre inossidabili certezze, ci sembrerà difficile anche solo immaginare che pratiche e consuetudini che noi oggi consideriamo scontate e fondamento stesso della scienza medica fossero in verità del tutto sconosciute alla medicina tradizionale. Siamo così abituati a passare la nostra vita tra controlli, analisi ed esami, che ci sembrerà assurdo pensare che almeno fino a un paio di secoli fa nessun medico abbia mai effettuato un qualsivoglia test su un suo paziente! La prassi, ai nostri occhi ovvia e quasi banale, di contare i battiti cardiaci ha fatto ad esempio la sua apparizione in Occidente soltanto nell’Ottocento! E che dire del fatto che ancora alla metà di tale secolo a nessuno era venuto in mente di creare degli appositi centri dove curare temporaneamente le persone per poi rispedirle a casa? I cosiddetti “ospedali” erano infatti luoghi in cui si andava a morire più che a “curarsi”, luoghi caritatevoli a cui venivano destinate persone – per lo più povere ed emarginate - delle quali si aspettava soltanto la morte imminente perché affette da mali incurabili: nulla di più, nulla di meno. Il fatto è che una visione medica non può che riflettere quella che è innanzi tutto l’immagine del corpo umano che una determinata cultura ha elaborato e fatto propria; immagine inevitabilmente legata, poi, alla visione generale della vita e del mondo specifica di quella stessa cultura e che nella storia non è potuta certo essere sempre e ovunque la stessa. Nessuna meraviglia, quindi, se fino alle soglie dell’età moderna le patologie quali le definiamo e conosciamo oggi secondo i criteri della scienza medica attuale fossero del tutto inconcepibili e nessuno ne potesse presupporre nemmeno l’esistenza, tanto che almeno fino al Rinascimento è difficile parlare finanche di ricerca eziologica, di indagine sulle “cause” di questa o quella malattia secondo il tipico modo di procedere dei medici e della medicina dei nostri tempi. 
La medicina antica, la medicina delle società tradizionali, come tutti gli aspetti della vita di tali società, era basata su presupposti totalmente differenti, per molti versi opposti. Secondo la visione tradizionale della realtà, il “meglio”, il positivo, non era posto in un futuro lontano e indefinito, bensì all’inizio, essendo la condizione di partenza delle cose. Queste non dovevano essere quindi “migliorate”, rese più efficaci, trasformate senza sosta, bensì conservate, preservate e valorizzate nel loro stato, nel loro “essere”. Riguardo al corpo umano, la malattia non poteva che esser vista come un’alterazione, una modifica sopraggiunta per una qualche malasorte o avversità e che doveva essere quindi scacciata, eliminata, per riportare l’organismo allo stato, all’equilibrio iniziali. Il “bene” non era proiettato verso un indefinito futuro, ma verso il passato: era il “modello” originario a cui ci si doveva nuovamente conformare. Ovviamente ciò presupponeva una visione “qualitativa” del nostro organismo: come tutte le cose, esso era un “microcosmo” che rifletteva, a livello inferiore, il “macrocosmo” superiore, per cui la medicina si intrecciava inevitabilmente con discipline quali l’alchimia, l’astrologia, le cosiddette “scienze sacre” in genere, ovvero con una visione essenzialmente spirituale della vita e del mondo, vita e mondo che agli “archetipi” originari bisognava riportare in caso di deviazione o alterazione. Con il tramonto della visione tradizionale e l’avvento della civiltà della Tecnica, anche il nostro corpo viene ridotto, come tutte le altre cose, ad una “macchina” (secondo la celebre metafora di Cartesio, il padre della filosofia moderna), e per tanto, come tutte le macchine, visto nella sue potenzialità di perfezionamento indefinito, di funzionalità e di efficacia sempre maggiori; migliorabile quindi progressivamente, essendo la nozione stessa di “progresso” concepibile solo all’interno di una visione “quantitativa” del mondo, com’è appunto quella della Tecnica. La “malattia” non è più così una deviazione dallo stato originario proprio della cosa stessa, ma una sua condizione permanente, visto che, secondo la logica della Tecnica, l’oggetto non ha uno status, non ha un’“essenza”, essendo questa la sua stessa modificabilità, la sua superabilità, il suo essere destinato a venir sostituito da un qualcosa di migliore. Come, stando alla logica dell’economia capitalistica, non si consuma più per vivere, ma si vive per consumare, stando a quella parallela della medicina moderna non ci si cura più per vivere, ma si vive per curarci. In tal modo, tutta una serie di stati, di condizioni, di fenomeni per l’uomo tradizionale perfettamente tollerabili e di cui non si avvertiva il minimo sfasamento rispetto al quadro originario, diventano per la medicina moderna di per se stessi stati, condizioni e fenomeni “patologici”, quindi intollerabili e segni di cattiva salute, perché in ogni caso migliorabili e perfezionabili. Ecco perché, in fin dei conti, è la medicina stessa, oggi, ad aver decretato, con la medicalizzazione totale dell’esistenza, il nostro status di malati permanenti, per cui è in salute non chi, come in passato, sapeva tollerare il “dolore”, ma chi si impegna nell’assurda opera del suo progressivo sradicamento che, in quanto appunto progressivo, lo rende per ciò stesso cronico. Siamo arrivati ormai al punto per cui invece di considerare in ottima salute, e quindi invidiabile, chi magari non vede un medico o non prende una medicina da anni, lo si considera da parte della medicina stessa un mezzo matto, uno spostato, quindi un “malato”, quanto meno uno zotico ed incivile che non sa apprezzare le conquiste della modernità volte ad assicurargli una sempre migliore salute!   
Uno degli aspetti che più di molti altri esemplifica la paradossale eterogenesi dei fini propria della medicina moderna è senza dubbio la cosiddetta “prevenzione”. Sbandierata come segno indiscutibile di progresso e di civilizzazione, per certi versi il fondamento stesso del presunto miglioramento della salute e delle condizioni di vita generali dell’uomo moderno, in realtà essa si presenta quale fattore determinante dello stato di malattia permanente in cui la medicalizzazione dell’esistenza ha fatto piombare l’individuo. Cos’altro significa, infatti, la “prevenzione” se non che dobbiamo considerarci “malati” anche quando non abbiamo ancora niente? Che dobbiamo cioè preoccuparci, angosciarci, stare attenti a questo e a quello, consultare medici, fare analisi e controlli anche quando… siamo in perfetta salute? Ma non si stava meglio prima, quando nessuno si preoccupava di niente e quindi le sofferenze erano limitate al momento del sopraggiungere effettivo del male, rispetto ad oggi quando ci costringiamo a passare praticamente l’intera vita ad attendere angosciati l’esito dell’ultimo esame solo nella speranza di vivere magari qualche annetto in più? L’aberrazione è arrivata a tal punto che ormai tra cure preventive e cure relative a patologie effettivamente in atto è difficile pure fare distinzione: praticamente stiamo “male” sempre, male e basta, anche quando non abbiamo di fatto niente! Addirittura, qualche tempo fa, abbiamo avuto in Italia il primo caso di asportazione di un seno ad una donna che, in seguito ad un test appositamente effettuato, era risultata percentualmente a rischio – sulla base di dati statistico-genetici relativi alla sua famiglia – di contrarre un tumore alla mammella! Altro che pillole e controlli vari: qui decidiamo di farci amputare una parte sanissima del nostro corpo solo perché, in teoria, questa… potrebbe ammalarsi! A questo punto, perché non farci “amputare” tutto così non se ne parla più e… staremo tutti meglio?
I tumori d’altronde, questi novelli fantasmi che angosciano come null’altro l’esistenza dell’uomo moderno e come minacciose spade di Damocle sembrano costantemente pendere sulla testa di ciascuno di noi, rappresentano un altro degli esempi più eclatanti della nostra condizione di malati permanenti. In passato, quando di tale male non si sapeva nulla – ammesso e non concesso che esistesse - gli uomini trascorrevano tranquilli e sereni la loro vita, attendendo l’ora che per tutti sarebbe prima o poi venuta; se poi sopraggiungeva all’improvviso un accidente, qualche giorno o settimana di sofferenze e tormenti e buona notte: si lasciava questo mondo circondati ed assistiti dall’affetto dei propri cari, certi di aver assolto alla meno peggio il proprio compito e nella speranza di una buona ricompensa nell’altro. Oggi, invece, grazie ai “progressi” della scienza, attraverso campagne di informazione e di “pubblicità progresso” che ci assillano dalla mattina alla sera ricordandoci, nel caso qualcuno se ne fosse dimenticato e se ne volesse stare lieto e spensierato, che l’intero pianeta è mobilitato per il debellamento di tale male, viviamo nella costante ed angosciante attesa che quella spada cada proprio sulla nostra testa; nel qual caso, poi, la nostra vita si trasforma in un vero e proprio calvario, tra esami, terapie, ricoveri ed interventi vari, tutto ciò solo per guadagnare, se tutto va bene, qualche miserello anno di vita in più, per poi crepare lo stesso in qualche letto di ospedale intubati e inflebati, e circondati dall’equipe di “esperti” ancora a consulto per un eventuale ultimo tentativo e con i nostri cari tenuti rigorosamente alla porta perché la “scienza”, ovvero la nostra morte, non è affar loro.  
Ma le paranoie per i tumori ed altri gravi accidenti similari non sono niente di fronte a quello che il mondo moderno ha decretato essere il male assoluto, il male par excellence: la morte. E già, perché se il nostro corpo è una macchina e la macchina è di per se stessa indefinitamente perfezionabile, la morte, come vuole la legge della Tecnica che norma la nostra civiltà, è anch’essa null’altro che un accidente, un guasto, un difetto di funzionamento che con il progresso della scienza prima o poi verrà messo a posto. Per la Tecnica la morte, come evento naturale e destino predeterminato dell’essere vivente, è semplicemente un non senso. La permanenza della morte come orizzonte ultimo ed esplicativo della nostra esistenza sarebbe il suo scacco matto, la messa in discussione del suo incontrastato dominio. Se la Tecnica è ormai il nostro destino, questo non può più esserlo la morte. Come non tollera più alcuna “malattia”, l’uomo moderno non può quindi tollerare più neanche la morte: le cure permanenti e la medicalizzazione totale dell’esistenza hanno come fine supremo, in ultima analisi, quello della sconfitta della morte stessa. Il prolungamento indefinito della vecchiaia perseguito dalla medicina moderna ne costituisce il preludio. Anche in ciò essa segna una svolta radicale rispetto alla medicina tradizionale. Una volta infatti - ci sembrerà alquanto strano - i medici non avevano a che fare con la morte; non era affar loro. Il giuramento di Ippocrate, a differenza di ciò che accade oggi, veniva in verità interpretato come astensione da parte del medico di fronte a tutto ciò che avesse a che vedere con la morte: come era suo dovere non procurarla, non era altresì suo compito combatterla. Perché la morte era questione riguardante la teologia, la religione, le convinzioni intime di ciascun individuo. La medicina si occupava delle malattie, non della morte. Era costume infatti, prima dell’avvento della medicina moderna, che il medico, nel momento in cui constatava che non ci sarebbe stato più niente da fare, abbandonasse il capezzale del paziente, per far posto al prete, al religioso: la morte non era di sua competenza. Oggi che la morte è stata derubricata a “malattia”, a suprema malattia, è il medico che invece deve occuparsene. E se fino a tempi non troppo remoti si poteva ancora morire di morte “naturale” – ovvero la morte di cui sono “morti” tutti gli uomini prima dell’avvento della medicina moderna – oggi questo appare un concetto senza senso, scientificamente improprio: si muore sempre di qualcosa, di questo o di quello (oggi nei referti, in assenza di altre patologie conclamate, si arriva a scrivere: “morte per arresto cardiaco”!), così che quando il progresso avrà curato anche questo e quello, non si vede perché si dovrà ancora morire. E allora avanti con la prevenzione, le cure, le analisi e le controanalisi: tutta la vita è ormai una cura in vista dell’allontanamento progressivo, sempre spostato più in là, dell’appuntamento con la morte; morte non più, come una volta, fine di tutti i dolori, di tutte le pene, ma fine il cui progressivo allontanamento ci costringe a curarci, dunque a soffrire e a tormentarci, per tutta la vita. E se anche l’ultimo ritrovato, l’ultima scoperta non funzionano, ci lasceranno magari, in attesa di ritrovati e scoperte migliori, staccare la spina: ecco così l’eutanasia, ovvero la libertà di rifiutare, per il malcapitato, quella vita che la medicina stessa, dopo aver definito il concetto di “morte”, avrà definito come “non degna di essere vissuta”. Per tutti gli altri, i più fortunati, quelli per cui le medicine si sono trovate, ma che magari avrebbero cento e più altri motivi per volersene andare all’altro mondo, le “cure” continuano. Nel mondo del dominio tecnico, l’unica libertà concessa non può che essere la libertà “tecnica”; la libertà decisa dalla Tecnica.
Le considerazioni svolte in merito alla prevenzione, ai tumori, alla morte potrebbero benissimo estendersi un po’ a tutte le diverse applicazioni della medicina moderna, non essendoci ormai ambito del nostro corpo e in genere della nostra esistenza che possa sfuggire alla sua logica. Addirittura intere fasi della vita – vedi l’infanzia, la vecchiaia – sono considerate di per se stesse “malate” o potenzialmente tali, dunque bisognose di continue cure e particolari specializzazioni della scienza medica – la pediatria, la geriatria – che ad esse si dedichino specificatamente. Ormai non c’è più alcun aspetto della vita dei nostri bambini come dei nostri anziani che non venga definito da ciò che rispettivamente il pediatra e il geriatra hanno stabilito. Per non parlare della “medicina estetica”, ultima frontiera della paranoia “migliorista” applicata al corpo umano: se tutto può e deve quindi essere migliorato, perfezionato, perché non lo dovrebbe anche il suo aspetto estetico? E così non basta essere sommersi da un’infinità di patologie fisiche: ormai ci sentiamo male anche solo a guardarci allo specchio! Ma chi, nelle epoche passate, aveva mai fatto un dramma delle sue troppe rughe, del sua labbra troppo sottili o dei suoi seni troppo piccoli? Ci avviamo così verso la manipolazione totale del nostro corpo, nella sua stessa immagine esteriore, visiva, simbolica; manipolazione che altro non rappresenta se non l’esito inevitabile della medicina moderna proiettata lancia in resta, come la Tecnica di cui è espressione, allo sradicamento completo della natura e alla creazione di un mondo interamente artificiale.
E vogliamo fermarci qui, evitando di aprire il discorso sulle cosiddette “malattie del benessere”, ovvero quelle malattie – stress, nevrosi, psicosi, depressioni, anoressie e chi più ne ha più ne metta – che costituiscono il portato specifico dell’epoca moderna stessa, appunto l’epoca del benessere, del comfort e della ricchezza di massa; discorso a cui andrebbe legato quello sul consumo di droghe e di psicofarmaci, altra novità assoluta offertaci dalla modernità. Se aprissimo discorsi simili, altro che distanza tra il malessere di oggi e la salute di ieri: si spalancherebbe un abisso! Ma in quali altre epoche, infatti, sono sorte patologie, si è fatto uso di droghe e tranquillanti non perché si stesse male, perché la vita fosse troppa dura, ma… per un eccesso di benessere, perché la vita fosse troppo comoda? Ma ci rendiamo conto in che razza di tunnel ci siamo infilati? Per la prima volta nella storia, stiamo male perché… stiamo troppo bene! Nel nobile intento di migliorare la salute, la vita, abbiamo finito per stravolgere la vita stessa, illudendoci di vivere in un mondo all’apparenza più salutare, più “umanitario”, ma che in realtà non conserva più nulla ormai di veramente sano, più nulla ormai di veramente umano. Un mondo di automi, di alienati, di malati permanenti; in verità di “malati immaginari”. Per cercare il “benessere”, siamo arrivati a perderne quel poco che ne avevamo. Per cercare di stare meglio, abbiamo finito per stare peggio. Che la modernità, come sosteneva Nietzsche, non sia essa stessa una “nevrosi”, una “malattia”? Che dietro la salute a tutti i costi, più che il supremo sì alla vita, non si nasconda il più plateale quanto inconfessabile no che ad essa si sia mai pronunciato? Stiamo bene, stiamo male, non sappiamo come stare…