Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il mito del lavoro

Il mito del lavoro

di Massimiliano Viviani - 03/05/2010

 





Image

Una delle componenti più importanti del mondo moderno è sicuramente il lavoro. Figlio della rivoluzione industriale, il lavoro come lo conosciamo noi oggi, salariato, specializzato e meccanizzato, è certamente uno dei temi più trattati in ogni contesto sociale e politico, sia di destra che di sinistra. Tuttavia la cosiddetta "festa del lavoro" -o dei lavoratori- così come ci viene presentata non è certo l'occasione più adatta a comprendere la natura più profonda di tale aspetto fondamentale della vita dell'uomo. Perchè a ben vedere, una tale festività non ha senso: si deve festeggiare una dimensione eccezionale -la ricorrenza di un evento, sacro o profano- non una dimensione quotidiana e naturale. Il fatto stesso che esista una tale festività -paradossalmente- mette in evidenza a nostro modo di vedere l'"innaturalità" del lavoro moderno, il fatto che esso sia sentito sempre meno come un fatto spontaneo e sempre più come una cosa estranea, una medicina amara da rendere più sopportabile con l'inserimento di ogni sorta di edulcorante, festa compresa. Forse non a caso il lavoro industriale lo si è "mitizzato", per poterlo digerire meglio. E non è certo un caso che lo si festeggi con il suo opposto, ossia non lavorando!
Ma perchè il lavoro moderno viene sentito sempre più come un elemento estraneo nella vita di ogni uomo? E in che senso si dice che il lavoro nell'epoca moderna è diventato un "mito"?
Schematizzando, esistono due concezioni del lavoro diametralmente opposte: quella moderna, di matrice quantitativa, e quella tradizionale, di matrice qualitativa. La prima, caratteristica della società industriale, vede il lavoro come un mezzo per produrre beni materiali utili alla sopravvivenza umana -o in alternativa, merci atte a procurare il denaro sufficiente a condurre una esistenza conforme ai propri desideri- laddove la conoscenza è puramente strumentale al raggiungimento di tale fine. La concezione qualitativa del lavoro invece, tipica delle società premoderne, non disgiunge la produzione del bene materiale dalla conoscenza: il lavoro è certo il mezzo con cui ci si procura da vivere, ma è anche il fine dell'applicazione delle conoscenze nella pratica. In un contesto artigianale -dove il lavoro consiste nell'applicazione di una conoscenza maturata grazie all'insegnamento da parte di un maestro e custodita gelosamente- il lavoro è appunto un'arte, mette alla prova l'uomo e le sue abilità, e di fatto pur nell'ambito di uno stesso mestiere, è diverso per ogni persona, perchè ogni persona ha conoscenze e attitudini differenti.
In tali condizioni, la componente materiale del mestiere è unita a quella intellettuale, e di conseguenza non può che essere più gratificante, mentre nel contesto industriale il lavoro non è condotto dall'uomo ma dalla macchina, l'uomo essendo solo il tramite che permette alla macchina di funzionare correttamente. La conoscenza del lavoro moderno non può quindi che essere in linea con questa concezione: essa è standard, è uguale per tutti i lavoratori dello stesso mestiere, di ogni tempo e di ogni luogo. Essa non a caso si trasmette non da persona a persona, non da maestro ad allievo, ma si insegna o in corsi di formazione collettivi, o in anonimi manuali, preconfezionati e uguali per tutti, che in buona parte prescindono dall'esperienza diretta del singolo lavoratore e dalla tradizione dei lavoratori precedenti. Non è un caso che il lavoro moderno, certo più produttivo e per molti aspetti meno faticoso, sia però più alienante e meno gratificante: la frustrazione e l'insoddisfazione dell'operaio e dell'impiegato a fine giornata è sconosciuta al lavoratore preindustriale.

Quanto detto dovrebbe essere sufficiente per capire in che senso il lavoro moderno sia sentito come una dimensione estranea. Tuttavia chi tratta di questo tema si trova di fronte ad un apparente paradosso: si è portati a credere infatti che l'uomo moderno, inserito nell'ingranaggio produttivo e partecipe del "mito" del lavoro, pensi sempre a lavorare, e lavori tante ore e con intensità. Analogamente l'uomo premoderno lo si immagina lavorare poco, magari pensando a feste popolari, sagre o incontri conviviali. Senonchè spesso salta fuori dalle testimonianze e dai documenti che in passato egli amava lavorare e svolgeva il proprio lavoro con passione; inoltre non faceva quasi mai ferie, vacanze, week end o quant'altro, che invece sono prerogativa del vivere moderno. C'è qualcosa che non va.
Alla luce di quanto precisato sopra, il mito del lavoro non è in realtà mito del lavoro in sè, ma il mito della produzione quantitativa, legato alla beatificazione della macchina idolatrata nelle sue enormi potenzialità materiali. E poichè lavoro e non-lavoro sono inevitabilmente legati e complementari, ne consegue che il mito del lavoro partorisce un altro mito, quello del "tempo libero", delle vacanze e del divertimento, vuoto e alienante come il lavoro produttivo che l'ha generato. Per questo è sbagliato legare il mito del lavoro moderno al numero di ore. Non è dal numero di ore lavorate che si capisce se una civiltà ha o meno il mito del lavoro: fare le ferie, divertirsi o fare shopping in realtà significa di fatto essere sempre dentro il meccanismo del lavoro in senso produttivistico -non a caso ferie e divertimento sono legati a doppio filo con il consumo e il denaro. Chi si sballa in discoteca o al pub, chi passa le ore inseguendo il miraggio del relax o del viaggio esotico, non per questo è fuori dal mito del lavoro. L'uomo che lavora di mala voglia perchè non vede l'ora di smettere per raggiungere il luogo dei sogni nel week end o in agosto, appartiene al medesimo meccanismo di chi lavora con energia, entusiasta per tutte le opportunità che ne può ricavare in termini di denaro, di viaggi o di possesso di beni. Sono due facce della stessa moneta (è proprio il caso di dirlo...). Il vuoto del lavoro è lo stesso vuoto delle ferie: l'uomo moderno non vede l'ora di fuggire dalla noia del lavoro per poi ricascarci nelle ferie, allora non vede l'ora di tornare a lavorare e così di seguito: alterna stress a noia, e non c'è alcuna soddisfazione in nessuno dei due.
L'amore moderno per il lavoro è l'amore di ciò che si può ottenere con il lavoro, e non è in contraddizione con chi non vede l'ora che la giornata sia finita. Invece l'amore per il lavoro dell'uomo preindustriale è l'amore per il proprio mestiere nella sua integrità, materiale, intellettuale e spirituale. E' l'amore per quello che il lavoratore sta facendo in quel dato momento, è la passione di fare bene una cosa, di vederla realizzata "a regola d'arte", come si soleva dire una volta. I soldi, la sopravvivenza, le gratificazioni della comunità venivano di conseguenza, e tutti sapevano che non potevano non venire. Il numero di ore lavorate è secondario, può essere maggiore o minore, poco importa. E la soddisfazione che ne deriva è ben diversa da chi lavora al fine di ottenere qualcosa. Analogamente era sconosciuta la separazione moderna tra lavoro e tempo libero, perchè attorno al lavoro inteso come espressione delle proprie capacità, ruotava tutta la vita quotidiana, di chi lavorava e di chi gestiva la famiglia. Per questo uno studioso come A. Coomaraswamy dice sarcasticamente che l'artigiano tradizionale non smetterebbe mai di parlare del proprio lavoro, mentre il lavoratore moderno nel tempo libero appena può parla di calcio! E di cosa vogliamo che parli?! Di una cosa che fa solo per sopravvivere e che in cuor suo detesta?
Il problema del lavoro non dovrebbe essere solo la disoccupazione -concetto tra l'altro sconosciuto alle realtà preindustriali- o la retribuzione. Dovrebbe riguardare anche e soprattutto la qualità e il senso del lavoro, perchè è qui che si gioca il vero significato della vita dell'uomo, non nel divertimento o nel possedere roba inutile. Quando si tornerà a parlare di mestiere (ministerium, ossia funzione) o meglio ancora di arte, e non più di lavoro (labor, fatica), allora la festa del lavoro non sarà più la celebrazione della nostra schiavitù. Ma a quel punto, paradossalmente, non ci sarà nemmeno più qualcosa da festeggiare: una "festa del lavoro" non esisterà più, come non è mai esistita in qualsiasi civiltà normale. Perchè il lavoro sarà rientrato nella dimensione vera e spontanea dell'uomo, espressione delle sue capacità e non solo mera sopravvivenza. Sarà tornato altresì una parte naturale della sua vita, come mangiare, dormire, parlare o camminare, e non sarà più una dimensione estranea, compiuta in vista di qualcosa, e quindi distante, lontana, da mitizzare per renderla accettabile, e quasi da esorcizzare con una "festa" costruita ad arte.