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Un sistema trincerato: grandi e piccole apartheid in Israele

di Jonathan Cook - 06/05/2010




 

Discorso pronunciato dall’autore alla quinta conferenza internazionale di Bilin sulla resistenza popolare dei Palestinesi, tenutasi nel villaggio di Bilin, in Cisgiordania, il 21 aprile 2010.

Gli apologisti di Israele sono veramente preoccupati all’idea che Israele venga sottoposta a speciali esami critici e ad una sua messa in discussione.

Tuttavia, io desidero affermare che nella maggior parte dei dibattiti che riguardano Israele effettivamente si affronta l’argomento in modo estremamente leggero: che molte delle caratteristiche dell’organizzazione di governo di Israele verrebbero considerate eccezionali o straordinarie in qualsiasi altro Stato democratico.

Questo non è sorprendente in quanto, come argomenterò, Israele non è una democrazia liberale e tanto meno uno “Stato ebraico e democratico”, come affermano i suoi sostenitori. Israele è uno Stato a discriminazione razziale, non solo nei territori occupati della West Bank e di Gaza, ma anche all’interno dello stesso Israele.

Oggi, nei territori occupati, la natura di apartheid del regime israeliano è inconfutabile -- anche se questo viene poco menzionato dai politici dell’Occidente o dai media. Comunque, all’interno di Israele questa situazione passa largamente sotto silenzio e nascosta.

Ora, il mio obiettivo è di tentare di rimuovere il velo, almeno un poco.

Dico “almeno un poco” in quanto avrei bisogno di ben più tempo di quello assegnatomi per fare giustizia su questo tema.

Esistono, per esempio, più di 30 leggi che in modo esplicito impongono discriminazioni tra Ebrei e non-Ebrei – una diversa modalità di rapportarsi dello Stato con un quinto della popolazione di Israele, costituito da Palestinesi che dovrebbero godere in apparenza della completa cittadinanza. Inoltre, ci sono molte altre leggi e pratiche amministrative israeliane che producono conseguenze di segregazione su base etnica, anche se questa discriminazione non si manifesta direttamente.

Allora, invece di cercare di scorrere in modo frettoloso tutti questi aspetti dell’apartheid israeliana, voglio concentrarmi su pochi aspetti rivelatori, su questioni che ho registrato di recente.


Primo, esaminiamo la natura dei diritti di cittadinanza in Israele.

Qualche settimana fa ho incontrato Uzi Ornan, un signore di 86 anni, professore all’università Technion, Istituto Israeliano di Tecnologia ad Haifa, che possiede una delle poche carte di identità in Israele che attestano una nazionalità di “Israelita”. Per molti altri Israeliani le loro carte e i loro documenti personali attestano la loro nazionalità come “Ebreo” o “Arabo”.

Per gli immigrati la cui ebraicità è accettata dallo Stato, ma messa in discussione dalle autorità rabbiniche, sono state approvate qualcosa come altre 130 classificazioni di nazionalità, principalmente in relazione alla religione personale o al paese di origine. La sola nazionalità che non troverete sulla lista è “Israeliano”.

Questo è il motivo preciso per cui il prof. Ornan con altre due dozzine di persone hanno portato la questione davanti ai tribunali: costoro desiderano essere registrati come “Israeliano”. La loro è una battaglia di vasta portata e di molte implicazioni – e per questa sola ragione hanno la certezza di perdere. Perché? È in gioco molto più di una etichettatura etnica o nazionale.

Israele esclude la nazionalità di “Israeliano” per assicurarsi, a realizzazione avvenuta della sua auto-definizione come “Stato ebraico”, di essere in grado di assegnare diritti di una superiore cittadinanza alla “nazione” collettiva di Ebrei sparsi in tutto il mondo, piuttosto che al complesso dei cittadini effettivamente presenti nel suo territorio, che include molti Palestinesi.

In pratica, Israele fa questo per creare due classi principali di cittadinanza: una cittadinanza ebraica per “i cittadini ebrei” e una cittadinanza araba per “i cittadini arabi”.

Entrambe le cittadinanze sono frutto dell’invenzione di Israele e fuori di Israele non hanno alcun significato.

Questa differenziazione di cittadinanza viene riconosciuta dal diritto israeliano: la Legge del Ritorno, per gli Ebrei, rende l’immigrazione praticamente automatica per qualsiasi Ebreo del mondo che desidera insediarsi in Israele; e la Legge di Cittadinanza, per i non-Ebrei, determina su una base completamente separata i diritti di cittadinanza per la minoranza palestinese del paese.

Ancora più importante, quest’ultima legge abolisce il diritto dei parenti dei cittadini palestinesi, che erano stati espulsi con la forza nel 1948, di ritornare alle loro case e alla loro terra.

In altri termini, in Israele esistono due sistemi legali di cittadinanza, che impongono differenziazioni fra i diritti dei cittadini, che si fondano su chi fra loro è Ebreo o Palestinese.

In buona sostanza, questo corrisponde alla definizione di apartheid, come enunciata dalle Nazioni Unite nel 1973: “Qualsiasi provvedimento legislativo e altre misure deliberati per impedire ad un gruppo o a gruppi razziali la partecipazione alla vita politica, sociale, economica e culturale di un paese e la deliberata creazione di condizioni per ostacolare il pieno sviluppo di un gruppo e di altri gruppi.”

La clausola include i seguenti diritti: “il diritto a vivere e a ritornare nel proprio paese, il diritto alla nazionalità, il diritto alla libertà di movimento e di residenza, il diritto alla libertà di opinione ed espressione.”

Questa separazione di cittadinanza è assolutamente essenziale al consolidamento di Israele come Stato ebraico. Fossero tutti i cittadini ad essere definiti uniformemente Israeliani, se esistesse solo un’unica legge concernente i diritti di cittadinanza, allora ne deriverebbero conseguenze veramente drammatiche.

La conseguenza più significativa potrebbe essere che la Legge del Ritorno potrebbe cessare di essere applicata agli Ebrei o essere applicata allo stesso modo ai cittadini palestinesi, consentendo a costoro di riportare in Israele i loro parenti esiliati – il molto temuto Diritto al Ritorno.

In un periodo più o meno lungo, la maggioranza ebraica di Israele potrebbe essere erosa e Israele potrebbe diventare uno stato bi-nazionale, probabilmente a maggioranza palestinese.

Vi potrebbero essere alcune altre conseguenze prevedibili derivate da una paritaria cittadinanza. Ad esempio, potrebbero i coloni ebrei essere in grado di conservare il loro status privilegiato nella West Bank, se i Palestinesi di Jenin o di Hebron avessero parenti all’interno di Israele con gli stessi diritti degli Ebrei? Potrebbe l’esercito di Israele continuare ad esercitare le sue funzioni di esercito di occupazione in uno stato propriamente democratico? E potrebbero i tribunali, in uno stato di cittadini con pari diritti, continuare a girare lo sguardo da un’altra parte per non vedere le brutalità dell’occupazione? In ogni caso, sembra estremamente improbabile che lo status quo potrebbe essere conservato.

In altre parole, l’intero edificio delle norme israeliane di apartheid all’interno di Israele supporta e mantiene il castello delle norme discriminatorie all’interno dei territori occupati. Essi si sostengono a vicenda o cadono insieme.


Poi, prendiamo in esame la questione del controllo della terra.

Il mese scorso ho conosciuto una coppia di Ebrei israeliani eccezionale, gli Zakai. La loro eccezionalità consiste soprattutto nel fatto che hanno sviluppato una profonda amicizia con una coppia di Palestinesi abitanti in Israele. Sebbene io abbia documentato per tanti anni la situazione israelo-palestinese, non mi ricordo di essermi mai imbattuto in un Ebreo israeliano che avesse un amico palestinese sull’esempio di questi Zakai.

Vero, ci sono molti Ebrei israeliani che rivendicano un amico “arabo” o “palestinese”, nel senso che loro scherzano con un tipo di cui frequentano la rivendita di hummus (ceci o una salsa a base di ceci, insaporita con olio, aglio, limone, paprika e tahina, la pasta di semi di sesamo tostati) o che ripara la loro auto. Vi sono anche Ebrei israeliani – e questi costituiscono un gruppo estremamente importante – che si confrontano con i Palestinesi in battaglie politiche, come sta avvenendo qui a Bilin o a Sheikh Jarrah a Gerusalemme. In questi posti, Israeliani e Palestinesi, contro ogni previsione, si sono impegnati per instaurare una genuina amicizia, essenziale se si vuole sconfiggere il sistema di apartheid di Israele.

Ma la relazione che intercorre fra gli Zakai e i loro amici Beduini, i Tarabin, non è quel tipo di amicizia. La loro amicizia non si è modellata, o concretata, su una lotta politica, a sua volta incorniciata dall’occupazione israeliana; non si tratta di un’amicizia interessata; non ha obiettivi che vadano più in là di questa loro amicizia. Si tratta di un’amicizia – o almeno questo è sembrato a me – fra uguali in modo sincero. Un’amicizia di completa intimità.

Quando ho fatto visita agli Zakai, subito ho riscontrato quale incredibile ed insolito punto di vista sia presente in Israele.

La ragione della profonda separazione culturale ed emozionale fra il mondo ebraico e quello palestinese non è difficile da scandagliare: gli Ebrei e i Palestinesi vivono in mondi fisici completamente separati. Loro vivono separatamente in comunità segregate, separate non per scelta ma da leggi e procedure legalmente imposte. Anche in quel pugno di centri abitati cosiddetti “misti”, Ebrei e Palestinesi di solito vivono separati, in distinti e chiaramente delimitati quartieri residenziali.

E quindi non c’é da essere sorpresi se la vera questione che mi ha condotto dagli Zakai era se un cittadino palestinese avesse titoli per vivere in una comunità ebraica.

Gli Zakai volevano affittare ai loro amici, i Tarabin, la loro casa nel villaggio agricolo di Nevatim nel Negev – attualmente una comunità esclusivamente ebraica. I Tarabin avevano un serio problema abitativo nella loro comunità beduina confinante.

Ma quello che gli Zakai immediatamente scoprivano era che esistevano oppressivi ostacoli sociali e legali a che i Palestinesi uscissero dai ghetti in cui si presumeva dovessero vivere. Non solo la municipalità eletta di Nevatim opponeva decisamente il suo rifiuto all’ingresso di una famiglia beduina nella loro comunità, ma a questo si opponevano anche i tribunali israeliani.

Nevatim non è un caso eccezionale. Esistono più di 700 comunità rurali di questo tipo – specialmente kibbutzim e moshavim – che escludono che i non-Ebrei possano vivere al loro interno. Questi Ebrei controllano la maggior parte del territorio abitabile di Israele, quindi territorio che apparteneva ai Palestinesi: o profughi della guerra del 1948, o cittadini palestinesi che hanno viste le loro terre confiscate da leggi speciali.

Oggi, dopo queste confische, almeno il 93% del territorio di Israele è nazionalizzato -- vale a dire, è tenuto in custodia non per i cittadini di Israele ma per gli Ebrei di tutto il mondo. (Qui, ancora una volta, dobbiamo sottolineare una di quelle importanti conseguenze della cittadinanza differenziata che abbiamo appena esaminato.)

L’accesso alla maggior parte di questa terra nazionalizzata è diretto da commissioni di controllo, sovrinteso da organizzazioni sioniste para-governative ma completamente indipendenti come l’Agenzia Ebraica e il Fondo Nazionale Ebraico.

La loro funzione è quella di assicurare che l’accesso a tali comunità rimanga vietato ai cittadini palestinesi, così come gli Zakai e i Tarabin hanno potuto riscontrare nel caso di Nevatim.

I funzionari di Nevatim hanno sostenuto con forza che la famiglia palestinese non aveva diritto nemmeno di prendere in affitto, lasciamo perdere di comprare, una proprietà in una “comunità ebraica”. Effettivamente, questa posizione è stata sorretta dall’Alta Corte di Israele, che ha deliberato che la famiglia doveva adeguarsi al verdetto della commissione di controllo, il cui vero scopo era quello di escluderla!

Ancora, la Convenzione ONU del 1973 sul “crimine di apartheid” è istruttiva: l’apartheid include provvedimenti “atti a dividere la popolazione entro linee di demarcazione razziale attraverso la creazione di riserve separate e di ghetti per i membri di un gruppo o gruppi razziali…[e] l’espropriazione delle proprietà fondiarie appartenenti a un gruppo o gruppi razziali o a membri degli stessi.”

Se i cittadini ebrei e palestinesi sono stati tenuti separati, come effettivamente è avvenuto – e un sistema educativo differenziato e pesanti limitazioni a matrimoni interconfessionali hanno rinforzato questa segregazione fisica e le differenze di sensibilità e di modi di pensare – come hanno potuto gli Zakai e i Tarabin stringere una così stretta amicizia?

Il loro caso è un interessante esempio di fortuna strepitosa, come ho scoperto quando li ho incontrati.

Weisman Zakai è figlio di genitori ebrei iracheni che sono emigrati in Israele nei primi anni di questo Stato. Allora, lui e Ahmed Tarabin si sono conosciuti da ragazzi negli anni sessanta, frequentando i mercati della povera città di Beersheva, lontana dal centro del Paese. Entrambi riscontrarono che quello che avevano in comune vinceva le divisioni apparenti che si sarebbe supposto li dovessero tenere separati e timorosi l’uno dell’altro. Entrambi parlavano la lingua araba in modo fluente, entrambi erano esclusi dalla società ebraica, in prevalenza ashkenazita, [Gli ebrei ashkenaziti popolarono le aree orientali europee e la Russia: parlavano (e parlano) yiddish, una lingua derivata dal gotico, con elementi ebraici entrati ai tempi della conversione dei kazari all'ebraismo, N. del T.] ed entrambi condividevano la passione per le automobili.

Nel loro caso, il sistema di apartheid israeliano ha fallito nel suo intento di tenerli fisicamente e sentimentalmente separati, ha fallito nel renderli timorosi, e perfino ostili, uno contro l’altro.

Però, come gli Zakai hanno imparato a loro spese, rifiutandosi di vivere secondo le norme del sistema di apartheid imposto da Israele, questo sistema li ha respinti ed isolati. Agli Zakai è stata vietata la possibilità di affittare ai loro amici ed ora vivono relegati come paria nella comunità di Nevatim.


Per ultimo, consideriamo il concetto di “sicurezza” all’interno di Israele.

Come abbiamo visto, la natura di apartheid delle relazioni fra cittadini ebrei e palestinesi è tenuta in ombra nelle sfere legali, sociali e politiche. Non rispecchia la “meschina apartheid” che era caratteristica del marchio infamante del Sud Africa: gabinetti pubblici, panchine e autobus separati. Comunque, in un caso, questa meschina modalità discriminatoria appare in tutta la sua evidenza – e si verifica quando Ebrei e Palestinesi entrano ed escono dal Paese attraverso i passaggi di confine e attraverso l’aeroporto internazionale “Ben Gurion”. Qui la maschera viene rimossa e il differente status di cittadinanza goduto da Ebrei e Palestinesi viene completamente alla luce.

Questa lezione è stata appresa da due fratelli palestinesi di mezza età, che ho intervistato questo mese. Residenti di un villaggio vicino a Nazareth, sono stati per molto tempo sostenitori del Partito Laburista ed orgogliosamente mi hanno mostrato una foto sbiadita di loro che avevano organizzato un incontro conviviale in favore di Yitzhak Rabin all’inizio degli anni novanta.

Ma, durante il nostro incontro si sono dimostrati arrabbiati ed amareggiati, giurando che non avevano mai più votato per un partito sionista.

Il loro amaro risveglio era avvenuto tre anni fa, quando si erano recati in viaggio d’affari verso gli Stati Uniti con un gruppo di agenti assicurativi ebrei. Per il volo di ritorno, erano arrivati all’aeroporto John Fitzgerald Kennedy (JFK) di New York e qui riscontravano che i loro colleghi ebrei passavano in pochi minuti attraverso i posti di controllo di sicurezza della compagnia aerea israeliana El Al. Intanto, loro dovevano passare due ore per essere interrogati e per vedere i loro bagagli minuziosamente ispezionati.

Quando finalmente ricevevano il permesso di passare, veniva loro assegnata un’agente di custodia il cui compito era quello di tenerli sotto continua sorveglianza – davanti a centinaia di altri passeggeri – finché si imbarcavano sull’aeroplano. Quando uno dei due fratelli si era recato in bagno senza prima ricevere il permesso, la guardia lo reguardiva in pubblico e il comandante della sicurezza minacciava di impedirgli di salire sull’aereo se prima non porgeva le sue scuse.

Finalmente, questo mese il tribunale accordava ai fratelli 8.000 dollari di indennizzo per quello che definiva come un trattamento nei loro confronti “offensivo e non necessario”.

Due particolari su questo caso devono essere sottolineati.

Il primo è che la squadra di sicurezza della El Al ha ammesso in tribunale che entrambi i fratelli non costituivano un rischio per la sicurezza di nessun tipo. La sola motivazione per lo speciale trattamento riservato ai due fratelli era la loro appartenenza nazionale ed etnica. Si trattava di un caso trasparente di un disegno razziale.

Il secondo particolare da tenere presente è che la loro esperienza non è nulla di straordinario rispetto a quello che capita ordinariamente ai cittadini palestinesi che viaggiano da e verso Israele. Incidenti simili, e ben peggiori, avvengono ogni giorno durante procedure di sicurezza di questa natura.

L’eccezionale in questo caso è stato che i fratelli hanno intentato contro la El Al un’azione legale costosa e che ha richiesto molto tempo.

Hanno fatto così, io presumo, perché si sono sentiti tanto malamente traditi. Avevano fatto l’errore di prestar fede alla propaganda (hasbara) dei politici israeliani di tutti i partiti, che dichiaravano che i cittadini palestinesi potevano godere dello status di parità con i cittadini ebrei, quando si fossero mostrati fedeli allo Stato. I fratelli avevano supposto che diventando Sionisti sarebbero divenuti cittadini di prima classe. Arrivando a questa conclusione, non avevano compreso la realtà discriminatoria insita in uno Stato ebraico.

Al punto di controllo sicurezza all’aeroporto, il più colto, rispettabile e ricco cittadino palestinese sarà sempre trattato peggio del più screditato cittadino ebreo o di un Ebreo che abbraccia posizioni estremiste o perfino di un cittadino ebreo con un curriculum vitae da criminale.

Il sistema di apartheid di Israele è quello di conservare i privilegi agli Ebrei in uno Stato ebraico.

E nel momento in cui questo privilegio è sentito visceralmente essere più vulnerabile dalla normalità degli Ebrei, nell’esperienza di vita e di morte del volare a migliaia di piedi sopra la terra, i cittadini palestinesi devono mostrare la loro condizione di estranei, di nemici, chiunque essi siano e qualsiasi cosa abbiano, o non abbiano, fatto.

Le norme di apartheid, così come ho dimostrato, si applicano ai Palestinesi all’interno di Israele e nei territori occupati.

Ma la discriminazione nei territori è peggiore di quella esercitata all’interno di Israele? Dovremmo preoccuparci di più per una “grande” apartheid nella West Bank e a Gaza rispetto ad una più fievole apartheid all’interno di Israele? Un tale argomento dimostrerebbe da parte nostra una pericolosa idea sbagliata rispetto alla indivisibile essenza dell’apartheid israeliana nei confronti dei Palestinesi e rispetto ai suoi obiettivi.

Sicuramente, corrisponde al vero che l’apartheid nei territori è molto più aggressiva che all’interno di Israele. Vi sono due ragioni per questo. La prima è che l’apartheid sotto occupazione è sovrintesa in modo molto meno stretto dai tribunali civili israeliani rispetto a quello che avviene all’interno di Israele. Per dirla senza tanti giri di parole, qui in Cisgiordania è possibile farla franca più facilmente.

La seconda ragione, e più significativa, tuttavia, resta nel fatto che il sistema di apartheid di Israele nei territori occupati è costretto ad essere più aggressivo e crudele – e questo perché qui la battaglia non è ancora vinta. L’aggressione della potenza occupante per portarvi via le vostre risorse – la vostra terra, l’acqua e il lavoro – è in fase di sviluppo, ma il risultato finale si deve ancora decidere. Israele deve affrontare nel tempo considerevoli pressioni e una legittimazione internazionale che sta dissolvendosi, quanto più opera per sottrarvi i vostri beni. Ogni giorno che voi resistete rende questo suo impegno un poco più arduo.

Per contrasto, in Israele, le norme di apartheid sono fortificate – la sua vittoria è stata conseguita da decenni. I cittadini palestinesi possiedono una cittadinanza di terza o quarta classe; dagli Ebrei gli è stata sottratta quasi tutta la loro terra; gli Ebrei hanno permesso loro di vivere solamente in ghetti; il sistema educativo dei Palestinesi viene controllato dai servizi di sicurezza; i Palestinesi possono compiere solo pochi lavori che questi Ebrei non vogliono fare; i Palestinesi possono votare, ma non possono partecipare al governo o ottenere un qualsiasi cambio di politica; e via così.

Senza dubbio, purtroppo dovete affrontare un destino analogo. L’apartheid mascherata che i Palestinesi devono affrontare all’interno di Israele è la fotocopia di un tipo di apartheid mascherata – ma più legittimata – di quella progettata per i Palestinesi nei territori occupati, almeno per quelli a cui è concesso di rimanere nei loro Bantustan. E per questa vera ragione, rendere visibile e sconfiggere l’apartheid all’interno di Israele è vitale per il successo della resistenza alle dicriminazioni che qui hanno messo radici.

Questo è il motivo per cui dobbiamo lottare contro l’apartheid di Israele dovunque venga imposta – a Jaffa o a Gerusalemme, a Nazareth o a Nablus, a Beersheva o a Bilin. È la sola lotta che può portare giustizia ai Palestinesi.

 

April 23, 2010   Demonstration 
Manifestazione a Bilin il 23 aprile. Foto FLV / Palestine Monitor



Originale da: CounterPunch-Israel's Big and Small Apartheids: An Entrenched System

Articolo originale pubblicato il 26-4-2010

L’autore

Curzio Bettio è membro di Tlaxcala, la rete internazionale di traduttori per la diversità linguística. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.

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