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Gli amici di Israele nel Vicino Oriente

di Alessandro Iacobellis - 06/05/2010

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Quando si parla di Vicino Oriente, esistono diversi luoghi comuni e miti da sfatare. Non solo nell’opinione pubblica manipolata e disinformata dai media “embedded”, ma anche nelle fila dei cosiddetti antagonisti (veri o sedicenti tali).
Uno dei luoghi comuni più diffusi vede Israele come baluardo solitario e isolato, circondato da un mare di Stati e popoli tutti ugualmente desiderosi di vederne la distruzione finale. Questo postulato può avere un duplice uso, sia fra i filo che fra gli anti-israeliani. I primi infatti ne approfittano per diffondere l’immagine di una Tel Aviv circondata da orde di invasati fanatici, e che per questo è quasi obbligata a ricorrere ad ogni mezzo per salvaguardare la sua stessa esistenza (che, a detta di costoro, costituirebbe garanzia di sicurezza anche per tutto quanto l’Occidente). I secondi, invece, ne approfittano per compiere analisi spesso superficiali ed edulcorate (tipiche soprattutto di ambienti legati al terzomondismo progressista), che impediscono una analisi lucida e obiettiva della realtà, degli attori e dei loro interessi sul campo.
Per prima cosa, chiariamo che, come ogni altra entità politica esistita nel corso della storia, anche Israele ha sempre cercato di trovare quanti più alleati possibili pronti a sostenere la propria causa. Tenendo presente infatti che il conflitto vicino-orientale è genericamente descritto come “arabo-israeliano”, va considerato prima di tutto che il mondo arabo non è, non è mai stato né probabilmente sarà mai un monolite indivisibile. Anzi, al suo interno sussistono profonde differenze, sia sul piano religioso (le varie confessioni musulmane, come sunniti e sciiti, ma anche gli arabi cristiani) sia su quello squisitamente politico. Le rivalità fra regimi di natura diversissima, spesso avversari tra loro, come sono le monarchie filo-occidentali da una  parte (Arabia Saudita, Marocco, Emirati Arabi Uniti, e così via) e i regimi popolari, di matrice laica e panaraba (quelli a guida baathista, come era l’Iraq di Saddam, come è tuttora la Siria di Assad, o per tornare ancora più indietro nel tempo l’Egitto nasseriano). La fine della Guerra Fredda, il crollo dell’Unione Sovietica e l’occidentalizzazione del mondo hanno fatto sì che il numero degli Stati arabi che perseguissero politiche di sovranità nazionale si sia drasticamente ridotto. A ciò ha fatto seguito la normalizzazione di Paesi storicamente “non allineati”, ma poi scivolati sotto l’ala protettiva di Washington, come il già citato Egitto (che con Sadat prima e Mubarak poi è passato da capostipite della dignità nazionale araba a cane da guardia degli interessi occidentali nell’area, nonché complice di Tel Aviv nello strangolamento di Gaza) e lo Yemen.
Pertanto, si può affermare senza timore di smentite che la retorica di Israele circondato da nemici è, appunto, retorica e nient’altro. Gli unici Paesi arabi con cui attualmente Israele ha dei contenziosi sono Siria e Libano (vale la pena di ricordare che l’Iran, che pure è attualmente il maggiore rivale strategico nella regione, non è arabo). E tali contenziosi discendono da ragioni ben precise e giustificate: ambedue gli Stati rivendicano territori sottoposti ad occupazione illegale da parte di Tel Aviv, cosa riconosciuta anche dalle leggi e dagli organismi internazionali (le risoluzioni delle Nazioni Unite stanno lì a dimostrarlo). Le Fattorie di Shebaa, Kfar Shuba e Ghajar per il Libano, il Golan per quanto concerne la Siria. Insomma, nessuna voglia di annientamento dell’infedele, come ripetono spesso i propagandisti filo-sionisti di casa nostra, bensì giustificate rivendicazioni del maltolto. Prova di questa “doppia anima” nei confronti di Israele è l’atteggiamento remissivo (per non dire collaborazionista…) della stessa Lega Araba, che addirittura si è recentemente espressa a favore di una pace al ribasso per la questione del futuro Stato palestinese (non male per un organismo che in teoria dovrebbe sostenere la causa araba).
Ciò premesso, è naturale che anche Israele cerchi alleati e sponde su cui giocare in campo avverso. Non solo perché avere alleati è meglio che avere nemici (il che è pleonastico), ma anche per applicare il sempre efficace “divide et impera”.
Perciò, sin dalla sua creazione (o per meglio dire imposizione) nel 1948, Israele è alla ricerca di amici nella regione, e li ha anche trovati. Dove? In Libano ad esempio, durante gli anni della guerra civile, quando Tel Aviv riuscì ad agganciare al proprio carro i cristiano maroniti e i drusi. Va detto che oggi nel Paese dei Cedri la situazione è in parte mutata: i maroniti si sono per la maggior parte orientati su scelte di indipendenza nazionale, come dimostra l’alleanza politica fra il partito del generale Michel Aoun (maggioritario all’interno della comunità) e Hezbollah. I drusi e una parte della comunità cristiana continuano ad avere posizioni più ambigue, anche se è difficile comunque etichettarli come filo-israeliani.
Le amicizie strette da Israele riguardano anche altre aree: il Sudan, ad esempio, dove la causa del Darfur nasce proprio da un’operazione di “lobbying” israeliana (su questo argomento si consigliano diversi interessanti contributi del prof. Claudio Moffa). Sostegno non soltanto mediatico, ma anche pratico, come i rifornimenti in soldi e armi ai gruppi separatisti come il Jem (Movimento per la Giustizia e l’Eguaglianza) e l’Esercito di Liberazione del Sudan. Interferenze negli affari interni di uno Stato sovrano, sostegno al terrorismo: se non si stesse parlando di Israele, queste sarebbero accuse più che legittime. L’obiettivo (non dichiarato): la balcanizzazione del Sudan, privando il nord arabo e islamico delle risorse di idrocarburi di cui il sud nero, cristiano e animista, è ricco. Troppo ingombrante e indipendente il governo di Omar Al Bashir, che sorge in una zona strategica per l’Africa (e che, en passant, si è anche beccato il suo carico di bombe con la Stella di Davide all’inizio del 2009).
Ma non finisce qui.
Perché gli alleati storici, di ferro di Israele nella regione sono altri. Per la precisione, un altro popolo senza Stato, storicamente vessato e carico di resentissement nei confronti di coloro che ritiene suoi carnefici storici (turchi e arabi): i curdi.
Il ruolo giocato dai curdi per Israele è di enorme importanza strategica per tantissimi motivi. Per prima cosa, il Kurdistan è diviso fra Turchia, Siria, Iraq e Iran. Di questi quattro Stati, noterete come tre (Siria, Iran e Iraq) siano stati i più acerrimi oppositori del progetto sionista. Pertanto, fomentare spine nel fianco e opposizioni armate interne a questi regimi è stata considerata sin da subito un’occasione da non perdere. Con l’unica controindicazione che così facendo si rischiava di danneggiare a medio termine le relazioni bilaterali con la Turchia, fino a ieri alleato di ferro di Israele. Non è un caso che a metà anni ’90 la cooperazione militare tra Ankara e Tel Aviv si fosse sviluppata proprio per contrastare le azioni armate dei separatisti del Pkk di Ocalan, attivo nel sud-est del Paese (acquisti di armi, droni e collaborazioni nel campo dell’intelligence), e che la rottura di questi mesi stia avvenendo anche a causa del persistente appoggio israeliano ai curdi. Il Pkk che colpisce la Turchia usando come retrovia il nord dell’Iraq, che ormai dai tempi dell’operazione Desert Storm del 1991 è semi-autonomo e diviso fra l’Upk di Talabani (attuale presidente-fantoccio irakeno), attestato nella zona di Suleymaniya e il Pdk di Barzani, con la propria roccaforte ad Erbil. I due non si sono mai amati, e anzi, nel ’96 si fecero la guerra fra loro (con Barzani che fu addirittura sul punto di chiedere aiuto a Saddam Hussein!), ma su una cosa sono sempre andati d’accordo: prima, nel considerare gli statunitensi come loro liberatori e protettori (la famosa “no-fly zone” che li tagliò di fatto fuori dalla sovranità territoriale di Baghdad), poi nell’accogliere un sempre crescente numero di non meglio specificate aziende e compagnie private israeliane. Dopo il sostegno logistico ai peshmerga in funzione anti-Saddam, una volta caduto il regime baathista Israele non ha lasciato, ma piuttosto ha raddoppiato: acquisti di terreni e proprietà, infiltrazione massiccia di agenti del Mossad sul terreno. Una vera e propria occupazione silenziosa e non dichiarata, diversamente da quella ben visibile dei carri armati Usa, ma altrettanto capace di alterare equilibri decennali. Non è un caso che negli ultimi anni si sia sviluppata la lotta armata anche da parte dei curdi iraniani, storicamente fra i più integrati, con la nascita di un gruppo armato, il Pjak (Partito per la Vita Libera in Kurdistan), apparentemente straboccante di armi e finanziamenti di natura non identificata… La strategia destabilizzatrice di Tel Aviv si è però rivelata un’arma a doppio taglio: il nord irakeno usato come retrovia per colpire in Turchia e in Iran ha portato a ritorsioni e incursioni coordinate da parte di Ankara e Teheran, che hanno stretto rapporti politici ed economici via via più saldi, proprio in coincidenza del raffreddamento fra Ankara e l’esecutivo israeliano.
Discorso a parte merita la Siria, che finora ha saputo contenere e gestire egregiamente la questione curda, con l’istituzione di un auto-governo dotato di ampia autonomia (Assemblea Nazionale del Kurdistan Siriano).
Insomma, a dispetto della vulgata comune, a lavorare per Israele nel Vicino e Medio Oriente sono in tanti. Alcuni attori lo fanno coscientemente, altri sono invece utili idioti nelle mani di Tel Aviv.