Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Pioppi

Pioppi

di Francesco Lamendola - 10/05/2010

http://www.lepradine.it/files/image/pradine_natura6.jpg

 

Da un giorno all’altro la primavera è esplosa nel folto dei pioppi che svettano in riva al fiume, presso il ponte.

Si tratta di alcuni pioppi cipressini («Populus pyramidalis»), di almeno venti metri, stretti insieme a formare un delizioso boschetto che sembra ancora più alto, poiché sorge sul ciglio della breve ma ripida scarpata che sovrasta la corrente.

Fino a ieri i loro tronchi alti e diritti si slanciavano verso l’alto nella loro nudità invernale: spogli, senza bellezza, senza splendore.

Oggi, di colpo, appaiono adornati del loro magnifico manto primaverile, con le foglioline color verde tenero che si muovono al vento e fanno tremolare la vista in una gloria di luce, di vita, di armonia.

I pioppi, in questo momento veramente magico della natura che va dalla fine di aprile agli inizi di maggio, sembrano pervasi da un fremito di vita tutto particolare, diverso a quello di ogni altro momento dell’anno.

Le rondini da poco arrivate e gli altri uccelli che svolazzano loro intorno, riempiendo l’aria del loro stridio festoso e rigando il cielo di velocissimi voli, aumentano quel fascino indefinibile, ma non ne sono all’origine.

Questi sono i giorni azzurri, i più dolci e profumati dell’anno, quando tutto sembra emanare una misteriosa soavità e si respira nell’aria un che di vago e indefinito che giunge a sfiorare le corde più profonde dell’anima, strappandone una nostalgia senza nome.

L’odore intenso della vegetazione che sboccia è come una droga o un potente stimolante, penetra al fondo dell’essere e s’insinua nelle pieghe più riposte, con tutta la sua carica di promesse e di sottile sensualità.

E intanto la luce del sole, mano a mano che il giorno avanza, si posa sulla chioma dei pioppi e strappa alle minute foglioline, protese in cima ai loro lunghi piccioli, innumerevoli scaglie d’incomparabile fulgore, in perenne movimento: come pennellate incandescenti che incendiano la tela di un pittore sovrumano.

È uno spettacolo semplicemente meraviglioso, tale da lasciare a bocca aperta quanti sappiano fermarsi per vederlo: non esistono parole per descriverlo, è una cosa che parla direttamente alle fibre più intime dell’anima.

I pioppi che svettano nella gloria del loro fogliame novello, stagliandosi contro l’azzurro infinito, solcato da esili cirri dalle curve eleganti, paiono le viventi colonne di una grandiosa cattedrale a cielo aperto, spalancata sull’immensità del mondo.

Il movimento continuo, vivacissimo delle foglioline che tremano alla carezza del vento le anima in maniera quasi umana e da quei tronchi giganteschi, eppure snelli e leggiadri, si sprigiona una forza soave, fatta di leggerezza, oltre che di potenza.

Sembra che quel fremito voglia dire qualche cosa; che stia parlando in un linguaggio misterioso e tuttavia preciso e intenzionale: ed è impossibile sottrarsi all’impressione che quel messaggio sia diretto a ciascuno di noi, che a ciascuno si rivolga in modo personale.

Questa è davvero la verde casa della natura, nella quale possiamo intravedere quel legame ancestrale, gioioso, che univa ad essa i nostri progenitori, nel tempo in cui questi ultimi non conoscevano la realtà solo per mezzo della ragione strumentale e calcolante, ma con la totalità e la profondità del loro essere…


* * * * *

Ora la luce del giorno incomincia ad attenuarsi ed il sole si avvicina alle vette dei monti, a occidente, spargendo fra le nubi lontane i suoi raggio obliqui, in una fantasmagoria di riflessi e di magici splendori.

Il linguaggio dei pioppi, il linguaggio degli alberi è chiaro, come lo è quello di ogni altro essere vivente in natura: è una preghiera; più precisamente, una preghiera di lode e di ringraziamento nei confronti dell’Essere.

Solo il linguaggio degli uomini è ambiguo; solo il linguaggio degli uomini è intriso di folli brame e di assurdi timori e non si unisce alla lode e al ringraziamento universali, ma si avvolge su se stesso in faticosi balbettamenti e prorompe, talvolta, in autentiche bestemmie.

Il linguaggio umano è ambiguo perché l’anima della maggior parte degli esseri umani è colma di ambiguità, contraddizioni, ferite non rimarginate e nodi irrisolti; perché l’anima della maggior parte degli esseri umani è tormentata da tensioni che le impediscono di vivere in pace con se stessa e con il mondo.

Vi possono essere, ad esempio, delle esperienze così dolorose, che coloro i quali le hanno vissute decidono di chiudere le corrispondenti stanze della propria anima e ne gettano via la chiave: ma è chiaro che, così facendo, esse accumulano un certo numero di contraddizioni esistenziale, le quali, presto o tardi, finiranno per venire al pettine; né ci si può aspettare che il linguaggio di costoro sia un esempio di chiarezza e linearità.

Quando non è ambiguo, troppo spesso il linguaggio degli umani è intriso di pessimismo e di negatività, come se fosse scontato che nulla di buono e di bello possiamo attenderci dalla vita, se non strappandole qualche raro e fortunato momento di evasione.

Vi sono persone che se ne vanno per la via, curve e tristi, con lo sguardo spento e una piega amara sulla bocca, come se il mondo, per loro, avesse perduto definitivamente ogni incanto e ogni splendore. È commovente immaginarsele come dovevano essere a dodici, a quindici, a diciotto anni: quando anche per loro vi sarà stato un momento di speranza, se non di gioia; quando anche a loro il futuro sarà apparso carico di promesse, e sia pure vaghe e indistinte.

Ma poi qualche cosa è successo; le speranze si sono infrante, oppure sono lentamente inaridite; l’orizzonte si è ristretto sempre di più; e alla fine esse si sono arrese, si sono lasciate vivere sempre più stancamente, sempre più vuote e rassegnate, magari con l’aiuto massiccio di farmaci per tenere a bada l’angoscia, la depressione, l’insonnia e l’infelicità.

Ecco, questa infine è la parola che non si vorrebbe pronunciare mai, come se si trattasse di un parente povero che nessuno vuol riconoscere: l’infelicità. La maggior parte delle persone conduce una esistenza infelice, fino ad ammalarsene, fino a spegnere in sé ogni slancio verso il domani, ogni senso di incanto verso lo splendore della vita.

Non c’è da stupirsi che il linguaggio degli esseri umani sia così stentato, contraddittorio, cacofonico; a cominciare dal linguaggio più immediato di tutti, quello del corpo e dell’espressione del viso. Passare in rassegna lo sguardo delle persone che si incrociano nel corso della giornata vuol dire fare la contabilità di una maggioranza schiacciante di vite infelici, rinunciatarie, straziate, ferite a morte.

Le parole che salgono alle labbra di tutta questa massa sofferente e disperata sono parole tristi, cupe, rassegnate o incollerite; non certo parole di lode e di ringraziamento. E, nel coro, sovente le più affrante e le più scoraggiate sono proprio quelle degli uomini di cultura, degli intellettuali, degli educatori, a cominciare dai genitori: cioè proprio coloro che dovrebbero rischiarare il cammino agli altri e mostrare il cammino alla gioventù.

Gli adulti non raccontano più le fiabe ai loro bambini; non mostrano loro, con accento ammirato, le meraviglie della natura; non insegnano loro a godere del prodigio della vita e a ringraziarla per tutto quanto essa ci rende possibile.

In compenso, le parole vuote e demenziali della televisione coprono tutto, uniformano tutto, svuotano i cuori e le menti di ogni nobile impulso, di ogni slancio dell’anima verso l’assoluto e introducono sterili capricci e brame materiali, in luogo di forti proponimenti e purezza di ideali. E tutto sprofonda in un grigiore indistinto, in una mediocrità eretta a sistema.

* * * * *

Dovremmo imparare dagli alberi, dovremmo prendere esempio da questi pioppi che fremono e si scuotono nel vento di primavera, rinnovando lo spettacolo meraviglioso della vita.

Gli alberi accettano con riconoscenza il sole e la pioggia, la carezza della primavera e le unghiate dell’inverno; saggi, pazienti, imperturbabili. Radicati nel terreno, sanno chi sono e non hanno fretta, non hanno smanie o frenesie.

La loro forza è tranquilla, raccolta, quasi dissimulata, ma enorme. Dall’alto delle loro chiome ondeggianti hanno visto passare uomini e cose, tempi e stagioni; ma loro rimangono, saldi e tenaci, e vedranno molte altre stagioni, quando la nostra sarà terminata.

Sono in pace con se stessi; e, nel mondo, ci stanno bene, alzando gioiosamente i rami verso la luce del sole e offrendo la chioma alla carezza del vento.

Noi umani, e specialmente noi figli della modernità, abbiamo smarrito il nostro posto nella natura, da quando abbiamo deciso, in nome della Ragione e del Progresso, di dichiararle guerra; e abbiamo perduto la pace con noi stessi.

In effetti, le due cose sono collegate; sono le due facce di una stessa medaglia: abbiamo perduto la pace con noi stessi perché abbiamo smarrito il nostro posto nell’ordine armonioso della natura; e viceversa, abbiamo smarrito quel posto perché non siano più capaci di convivere armoniosamente con noi stessi, con la nostra parte più profonda.

Essere in guerra con la natura vuol dire essere in guerra con se stessi; vuol dire essere infelici e disperati, magari dietro la maschera della sicurezza e dell’arroganza. Ma è solo una falsa sicurezza che non inganna nessuno, e soprattutto non tranquillizza l’inquietudine interiore. Sentiamo di aver vinto tutti i nemici esterni, ma al prezzo di essere divenuti nemici della nostra parte più profonda e più vera.

Quando torneremo a volerci bene, quando capiremo l’importanza di fare la pace con noi stessi e di ritrovare l’amicizia con la nostra parte più intima e autentica?

Quando la smetteremo di vivere come in un perpetuo esilio, circondati da mille oggetto costosi e da ninnoli tecnologici, ma tagliati fuori dai sentimenti che, soli, possono restituirci il significato della nostra vita?

Dobbiamo imparare da loro, dai pioppi che svettano nella chiara luce di maggio e porgono la chioma all’aria odorosa di terra bagnata.

Come loro, dobbiamo tornare a guardare verso l’alto, a offrirci in dono alla luce, come tante scintille dell’unica realtà da cui proveniamo e alla quale torneremo, al termine del nostro pellegrinaggio: l’Essere perfetto e incorruttibile.

Come essi attingono forza e salute dall’acqua, dall’aria e dalla luce, così anche noi dobbiamo tornare ad abbeverarci alla fontana perenne dell’Essere, che ci trasmette pensieri lieti e luminosi e disperde quelli cupi e scoraggianti.

Siamo fatti per la luce, siamo fatti per la felicità.

Lasciamo che i cattivi maestri, i maestri del dubbio sistematico, della disperazione, dell’odio e del disprezzo, ripetano le loro logore parole astiose o rassegnate e apriamoci alla dimensione della speranza.

Un cielo immenso, sfolgorante si apre sopra di noi.

Dobbiamo solo imparare a vederlo.

Possiamo riuscirci, perché una scintilla di quel cielo è già qui, fin da adesso, dentro di noi; ed è essa che ci sospinge verso l’alto, attratta da una fortissima nostalgia dell’infinito.

Il nostro destino non è quello di languire al buio o di chiudere tristemente, l’una dopo l’altra, le stanze della nostra vasta dimora; ogni stanza che chiudiamo è come una parte di noi stessi che viene eliminata, finché ci troviamo a vivere in uno spazio sempre più angusto, sempre più squallido e asfittico.

Al contrario, dobbiamo spalancare tutte le porte e tutte le finestre, lasciandoci inondare dalla luce.

E poi, nulla.