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Le grandi dighe sono un simbolo di progresso o una manifestazione di suprema ignoranza?

di Francesco Lamendola - 23/05/2010




È ormai cosa rara, per l’Italiano del Nord amante della natura, poter fare una gita in montagna senza imbattersi nello spettacolo di una qualche nuova diga innalzata in una vallata alpina o prealpina, sbarrando il corso di qualche torrente e creando, così, un ampio bacino lacustre, dal quale si ricavano ingenti quantità di energia idroelettrica.
Fino a qualche decennio fa, il paesaggio era ancora incontaminato, e così l’ecosistema delle valli alpine e prealpine; ma ora tutto è cambiato, e migliaia di animali e di piante sono stati sacrificati sull’altare del dio Progresso. Si sono create le premesse per frane e smottamenti, alterando tutto l’equilibrio idrogeologico, e perfino il clima è stato profondamente modificato.
Ogni tanto, quando capitano delle tragedie come quella del Vajont o come quella di Stava, che provocano centinaia di vittime, l’opinione pubblica nazionale viene a sapere della costruzione di questi mostri di cemento armato, innalzati con grande dispendio di tecnologie ma, non di rado, nella più grossolana ignoranza delle condizioni del terreno circostante.
Esse, però, vengono presentate come delle fatalità imponderabili o, se pure si ammette che qualcosa non ha funzionato a livello di pianificazione del territorio, si preferisce lasciare la cosa nel vago, per non rischiare di appannare la splendente immagine del Progresso, augusta divinità davanti alla quale tutti devono inchinarsi devotamente.
Se, poi, dall’Italia si passa negli altri Paesi d’Europa e negli altri continenti, il paesaggio non cambia: ovunque sorgono dighe di grandi dimensioni per la produzione di energia idroelettrica: dalla valle del Nilo, ove la diga di Assuan ha reso necessario addirittura il trasferimento delle grande statue egizie di Abu Simbel, al fiume Volga, ove la costruzione di dighe ha causato niente di meno che l’agonia del Mar Caspio, ridotto a una vasta pozzanghera sempre più inquinata e maleodorante, con una fauna ittica ormai decimata e con un generale impoverimento delle popolazioni rivierasche, costrette ad abbandonare l’attività peschereccia che, da sempre, le sostentava.
Sotto tutte le latitudini e in tutti i climi, la costruzione di grandi dighe provoca ovunque gli stessi effetti negativi: scomparsa di migliaia di esseri viventi, dissesto idrogeologico con pericolo di frane, mutamenti climatici, prosciugamento di bacini naturali interni, distruzione di ricchezze archeologiche e paesaggistiche.
Forse è giunto il momento di domandarsi se i pretesi vantaggi siano tali da compensare gli effetti negativi che a breve, medio e lungo termine si verificano nei territori interessati dalla costruzione delle dighe; se la produzione di energia idroelettrica valga a controbilanciare i danni, le spese e, non di rado, la perdita di vite umane.
Non è un caso che la diga dl Vajont, tanto per fare un esempio, si erga ancora, imponente e superba, sopra il paese di Longarone, ricostruito dopo la totale distruzione del 1963: la piena del Piave, provocata dalla frana del Monte Toc, l’ha scavalcata, lasciandola perfettamente intatta. La diga non era mal costruita, tutt’altro; gli ingegneri che l’hanno progettata e le maestranze che l’hanno realizzata si sono mostrati all’altezza del loro compito. Il punto è un altro: e cioè che non si può pensare di operare un intervento così massiccio e invasivo nel cuore della natura, senza predisporre degli studi sull’impatto che esso provocherà nell’ambiente circostante.
In fondo, è sempre il solito peccato, caratteristico di ogni forma di scientismo: l’incapacità di vedere le cose  nella loro globalità e complessità; l’incapacità di inserire i singoli elementi di un problema in un contesto più ampio e di prevedere le conseguenze di una data azione: come quando, per combattere i parassiti, si irrora una superficie coltivata con enormi quantità di insetticidi e poi si inquinano le falde acquifere o si provocano contraccolpi sull’intero ecosistema, modificando irreparabilmente la catena alimentare che va dagli insetti fino agli anfibi, ai rettili, ai mammiferi e agli uccelli.
È sempre la solita visione riduzionistica che si contrappone alla visione olistica della realtà: come quando, nella medicina, si cura la disfunzione di un organo con un farmaco chimico che provoca effetti dannosi su altri organi; o come quando si effettua un importate intervento chirurgico, là dove sarebbe sufficiente riequilibrare l’organismo per mezzo di cure meno invasive, magari basate su prodotti di origine naturale.
Scrivono M. Crippa e M. Fiorani in «Terra da scoprire. Corso di Scienze della Terra» (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2010, p.316):

«Nei territori fortemente antropizzati l’equilibrio dei corsi d’acqua è spesso alterato dall’azione del’uomo. Ne è un esempio la costruzione di dighe di sbarramento, per mezzo delle quali si creano bacini artificiali pieni d’acqua che può essere utilizzata per l’irrigazione o per la produzione di energia elettrica. Le dighe possono anche servire per il controllo delle piene dei fiumi e per migliorare la navigazione fluviale.
A partire dagli anni Trenta de secolo scorso gli straordinari sviluppi della tecnologia e l’utilizzo di grandi investimenti hanno permesso di erigere dighe di notevoli dimensioni. L’era delle grandi dighe, iniziata nel 1936 negli USA con la Hooven Dam, ha avuto il suo boom dopo il 1950 nei Paesi industrializzati, ma ora interessa soprattutto i Paesi in via di sviluppo. Il Paese che ha oggi il maggior numero di grandi dighe è la Cina, seguita da USA, Russia, Giappone e India.
In Italia, dove esiste una tradizione ingegneristica significativa in questo settore, molti fiumi sono sbarrati da dighe (ne esistono circa 500, di cui 24 solo nel bacino del Piave). Il nostro Paese inoltre coopera ala costruzione di grandi dighe nel mondo. Ma la presenza di grandi dighe, ritenuta un simbolo di progresso, dà origine a gravi problemi ambientali e sociali.
La creazione di un bacino artificiale inserisce nel profilo longitudinale di un fiume un livello base intermedio, che rallenta il fluire delle acque e provoca un’intensa sedimentazione nel bacino stesso, che tende a interrarsi. Il fiume, impoverito del proprio carico, non è più in grado di apportare sino alla foce i sedimenti essenziali per la formazione dei delta e dei litorali sabbiosi.
Il riempimento di un bacino artificiale modifica in modo irreversibile l’ecosistema di una regione: l’innalzamento delle acque causa la morte di un gran numero di animali che popolano la valle, mentre le specie ittiche tipiche di acque correnti vengono sostituite da quelle adattate all’ambiente lacustre; l’abbondanza di nutrienti apportati al lago artificiale dalle rive sommerse produce, inizialmente, un aumento dei pesci, ma l’effetto è di breve durata: la decomposizione della vegetazione sommersa alimenta intensi processi di eutrofizzazione (sviluppo eccessivo di alghe che sottraggono ossigeno ad altri organismi).
L’impatto ambientale si estende anche a valle della diga: la costruzione della diga di Assuan, avvenuta sbarrando il corso del Nilo negli anni ’60, ha provocato la drastica riduzione della pescosità del mare antistante al delta del Nilo, per la mancanza dei nutrienti trasportati dal fiume. I bacini artificiali provocano anche un aumento delle malattie legate alla presenza di acque stagnanti (bilarziosi, cecità fluviale, malaria). Il controllo dei fiumi e dell’acqua resa disponibile dalle dighe è anche causa di conflitti fra Stati: infatti oltre 200 bacini idrografici (che interesano il 40% della popolazione mondiale) sono condivisi da due o più Paesi. Un ulteriore esempio di come sia possibile modificare i sistemi idrologici è rappresentato dalle impreviste conseguenze della creazione (a partire dagli anni ’30 del ‘900) di grandi bacini artificiali lungo il corso del fiume Volga (Russia): il livello del Mar Caspio, in cu sfocia il Volga, si è abbassato di 25 m. e le sue sponde sono diventate immense distese paludose e salinizzate.
E non si può dimenticare che, solo in Italia, più di 3.500 persone hanno perso la vita in catastrofi collegate alla presenza di grandi dighe (Gleno 1923, Sella Zerbino 1935, Vajont 1963, Stava 1985).
Nel 2000 la Commissione Mondiale sulle Dighe ha pubblicato un esteso rapporto sullo stato delle dighe nel mondo e ha pronunciato le sue conclusioni sui danni sociali ed ecologici derivanti dagli impianti più imponenti. La commissione auspica che, in fase di progettazione, si analizzino la convenienza economica e la compatibilità ambientale di ogni intervento in questo settore e propone una politica che tenga conto dei diritti delle comunità locali.
Nonostante ciò, in Cina si è costruita la diga delle Tre Gole, sullo Chan Jiang (Fiume Azzurro): la più grande del mondo (2 km. di lunghezza, 183 m. di altezza, un invaso di 960 kmq.). Gli obiettivi di quest’opera sono molteplici produrre circa il 10% di tutta l0elettricità necessaria al Paese, ridurre di circa cinque milioni di tonnellate l’emissione di anidride carbonica, rendere navigabile per 2.000 chilometri il fiume, evitare disastrose piene. Esiste però un preoccupante rovescio della medaglia: la realizzazione della diga ha cagionato l’esodo di 1,2 milioni di cinesi e probabilmente provocherà cambiamenti climatici nella regione; sono stati sommersi anche centinaia di siti archeologici e deturpate zone di notevole valore paesaggistico.
Un altro progetto contestato è il GAP (Guneydogu Anadolu Projesi) che prevede la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche sul Tigri e l’Eufrate (in Turchia). Il progetto è contestato in particolare da Iraq e Siria, che diventerebbero dipendenti dalla Turchia per l’approvvigionamento idrico dei loro territori.»

Insomma, non occorre essere seguaci dell’ipotesi Gaia e ritenere che la Terra intera si comporti come un grande organismo vivente, né scomodare le melense teorie New Age sugli spiriti protettori della natura, per rendersi conto che la politica della costruzione di grandi dighe, dagli Stati Uniti all’Africa, dal Brasile alla Cina, è, non solo nella sua realizzazione, ma nella sua stessa filosofia, quanto di più antiecologico e devastante si possa immaginare.
È la filosofia che considera i corsi d’acqua come semplici fattori economici, dei quali l’uomo può disporre a piacimento, e l’acqua stessa come una risorsa e uno strumento per produrre elettricità e non come un bene prezioso in se stesso, oltre che un ambiente vitale per innumerevoli specie animali e vegetali; un elemento che contribuisce alla stabilità del territorio e al mantenimento delle condizioni locali, a cominciare dal clima, in equilibrio con i viventi e con l’uomo stesso, ospite e non padrone del pianeta in cui vive.
Perché la radice del problema è proprio qui: nella pretesa dell’uomo di ritenersi il padrone del mondo e il signore della natura; nella riduzione di ogni aspetto della realtà al puro e semplice elemento del profitto economico; nel rifiuto di accostarsi al mondo della natura, di cui l’uomo è parte, con umiltà e rispetto, come si dovrebbe fare con la propria madre.
Tutti i mali della devastazione ambientale, di cui la costruzione delle grandi dighe è solo un aspetto, nascono da tale filosofia arrogante e prevaricatrice; una filosofia che la civiltà occidentale recava in sé fin dalle origini, ma che lo scientismo,  il capitalismo e il marxismo hanno portato al massimo sviluppo e che hanno poi esteso al mondo intero, diffondendola in ogni angolo del pianeta, con le buone o con le cattive.
Se vogliamo uscire da questo vicolo cieco, dobbiamo farci carico della necessità di una profonda rivoluzione culturale, che non si limiti ad auspicare una operazione di facciata, per esempio indicando la meta illusoria di uno «sviluppo sostenibile», capace di conciliare sia le ragioni del Progresso che quelle dell’autoconservazione dell’uomo.
No, il salto culturale che ci si chiede di compiere è molto più grande: si tratta di assumere un punto di vista non più esclusivamente antropocentrico, ma ecocentrico; tale, cioè, da considerare il mondo come un sistema avente il centro in ogni punto e la circonferenza in nessun luogo e da tener presenti, quindi, le ragioni di ogni singola specie vivente, anzi, di ogni singolo vivente, nella prospettiva di una loro armoniosa interazione.
L’uomo è una specie fra le tante; e, se la ragione - di cui va tanto fiero, ma non sempre a buon diritto - lo mette in una posizione speciale e privilegiata, essa dovrebbe suscitare in lui il senso della propria responsabilità verso gli altri viventi: come se fosse un buon giardiniere che si prende cura del suo giardino, e non come un avventuriero che arraffa tutto quello che può e poi si allontana, per continuare a saccheggiare altrove.
Ma è chiaro che l’uomo non potrà fare una simile rivoluzione culturale, fino a quando non sarà capace di rientrare in se stesso e di guardarsi dentro onestamente, riscoprendo le proprie reali esigenze e lasciandosi dietro le spalle i falsi bisogni indotti in lui dalle sirene di un consumismo tanto stupido quanto irresponsabile.