Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il Monte Olympus, sul pianeta Marte: una impressionante meraviglia della natura

Il Monte Olympus, sul pianeta Marte: una impressionante meraviglia della natura

di Francesco Lamendola - 25/05/2010

 

Qualcuno riesce ad immaginarsi tre monti Everest, l’uno poggiato sull’altro, a formare una montagna immensa, quale riesce difficile perfino immaginare?
Eppure una simile meraviglia della natura esiste e si trova nel nostro sistema solare: sul pianeta Marte, che è assai più piccolo della Terra (diametro equatoriale di 6.787 km., contro 12.756) ma che possiede dei sistemi montuosi e delle valli incise nella roccia, al confronto delle quali le maggiori strutture orografiche terrestri appaiono quelle di un mondo lillipuziano.
Sia detto fra parentesi, il confronto non andrebbe fatto con l’Everest (vero nome: Qomolangma, che, in tibetano, significa: «la madre dell’universo»), che, con i suoi 8.850 metri, è la montagna più alta della Terra A PARTITRE DAL LIVELLO DEL MARE; ma, semmai, con il Monte Mauna Loa, nell’isola Hawaii (in lingua polinesiana: «montagna lunga»), che, oltre a presentare la stessa struttura geologica dell’Olympus, è, a tutti gli effetti, la vera montagna più alta del nostro pianeta, dato che la sua altezza al livello del mare è di “soli” 4.169 metri (36 metri meno del suo gemello, il Mauna Kea), ma esso poggia la sua base a circa 5.000 metri di profondità sul fondo dell’Oceano Pacifico, per cui la sua altezza totale supera abbondantemente i 9.000 metri.
Il Monte Olympus è un tipico vulcano “a scudo”, la cui cima è formata da una caratteristica caldera, dovuta allo sprofondamento del cratere principale, entro la quale sono ben visibili alcuni crateri minori; spesso degli estesi banchi di nubi si addensano sotto la cima, per cui la vetta dell’immensa montagna si presenta al telescopio come se emergesse direttamente dal nulla ed offre un colpo d’occhio così impressionante, da non trovare eguali in alcun altro corpo celeste del nostro sistema solare.
Precisiamo, per il lettore non esperto in geologia, che la caldera è una sorta di bacino circondato da un argine, chiamato vallo, nata dallo sprofondamento parziale di un edificio vulcanico e che si forma nel modo seguente. Lo svuotamento parziale di un focolaio magmatico  che segue ad una eruzione provoca una riduzione della pressione della massa magmatica, mentre aumenta il peso dell’edificio vulcanico, con l’accumulo di altre colate laviche alla sua superficie. Quando l’equilibrio fra la pressione magmatica e il peso delle lave consolidate è compromesso, si ha un improvviso collasso e la formazione di una depressione ((Biancotti e Binelli). Le caldere possono poi riempirsi d’acqua e trasformarsi in laghi. In Italia centrale ne esistono alcuni esempi notevoli, come i laghi di Bolsena, di Vico, di Albano, di Bracciano e di Nemi. Anche il cono vulcanico attivo del Vesuvio sorge all’interno di una piccola caldera, chiamata Atrio del cavallo; nel complesso dell’Etna, una caldera è anche la cosiddetta Valle del Bove.
Quando il grande astronomo italiano Giovanni Schiaparelli osservò il grandioso monte marziano, per la prima volta, durante l’opposizione del 1877, fu colpito da un bagliore che gi ricordava quello di un campo di neve e gli dette il nome di “Nix Olympica”, ossia “Neve dell’Olimpo”; in effetti si trattava, quasi certamente, non di neve ma di anidride carbonica ghiacciata.
Si tratta di un vulcano immenso: alto circa 27 km. rispetto alla base (e 25 km. rispetto all’altitudine media del «Pianeta Rosso», dato che si trova all’interno di una depressione profonda circa 2 km.) e con una circonferenza di 500 km., costituisce una struttura rispetto alla quale i pur immensi vulcani a scudo dell’arcipelago delle Hawaii (cinque dei quali formano l’isola principale, dal nome omonimo) sembrano giocattoli per bambini; qualcosa che, forse, nemmeno la sconfinata fantasia di un poeta come Dante sarebbe riuscito ad immaginare.
La caldera vulcanica raggiunge una lunghezza di 85 km., una distanza maggiore di quella che separa Udine da Trieste; la larghezza è di 60 km. e la profondità di oltre 3 km., con tre crateri sovrapposti. Il bordo esterno è delimitato da un precipizio ripidissimo che raggiunge, in certi punti, l’altezza di 6 km., a formare un paesaggio veramente unico per la sua grandiosità. La superficie totale del complesso montuoso è pari a circa 300.000 kmq., vale a dire pressoché uguale alla superficie dell’Italia.
È stato osservato che un astronauta che si trovasse sulla cima del Monte Olympus non si renderebbe nemmeno conto di esservi, perché le dimensioni smisurate del vulcano gli impedirebbero di distinguerne il bordo dall’orizzonte marziano. In compenso, la pressione atmosferica è ridotta appena al 2% di quella sottostante (mentre, sull’Everest, essa è il 25% di quella che si registra in riva al mare), perché la cima dell’Olympus giunge quasi al limite superiore dell’atmosfera marziana.
Si tratta di una montagna piuttosto giovane: non più di 200 milioni di anni; il che, geologicamente parlando, indica un tempo abbastanza recente. Insieme ad altri tre edifici vulcanici, fa parte della regione vulcanica denominata Tharsis. Per fare un confronto, le nostre Alpi si sono formate nel corso dell’orogenesi alpino-himalaiana, che è tuttora in corso e che ebbe inizio nel Cenozoico, vale a dire circa 65 milioni di anni fa.
Così descrive il Monte Olympus lo scienziato francese Albert Ducrocq in un testo ormai vecchio di oltre trent’anni, scritto sull’onda delle esplorazioni marziane eseguite per mezzo delle sonde interplanetarie Mariner 9, nel 1971, e Viking I e Viking II, nel 1976, che ha conservato tuttavia buona parte del suo valore, nonostante le nuove acquisizioni («A la recherche d’une vie sur Mars, Paris, Flammarion, 1976; traduzione italiana di Emanuele Giordana, «Marte pianeta rosso», Milano, Sugarco, 1976, pp. 45-50):

«… Sul nostro pianeta, i più grandi vulcani- Mauna Loa e Mauna Kea nelle Hawaii – hanno una altezza di soli 9.000 metri, di cui 5.000 immersi, cosa che li innalza di soli 4.000 metri sopra il livello del mare; il Cerro Aconcagua (Argentina) ed il Pitone delle Nevi (La Réunion), considerati i vulcani più alti, non arrivano a 7.000 metri…
È evidente che, nonostante la somiglianza dei fenomeni vulcanici marziani con quelli terrestri i vulcani presentano grosse differenze. Sulla terra vi sono 840 vulcani attivi: sono così chiamati quando l’uomo è stato testimone delle loro eruzioni, oppure, semplicemente,  quando se ne parla in una leggenda. Di inattivi se ne conta un numero ancora maggiore  (le fotografie delle Ande prese dallo spazio ne rivelano centinaia). Possiamo quindi dire che i vulcani terrestri sono numerosi, ma di scarse dimensioni, paragonati a quelli marziani, che peraltro sono in numeri di gran lunga inferiore,.
È possibile farsi una idea della massa di materiale eruttato dai vulcani marziani?
Per rispondere a questa domanda gli scienziati si sono dedicati  con attenzione ad uno studio sistematico dell’imponente Mons Olympus.
Esso ha lasciato tracce ben visibili. Sui fianchi presenta una struttura radiale dovuta alle strette scanalature  nelle quali è colata la lava, con la conseguente costituzione  di un campo vulcanico molto simile a quello terrestre; queste scanalature sono a volte segnate da interruzioni  provocate da movimenti del terreno  tra una colata e l’altra.
Con gli specialisti americani, un vulcanologo inglese  dell’Università di Lancaster, G. Hulme, si prefigge di ricostruire con estrema precisione  l’attività del Mons Olympus prendendo come riferimento i vulcani hawaiani: i campi di lava del Kilauea hanno consentito  di stendere una relazione che tenga conto dei tempi di raffreddamento  di un flusso di lava e dello spessore dello strato solido che si forma sulla sua superficie. Non è facile farsene un’idea tramite le fotografie del Mariner 9. Anche se il confronto di numerosi documenti permette una ricostruzione stereoscopica, questa non arriva a fornirci che un solo ordine di grandezza: dal 4% all’8%. A conti fatti avremo uno spessore della lava che sarà di 23 metri  nel promo caso e di 51 nel secondo., con tempi di colata rispettivamente di 2 e 5 mesi. Lo scarto non è indifferente. Si tratterrà, in ogni caso, di una differenza di circa 400 metri cubi al secondo.  Quanto al volume delle colate, lo si stima fra i due e cinque chilometri cubi
Si tratta di grosse differenze rispetto ai fenomeni vulcanici odierni del nostro pianeta: 0,12 km. cubi quello rilevato  nel 1960 sul Kilauea, 1,8 km. cubi quello registrato dopo l’eruzione del Bezymianny, nel 1956, a Kamtchatcka. Nella scala temporale della storia tutto è in movimento e tutto cambia.
Il secolo scorso vide due vere e proprie “esplosioni” vulcaniche.  Una ebbe per protagonista il Krakatoa che, il 27 agosto 1883, eruttò parecchie dozzine di chilometri cubi di lava, l’altra il Tambora: questo vulcano indonesiano  situato tra Bali e Giava dovette liberare, il 5 e il 7 aprile 1814, più di 150 km cubi di lava, creando una nuvola di polvere che si mise in orbita attorno alla Terra e che colorò di rosa l’atmosfera in Francia per ben due volte.
Più lontano nel tempo, ricorderemo il caso di Santorino, nel mar Egeo, di cui oggi non resta che un monticello alto 130 metri: la sua eruzione, 1.400 anni circa a. C. fu senz’altro di rara violenza dal momento chele sue ceneri sono state ritrovate persino a Gibilterra. Queste oscurarono l’Egitto durante il regno di Amenhotep III per nove giorni e tal punto che la gente non riusciva più a riconoscersi. L’eruzione ebbe anche conseguenze storiche: cacciò da Creta i Filistei che si installarono in Grecia. Così sarebbe nata la civiltà d’Agamennone.
Per quel che riguarda i tempio geologici, questi fenomeni hanno assunto certamente dimensioni ancor più impressionanti.
Al giorno d’oggi l’uomo assiste a fenomeni vulcanici che lo spaventano, e gli appaiono come una minaccia permanente: sul nostro pianeta, con il Niragongo, lo Stromboli o l’Erta Ale negli Afars, assistiamo allo spettacolo di vulcani in continua attività. Questo è ancora poco. Al contrario si deve sapere che il nostro pianeta sta attraversando un periodo di calma relativa e che in certe poche passate il vulcanismo deve essersi manifestato cuna intensità incomparabile rispetto a quello a cui noi assistiamo o che possiamo immaginare.  Questa convinzione ce la suggeriscono gli immensi campi di lava, sparsi qua e là nei nostri continenti,  ai quali l’erosione ha dato forma di scale e la cui  estensione raggiunge normalmente il mezzo milione di chilometri quadrati . Chiamati “trapps”, questi enormi campi di lava  li troviamo nell’India peninsulare (dietro Bombay), in Siberia, in Brasile, in Etiopia. Gli americani hanno potuto stabilire che tre milioni d’anni fa,  una eruzione ricoprì di lava vasti settori della California, dell’Oregon e del Nevada.
Le lave marziane sono dunque in quantità inferire rispetto  alle terrestri. Scopriremo inoltre che sono di natura differente.
La lava non è altro che roccia diffusa che, per la pressione esistente all’interno di un pianeta, sale in superficie e il cui studio  è fondamentale per comprendere la composizione interna  del pianeta stesso. In generale, la lava terrestre  è dio formazione basaltica, si tratta cioè di una roccia eruttiva  nera chiamata basalto costituita da grandi cristalli  (feldapath [feldspato?] e olivina) con una proporzione di silicio che supera raramente il 46%, mentre il resto è formato da composti d’alluminio  di potassio, di calcio, di ferro e di magnesio.  i geologi hanno constatato che, praticamente, tutti i basalti terrestri hanno la medesima composizione sensibilmente differente da quella della crosta terrestre,  essendo quest’ultima non basaltica ma silicica: essa contiene circa il 60% di silicio al di sotto dei continenti  e una quantità che si avvicina al 49% al di sotto degli oceani.
La somiglianza dell’aspetto dei campi di lava marziani  e terrestri, aveva dato all’inizio  credito alla tesi che la lava marziana fosse essenzialmente basaltica, come la nostra.  Questo è il criterio che il fisico Shaw adotta per i suoi primi studi sul Mons Olympus nel 1968. E, nel 1972, dopo un esame preliminare delle fotografie raccolte dal Mariner 9, Greeley si trova pienamente d’accordo con questa teoria. Presto però nasce un dubbio. Evidentemente non è possibile misurare a distanza la densità della lava sui fianchi di un vulcano marziano.  Differenti considerazioni portano quindi a correggere in qualche maniera questa tesi; la lava del Mons Olympus è nettamente più silicica di quella delle Hawaii. A partire dai diversi dati proposti per il vulcano, vengono fuori delle nuove percentuali. La proporzione  di silicio, dichiara Hulme, arriverebbe al 50,5% con una pendenza del 4% e sarebbe del 56% con una pendenza del dell’8%. La lava del Mons Olympus  sarebbe dunque più silicica che basaltica. La sua composizione, notano gli specialisti non senza stupore, sarebbe quella della crosta terrestre.
Il fenomeno vulcanico marziano apparirà dunque “normale” a tutti gli effetti. Il minor volume  della lava su marte si spiega molto semplicemente con le minori dimensioni del pianeta: la superficie di Marte è 3,53 volte più piccola della Terra ma, l’abbiamo visto,  la massa del pianeta è 9,30 volte più piccola, cosa che si traduce con un rapporto massa-superficie 2,6 volte minore.
Si suppone inoltre che l’interno di Marte sia meno caldo di quello terrestre. Si pensa di conseguenza che la crosta marziana sia più spessa, considerando la difficoltà del magma a perforarla. Quest’ultimo sarebbe dunque scaturito in pochissimi punti,  ma con risultati molto interessanti…
Fatto sorprendente non è l’esistenza o l’aspetto del vulcanismo marziano,  ma piuttosto un elemento esterno al fenomeno stesso, l’incredibile conservazione dei vulcani: questo sono rimasti, su Marte, quasi intatti per centinaia di milioni d’anni con soltanto una maggiore o minore abbondanza di crateri sui loro fianchi. Questa continuità del rilievo marziano è veramente straordinaria. Ci fa notare il segno forse più distintivo tra la Terra e Marte.
Si riterrà in effetti che a differenza di Marte la terra è un mondo che ha un lungo passato di movimenti e che continua a cambiare in modo considerevole. Non saremmo in grado di riconoscere nulla su una carta della Terra di 200 milioni d’anni fa: a quel tempo, l’America non aveva ancora iniziato ad allontanarsi dal’Europa.  L’antica Teti divenne il Mediterraneo in un’epoca che conta forse solamente 20 milioni d’anni, dal momento che la separazione dell’Arabia e dell’Africa avvenne senza dubbio in un’epoca molto più recente. Praticamente, sulla Terra, tutto sparisce in qualche decina di milioni d’anni. E nel medesimo tempo tutto rinasce.
Marte, al contrario, assomiglia alla Luna. Offre lo spettacolo di un mondo nel quale possiamo trovare ancora formazioni antiche praticamente tanto quanto il pianeta stesso.
Per la scienza, si tratta di un vantaggio evidente; questo fatto ci offre la possibilità  di studiare, tramite i grandi vulcani marziani,  un fenomeno che sulla terra non ha lasciato che poche tracce  mentre sul suo vicino tutte queste cose esistano ancora.
Da parte sua, il filosofo mediterà sulla fugacità della vita terrestre: sul nostro pianeta tutto è in movimento, cosa che il tempo sembra risparmiare  agli altri mondi…»

Questa era l’impressione di uno studioso negli anni Settanta del secolo scorso.
Ancora oggi, in effetti, si sente dire e ripetere che sul pianeta Marte non vi sono segni di una recente attività di tettonica a zolle, anche se essa può esservi stata nella storia passata di quel pianeta; e che non vi sono indizi di importanti movimenti orizzontali alla sua superficie.
Recentemente, però, l’opinione di molti scienziati si è modificata, specialmente davanti a quel grande enigma geologico che è costituita dalle Valles Marineris. Si tratta di un’altra struttura dai caratteri colossali, lunga circa 4.000 km. e formata da canyon giganteschi: la più imponente conosciuta all’interno del sistema solare.
Fino agli anni Settanta del secolo scorso si era propensi a spiegarne l’origine in termini di vulcanismo ed erosione; solo dal 1989, con Tanaka e Golombek, si è passati a ritenere che l’origine delle Valles Marineris sia analoga alla Valle del Rift sul nostro pianeta; vale a dire di natura tettonica.
A questo punto, anche l’immagine di Marte come di un pianeta morto ed immobile, simile alla nostra Luna, deve essere modificata. Marte non è certamente un pianeta vivo e in movimento come la Terra, però non è neppure quel fossile pietrificato che si riteneva sino a qualche decennio fa; e questo anche senza scomodare l’ormai famosa “sfinge” scolpita sulla roccia o, addirittura, le civiltà marziane che, secondo autori come Gianni Viola, sarebbero tuttora vive e vegete.
E la prima domanda che sorge spontanea alla mente è, ovviamente, se il Monte Olympus sia un vulcano definitivamente spento, o se non possa albergare ancora una qualche forma di vitalità interna.
Una sola cosa possiamo dire a questo proposito: e cioè che la sonda Mars Express, nel 2004, ha rilevato come alcuni depositi di lava presenti sui fianchi della montagna siano antichi di “appena” due milioni di anni. Un’età talmente recente, in termini geologici, da suggerire che, forse, l’attività vulcanica non si è del tutto spenta, nemmeno ai nostri giorni.
Certo che un “mostro” come il Monte Olympus, nella sua smisurata grandezza, è suscettibile di rendere pensose anche le persone meno propense alla riflessione filosofica.
C’è da sentirsi veramente piccoli, al suo cospetto; come ci si sente inevitabilmente piccoli davanti a qualcosa che si stenta perfino ad immaginare, non che a vedere con i propri occhi - e sia pure attraverso la lente di un potente telescopio.