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Usa, l’intelligence dei veleni

di Michele Paris - 25/05/2010



 


Dopo mesi di conflitti e incomprensioni con la Casa Bianca e i vertici della CIA, il Direttore dell’Intelligence Nazionale americana (DNI), l’ammiraglio in pensione Dennis C. Blair, qualche giorno fa ha annunciato le proprie dimissioni. La rimozione di Blair, chiesta espressamente da Barack Obama, rivela chiaramente le tensioni più o meno latenti che attraversano le varie agenzie spionistiche statunitensi e suggella allo stesso tempo il fallimento del progetto di riforma dell’intelligence propagandata dallo stesso presidente all’indomani del suo trionfo elettorale.

L’Ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale era stato istituito nel 2004, su raccomandazione della commissione d’inchiesta sull’11 settembre. Dal momento che, secondo la versione ufficiale, l’attentato terroristico alle Torri Gemelle era dovuto principalmente all’incapacità delle agenzie di intelligence di mettere assieme le informazioni esistenti che lasciavano prevedere una seria minaccia terroristica sul suolo americano, la nuova posizione intendeva stabilire un centro di coordinamento posto alle dirette dipendenze del presidente.

Fin dall’inizio, tuttavia, la Direzione dell’Intelligence Nazionale è risultata essere una carica dai poteri più teorici che reali. Con il compito di supervisionare l’attività delle sedici agenzie d’intelligence d’oltreoceano, il DNI non possiede in realtà strumenti di controllo sul loro budget, né dispone di fondi significativi o di uno staff degno di tale nome. In una tale situazione, Blair, come i suoi due predecessori nominati da George W. Bush (John D. Negroponte e John M. McConnell), ha finito ben presto per vedere frustrati i suoi sforzi, soccombendo in sostanza allo strapotere della CIA e agli influenti agganci politici del suo direttore, l’ex capo di gabinetto di Bill Clinton, Leon E. Panetta.

Queste lotte di potere si sono manifestate pubblicamente in una serie di critiche indirizzate al Direttore dell’Intelligence. Le accuse nei suoi confronti sono state sollevate in seguito ai falliti attentati terroristici degli ultimi mesi: la recente mancata esplosione dell’auto-bomba piazzata a Times Square e, soprattutto, il tentativo di uno studente nigeriano di fare esplodere in volo un aereo partito il giorno di Natale da Amsterdam e diretto a Detroit. Quest’ultimo episodio aveva portato ad un’indagine da parte di una commissione del Senato, la quale proprio qualche giorno fa ha messo in evidenza le carenze del DNI nel coordinare le informazioni sull’attentatore, segnalato addirittura dal padre all’intelligence americana per i suoi contatti con membri appartenenti ad Al-Qaeda in Yemen.

Intorno alla vicenda, in realtà, persistono molte zone d’ombra e il ruolo dello stesso Blair appare poco chiaro. Le presunte “sviste” dell’intelligence americana relativamente ad un individuo le cui attività sembravano essere ben note negli USA, lasciano infatti parecchi dubbi sul fallito attentato. Tanto da far supporre ad alcuni che i fatti del giorno di Natale siano in qualche modo legati ai conflitti interni che coinvolgono gli apparati della sicurezza e la stessa amministrazione Obama.

Già pochi mesi dopo la sua nomina, peraltro, l’ammiraglio Blair era stato protagonista di uno scontro durissimo con il numero della CIA. Nel tentativo di esercitare la propria autorità, per la prima volta Blair aveva rivendicato la facoltà di nominare i direttori dell’intelligence all’estero presso le ambasciate americane. Ciò aveva scatenato la reazione del direttore della CIA, Panetta, il quale aveva risposto chiedendo ai suoi sottoposti di ignorare l’ordine di colui che avrebbe dovuto rappresentare il suo diretto superiore. Blair, a sua volta, aveva accusato Panetta d’insubordinazione, rimettendo la questione al giudizio della Casa Bianca che si sarebbe successivamente espressa a favore della CIA.

La presa di posizione dell’amministrazione Obama aveva, di fatto, stroncato le velleità di Blair di modificare lo status quo nelle relazioni ai vertici dell’intelligence americana e di porre fine alle pratiche più discutibili che avevano segnato la lotta al terrorismo negli anni precedenti. I buoni propositi dell’allora neo-presidente, d’altra parte, erano già stati frustrati prematuramente lo scorso anno. Quando il Dipartimento di Giustizia decise di rendere pubblici i documenti prodotti dalla precedente amministrazione, che fornivano una sorta di giustificazione legale alla tortura e alla carcerazione preventiva, prospettando possibili epurazioni all’interno delle agenzie d’intelligence, si scatenò una vera e propria ribellione silenziosa. Per rimediare, Obama tenne allora un discorso presso il quartier generale della CIA a Langley, in Virginia, assicurando che non ci sarebbero stati provvedimenti punitivi e che le vecchie consuetudini, tranne qualche eccesso, sarebbero proseguite.

Se anche le sue dimissioni rappresentano un successo e un rafforzamento della CIA, così come dei vertici militari, ben poco in realtà lasciava presagire che Blair avesse avuto effettivamente l’intenzione di frenare le pratiche criminali adottate dall’intelligence statunitense nella quasi decennale “guerra al terrore”. Dalle sue prese di posizione ufficiali emerge piuttosto una sostanziale sintonia con i sistemi implementati dall’amministrazione Bush.

Nell’aprile del 2009, ad esempio, in un comunicato interno Blair espresse soddisfazione per le informazioni carpite ai presunti terroristi interrogati utilizzando metodi di tortura. Più recentemente, nel corso di una testimonianza alla camera dei Rappresentanti, affermò invece la legittimità della decisione di assassinare cittadini americani implicati in “azioni che minacciano gli interessi” del loro stesso paese, sia pure dietro autorizzazione della Casa Bianca.

Chiunque sarà il successore di Dennis C. Blair alla direzione dell’Intelligence Nazionale si troverà così di fronte ad un compito gravoso, con una comunità d’intelligence ancora più potente e sempre meno disposta ad accettare limitazioni al proprio operato da parte di “outsider” di nomina politica. Con la conseguenza di rendere pressoché inutile una carica che era stata creata precisamente per coordinarne le attività e che poteva fornire finalmente un’occasione per ridurne gli eccessi.