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Penoso ritorno al passato

di Gianfranco La Grassa - 26/05/2010



Siamo sempre più in vista di un pieno ritorno al passato. In politica continuano, estenuanti, i tentativi chiaramente inutili di mediazione tra il premier e Fini, tra lo stesso premier e Casini (con Rutelli in alleanza con quest’ultimo che segue “benignamente” il pourparler in atto). Nel contempo, la Lega è diffidente, a causa della sua ossessione federalista, e dunque traccheggia con l’Idv pur fingendosi la migliore alleata di Berlusconi. Dopo Fini (già invitato negli Usa e indicato più volte come referente di tale paese in Italia), le manovre di accerchiamento e logoramento della leadership berlusconiana proseguono con l’invito di Napolitano, oggi negli Usa.
Le dichiarazioni del presdelarep al suo arrivo sono di prammatica ma comunque significative: “Gli Stati Uniti rimangono sempre il nostro più grande alleato, il paese che ha guidato per decenni l’alleanza militare del Patto Atlantico…..” (fonte Ansa). In questa dichiarazione, che taluno può ritenere di carattere solo ufficiale, si rivela invece la verità dei rapporti con gli Usa. Si fa esplicito riferimento all’alleanza militare, la cui funzione sembrava esaurita dopo la dissoluzione dell’Urss e del “socialismo reale”. Invece, poiché era più propriamente diretta all’asservimento dei paesi del cosiddetto campo capitalistico ai disegni egemonici statunitensi, essa fu mantenuta pure dopo il 1989-91; e andò anzi incorporando progressivamente altri paesi dell’Europa orientale. Quando la situazione è mutata e ci si è avviati ad una nuova competizione multipolare, la Nato è diventata utile agli Usa per subordinare la UE al loro tentativo di ritardare il declino della propria posizione imperiale.
Al di là della frase di Napolitano, cui attribuire importanza relativa, è del tutto evidente qual è il progetto cui mira l’asse “centrista” con il pieno appoggio della sedicente sinistra; guidata non a caso da coloro che da Berlinguer in poi cambiarono di campo e fecero il salto definitivo verso gli Usa dopo il “crollo del muro”. Si tratta di completare l’opera iniziata nel 1992-93 con l’annientamento della Dc e del Psi tramite “mani pulite”. Il tentativo si inceppò per il bruscolino Berlusconi, che vi si oppose per interessi suoi (e di alcuni settori di nuova imprenditoria) senza una vera strategia. Egli ha creato problemi agli Usa soprattutto per la sua “amicizia” con Putin, difendendo gli interessi energetici italiani con gli accordi Eni-Gazprom ed effettuando alcune altre aperture verso est. Arrivati a questo punto, gli Usa hanno puntato con sempre maggiore decisione sul nuovo asse politico per completare l’opera rimasta a metà nel 1992-93. Oggi, come ieri, essi godono dell’aiuto servile della nostra Confindustria e della finanza guidata da uomini di fiducia dei “padrini” d’oltreatlantico.
D’altra parte, è altrettanto chiaro che non sussiste un’effettiva strategia alternativa di difesa della nostra indipendenza, almeno in alcuni settori vitali. Non a caso, il presdelarep invita l’opposizione a moderare i toni e, approfittando dei sacrifici necessari “per non fare la fine della Grecia” (ritornello ossessivamente ripetuto), sembra in vena di frequenti aperture di credito verso il Governo. Tutti fanno finta di non accorgersi che queste ultime si traducono, perfino con il “benevolente” appoggio della stampa di “destra” in fase di nuovo posizionamento attendendo il prossimo “dopo Berlusconi”, nell’innalzamento della figura di Tremonti, indispensabile per qualsiasi Governo di transizione, comunque lo si denomini: tecnico o di salvezza nazionale, ecc. Il superministro dell’economia, come già lo chiamano, assieme alla Lega è già pronto all’eventuale “salto della quaglia”. L’azione moderatrice di Napolitano, la disponibilità a trattative dei “centristi”, ecc. sono un’“acciughina” per il premier, al fine di fargli credere che, se accetterà di farsi da parte pacificamente, non riceverà una “buona uscita” più brusca di quella del modellino tiratogli in faccia.
Egli è comunque ancora utile per prestare appunto la sua faccia al fine di far passare la manovra “lacrime e sangue” che, si assicura, ci eviterà “la fine della Grecia”. Anche quando sapremo meglio di che cosa si tratta, non la commenteremo molto. Non in senso favorevole, ma nemmeno come già fanno gli economi(ci)sti del tipo “critico critico” appartenenti all’opposizione e al sindacato o quelli dei rimasugli demenziali dell’anticapitalismo ideologico e utopico. Alcuni tagli, del resto, saranno difficilmente contestabili salvo che da parte di autentici parassiti come quelli che difendono l’apparato pubblico pletorico e ultradannoso per il paese intero, come quelli che negano inutilmente la differenza enorme tra sud e nord per quanto riguarda lo spreco di risorse nella sanità (assai più inefficiente proprio dove i suoi costi sono massimamente elevati) e l’evasione fiscale, come quelli che si oppongono irragionevolmente ad un qualsiasi aumento dell’età pensionabile, di cui discutere modalità e concreta regolamentazione senza però opporsi al principio in sé.
Riteniamo corretto che le varie categorie produttive del paese – lavoratori salariati e “autonomi” – discutano, protestino, lottino, ecc. per portare a casa risultati positivi, o meno negativi, relativamente alla riduzione del loro tenore di vita o all’aumento delle complicazioni riguardanti lo svolgimento della loro attività. Per fare un esempio, su tutti i vari marchingegni che si vorranno escogitare per combattere l’evasione dell’IVA, siano gli interessati a giudicare se quelli che introdurrà Tremonti saranno più positivi e meno vessatori di quelli del “vampiro” Visco. Si dilettino i tecnici a fare sfoggio di competenza nel soppesare, criticare, ecc. le diverse misure che si prenderanno. Tutto questo fa parte di una normale attività decisionale di breve momento, malgrado alcuni credano si tratti di scelte “strutturali”; attività che tuttavia deve essere certamente svolta. Ed è logico che tutto ciò avvenga mediante contrattazione, a volte con forte contrasto, tra i vari gruppi sociali, ognuno dei quali difende i propri interessi.
A noi preme ben altra questione. Anche qui, facciamo un esempio. Si progetta (magari non sarà poi realizzata, ma l’esempio resta) la riduzione del 10% delle spese per la Difesa, fatte salve quelle per missioni all’estero in atto o già previste (perché Obama ha chiamato ad un aumento di impegno in Afghanistan e il nostro Governo ha risposto positivamente). Ebbene, questa scelta è proprio indicativa della nostra sudditanza: riduzione di spesa per ammodernamento e rafforzamento di un possibile strumento di maggiore autonomia, nessuna riduzione per seguire gli Usa (“il nostro migliore alleato e capo da decenni dell’Alleanza militare” di cui facciamo parte) nelle loro operazioni di aggressione egemonica.
Qui sta il vero problema. Per quasi due decenni l’operazione di completo allineamento dell’Italia alle posizioni statunitensi – e di totale distruzione dei settori industriali in grado di contribuire ad una nostra minima autonomia a favore di quelli, guidati dalla Fiat e dal metalmeccanico, sempre pronti alla più supina subordinazione – non è stata portata a pieno compimento, malgrado si sia riusciti nell’intento di privatizzare al gran completo il settore bancario e di renderlo, soprattutto dopo l’operazione di sostituzione di Fazio con Draghi, del tutto malleabile nei confronti dei piani Usa. Dopo il 2003 (incontro estivo in Sardegna tra Putin e Berlusconi), si sono avuti sprazzi di maggiore autonomia e di politica più attiva verso est (e verso sud, con l’apertura a Gheddafi, ecc.), sempre condotta con estrema prudenza e senza reale visione strategica di lunga lena. La debolezza maggiore è però rappresentata dal mancato controllo degli apparati addetti alla forza, che sono sempre rimasti di netta impronta “atlantica”; in simili condizioni, è effettivamente impossibile liberarci della tutela del “nostro migliore alleato” di sempre, cioè dei nostri “padroni” statunitensi.
Oggi si sta arrivando alla resa dei conti. La crisi – per quanto iniziata con maggior vigore negli Usa (come sempre, del resto, essa parte dal “centro” del sistema) e senz’altro ancora grave laggiù – serve tuttavia a ridurre in condizioni peggiori i paesi dell’area che si appiattisce sulla politica della potenza accettata come preminente. A questo punto, in tali paesi incapaci di autonomia si ricorre alla pura manovra economica, quella del rigore e dei tagli appunto, senza nessuna selezione a favore di un rilancio dei settori – non solo economici, ma soprattutto politico-strategici – che servano a contrastare la superiorità del paese “centrale” (accettato come tale). Le scelte economiche – dichiarate inderogabili per ragioni oggettive: l’obbligo dell’equilibrio nei conti, della competitività nei mercati, ecc. – coprono precisamente la strategia di connivenza dei gruppi subdominanti dei paesi in questione con i predominanti statunitensi.
Nulla può ancora essere dato per certo. E’ però assai probabile che ci si serva ancora per qualche tempo della copertura di Berlusconi per far accettare misure drastiche di politica economica, che ridurranno le condizioni di vita di vasti strati sociali senza porre affatto le basi di un’autentica ripresa. Intanto, si logorerà viepiù il premier facendogli credere di poter raggiungere un qualche accordo al ribasso. In tempi non troppo lunghi, i nodi della crisi verranno al pettine e allora s’imporrà il “governissimo”, null’altro che una scalcinata accolita di servitorelli sbiaditi e inetti della finanza “weimariana” e dell’industria di retroguardia, che rinsalderanno i rapporti di soggiogamento nei confronti del “nostro migliore alleato” dalla fine della seconda guerra mondiale; per i sedicenti “comunisti” dal progressivo spostamento di campo effettuato da Berlinguer seguito poi dal totale svaccamento di ogni principio e dignità nel 1989-91.
Proprio per questo, pur senza rinunciare a difendere il diritto dei meno abbienti ad opporsi al peggioramento delle condizioni di vita, comunque difficilmente evitabile nella situazione di crisi che non può essere risolta con i “miracoli”, è necessario condurre una serrata critica dell’economicismo messo in primo piano per nascondere il totale abbandono di ogni pur minima politica di rafforzamento dell’autonomia nazionale. Non sarà affatto un’operazione semplice; fra l’altro, non ci si scontrerà solo con le ideologie ufficiali e prevalenti nel campo dei subdominanti nostrani, ma anche con la falsa “critica critica” di anticapitalisti che si fingono tali per avere spazi elettorali e un piccolo seguito da portare in dotazione ai suddetti subdominanti al fine di ricevere qualche “denaro” (nemmeno i “trenta” di Giuda). Nelle situazioni di crisi, e in paesi marci come il nostro, in cui il ceto intellettuale è fra i più venduti e meschini del mondo, si troveranno alla fine dalla stessa parte anche i vari utopisti, quelli che predicano insulse filosofie della “liberazione”, dell’“emancipazione”, dell’eguaglianza e giustizia, e quant’altro.
Riprenderemo in continuazione questo discorso, perché è quello decisivo per quanto riguarda i nostri compiti principali.