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Capitalismo, contratti standard e contratti del consumatore

di Stefano D'Andrea - 31/05/2010


Anche se tendiamo a dimenticarlo, il nostro ordinamento conferisce alle imprese capitalistiche il potere di dettare unilateralmente il testo contrattuale. Trattiamo forse il contenuto delle clausole dei contratti bancari? O delle polizze assicurative? O dei contratti di utenza telefonica? O dei contratti di utenza relativi al gas e alla energia elettrica, o all’acqua? O il contenuto dei contratti di trasporto aereo, marittimo o ferroviario? O dei contratti di pedaggio autostradale? O dei contratti di leasing? di credito al consumo? O dei contratti di compravendita di un'autovettura?

La risposta è negativa. Al più trattiamo, talvolta, i prezzi, gli interessi e marginali condizioni (il termine di consegna di una autovettura, il tasso di interessi di un mutuo). Ma il testo contrattuale è completamente o quasi completamente sottratto al nostro potere negoziale.

L’art. 1341 del codice civile, sotto la rubrica, “condizioni generali di contratto”, prevede che “Le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell’altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza”. In quasi settanta anni di vigenza di questa norma, sembra che nessuna sentenza abbia mai accertato che le condizioni generali predisposte da uno dei contraenti non fossero conoscibili dall’altro: basta che siano depositate presso un notaio; o affisse in bacheca; o pubblicate su internet. Quindi la impresa che conclude, nell’esercizio della propria attività economica, contratti standard, dei quali redige il testo, impone il contenuto contrattuale al cliente. E si badi che talvolta impone un testo contrattuale. Talaltra impone regole che non figurano sul testo contrattuale (per esempio, quando si acquista, oralmente, il diritto ad un viaggio in aereo): le condizioni generali pubblicate sul sito internet o depositate presso il notaio si applicano anche se non sono conosciute, purché conoscibili (e lo sono intrinsecamente perché pubblicate).

Prendere o lasciare è la situazione in cui ci troviamo come cittadini.

Peraltro, nella medesima situazione si trovano anche le imprese, le piccole imprese e in certo senso anche le medie imprese e le grandi imprese (nei confronti di quelle più grandi e potenti). L’art. 1341 conferisce all'impresa capitalistica la possibilità di derogare unilateralmente e in proprio favore alla disciplina legale, imponendo il contenuto contrattuale alle controparti. Con regolarità universale, quando una norma giuridica attribuisce un potere, il soggetto che ne è titolare, tende ad avvalersene nella misura maggiore possibile. Soltanto il “cliente particolare”, avrà, talvolta, il potere di negoziare una o altra condizione. Sicché, tendenzialmente, le grandi imprese capitalistiche negoziano tra loro il contenuto dei contratti, mentre lo impongono ai clienti, ai fornitori, ai professionisti, agli agenti e ai concessionari di cui si avvalgono. Altre imprese, sono, di fatto, costrette ad aderire ai testi contrattuali imposti dalle imprese più grandi ma impongono il contenuto contrattuale ai clienti e ai fornitori di modeste dimensioni. Altre imprese ancora soggiacciono al potere normativo (di dettare unilateralmente il contenuto contrattuale) sia dei fornitori che dei clienti. Gli acquirenti finali di beni e servizi si trovano pressoché sempre in quest’ultima situazione.

Distinguiamo, perciò tra predisponenti e aderenti.

Qui non si discute il potere di predisporre (contratti standard) in sé stesso, bensì il potere di predisporre clausole che deroghino alla disciplina legale in favore del predisponente. Ossia il potere di imporre agli aderenti una disciplina deteriore e diversa da quella che si applicherebbe in mancanza della deroga. Il non giurista tenga presente che un contratto valido trova sempre una disciplina legale, che è posta dalla legge ed è derogabile dalle parti. Il problema è: si deve consentire di derogare alla disciplina legale dispositiva (derogabile appunto) soltanto alle parti che trattino (negozino) il contenuto delle clausole, o comunque quando nessuna delle due parti aderisca ad un testo standard predisposto dall’altra per la conclusione di una pluralità di contratti? O si deve consentire la deroga anche quando una parte predispone un testo standard al quale l’altra aderisce?

Il potere di predisporre unilateralmente condizioni generali di contratto trova fondamento nella necessità di velocizzare gli scambi, ridurre i costi, servirsi di commessi che non hanno il potere di rappresentanza e quindi il potere di negoziare per conto dell’impresa, e così via. Non intendiamo muovere una critica a queste ragioni, la quale sarebbe irragionevolmente antimoderna e implicherebbe la volontà di un ritorno alla società agricolo-industriale. E tuttavia altro è il potere di predisporre unilateralmente il testo contrattuale; altro il potere di derogare unilateralmente  e in proprio favore alla disciplina legale.

Il  problema politico dovrebbe essere il seguente: dobbiamo lasciare la possibilità di predisporre, mediante un atto unilaterale, condizioni generali che deroghino alla disciplina legale a favore del predisponente? O dobbiamo sancire che le deroghe predisposte unilateralmente alla disciplina legale sono valide soltanto se sono favorevoli all’aderente?

Questa ultima soluzione sembra opportuna. Essa non nuocerebbe a questa o quella impresa, perché tutte si troverebbero nella medesima situazione giuridica. Le imprese addirittura concorrerebbero offrendo agli aderenti discipline più favorevoli rispetto a quella legale e rispetto a quelle offerte dalle imprese concorrenti. Le esigenze di uniformità, con conseguente riduzione dei costi e possibilità di avvalersi di commessi senza potere rappresentativo, sarebbero realizzate.  Il potere di predisporre unilateralmente il contenuto del contratto tutela interessi generali. Il potere di derogare unilateralmente alla disciplina legale dispositiva tutela un diverso interesse: un autonomo e diverso interesse del predisponente.

Il legislatore del 1996 ha scelto un’altra strada.

Non ha tutelato tutti gli aderenti; bensì soltanto gli aderenti, che siano persone fisiche e che stipulino il contratto per ragioni estranee alla propria attività professionale. La tutela non è stata offerta a tutti gli aderenti. La tutela non è stata offerta né alle società, né alle associazioni senza scopo di lucro, né ai singoli che acquistino beni e servizi strumentali all’esercizio della propria attività professionale o di impresa. La tutela è stata offerta a tutte le persone fisiche, compresi l’amministratore delegato della grande multinazionale, il presidente della associazione non riconosciuta e coloro che nella vita svolgono una libera professione o un’impresa. Tutte le persone fisiche sono, dunque, consumatori quando acquistano beni e servizi per uso personale.

Le persone fisiche, nel compimento dell’atto di (acquisto per il) consumo, ossia nel loro essere consumatori in senso giuridico, non sono state tutelate stabilendo che le clausole predisposte dalla controparte e  che derogano alla disciplina legale siano sempre e comunque invalide. Quelle clausole sono invalide soltanto quando comportano un “significativo squilibrio” nei diritti e negli obblighi delle parti. Non dunque uno squilibrio, bensì un “significativo” squilibrio.

Inoltre, questa tutela che già abbiamo visto essere limitata sotto tre profili – i) riguarda soltanto le persone fisiche; ii) riguarda soltanto gli atti di (acquisto per il) consumo; iii) reprime soltanto le clausole che comportino un “significativo” squilibrio, non tutte quelle che derogano in senso sfavorevole al consumatroe – è limitata sotto un quarto profilo:  non si applica ad alcune clausole contenute  nei contratti che hanno ad oggetto “la prestazione di servizi finanziari”  (art 33 cod. cons., 3°, 4°, 5° e 6° co.)

La  nuova disciplina è del tutto irragionevole e non sembra avere una chiara ratio.La ragione della tutela non consiste nella mancata conoscenza delle caratteristiche tecniche del bene acquistato. Infatti, il titolare di un piccolo agriturismo, che sia del tutto digiuno di elettronica e informatica, non è tutelato se acquista un personal computer per ragioni professionali, mentre un ingegnere elettronico, che acquisti un personal computer per uso personale, è tutelato. La ragione della tutela non consiste nella tutela di chi non ha capacità di contrattare (di chi non conosce le tecniche del negoziare), perché la medesima persona fisica, che acquisti due beni, uno per uso personale e uno per uso professionale, nel primo caso è tutelata, nel secondo no. La ragione della tutela non risiede nella dignità della persona, come pure si è detto, per giustificare l’applicabilità della disciplina alla persona fisica e non alle associazioni non riconosciute (le quali altro non sono che una organizzazione di persone fisiche). Perché il contadino che vende i frutti di mesi di lavoro aderendo al contratto predisposto dal grossista non è tutelato (il contadino aderisce, ma non per acquistare beni di consumo); mentre quando quel medesimo contadino si reca in un negozio ad acquistare, per il figlio, l’ultimo modello della play station è tutelato. La ragione della tutela non risiede nella debolezza di una delle parti contrattuali, perché altrimenti sarebbero stati tutelati tutti gli aderenti, anche le imprese, i liberi professionisti e le associazioni non riconosciute, a prescindere dall’uso personale o professionale del bene o del servizio.

Concludendo. La disciplina della tutela del consumatore va nella giusta direzione. Ma oblitera il problema fondamentale, che è quello relativo al potere dei predisponenti di derogare alla disciplina legale in sfavore degli aderenti. Senza alcuna plausibile ragione, la disciplina introdotta nel 1996, limita la tutela all’atto di consumo – spostando appunto, l’attenzione dal fondamentale tema della tutela dell’aderente a quello della tutela del consumatore – alla persona fisica e alle clausole che comportino un “significativo” squilibrio. E infine contiene l’odioso privilegio per coloro che predispongono contratti di prestazione di servizi finanziari.

Richiamando le tre ipotesi formulate in un precedente articolo, nel quale ci eravamo domandati in che misura la composita e vasta disciplina di tutela del consumatore sia un indennizzo per la spoliazione di diritti verificatasi nell’ultimo quindicennio, in che misura sia valium e in che misura sia lubrificante,  diremmo che la disciplina dei contratti del consumatore è un indennizzo per la spoliazione. Effettivamente è tutela dei cittadini contro possibili soprusi. Tuttavia questa disciplina di tutela non avrebbe dovuto essere disciplina di tutela del “consumatore”, bensì di ogni soggetto giuridico aderente. È soltanto la rimozione del problema politico fondamentale o la volontà di non risolverlo in modo equo ad aver aperto la via alla figura dei contratti del consumatore.

La scelta del legislatore ha condotto a vedere nell’atto di (acquisto per finalità di) consumo un atto che meritasse un privilegio. Una tutela privilegiata. Mentre si tratta semplicemente dell’applicazione, parziale e limitata sotto i profili sopra segnalati, di un principio sacrosanto – alla legge si può derogare soltanto mediante trattative e negoziazione – che in linea generale continua ad essere negato.