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Ginsberg: scatti Beat

di Antonio Gnoli - 31/05/2010

       
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Allen Ginsberg, celebre poeta e intellettuale del movimento della Beat Generation, fu anche fotografo e immortalò molti dei protagonisti di quel movimento culturale.
Ginsberg sviluppò la passione per la fotografia sin da giovanissimo e con le sue fotografie divenne il promotore e il divulgatore del ruolo culturale della Beat Generation, che nacque negli Stati Uniti nel corso degli anni cinquanta. Le sue foto fecero il giro del mondo, raccontando l’essenza di un movimento composto da personaggi geniali, estrosi e fuori dagli schemi. Il talento di Ginsberg come fotografo ebbe un ruolo fondamentale nel successo dirompente della Beat Generation.

Fu il primo mucchio selvaggio che l’America del secondo dopoguerra conobbe. Nessuno tra San Francisco e New York somigliava ai suoi componenti: giovani con la trasgressione nel sangue, e la mente altrove. Vestivano dimessi o in fogge orientali. A volte erano nudi e promiscui. Alcuni geniali, altri solo a rimorchio. Si chiamò Beat Generation, e pochi allora immaginarono che quel movimento culturale sarebbe diventato un brand, capace di imporsi in tutto il mondo. Un marchio non si costruisce dal nulla. Ci vuole intelligenza, intuito, capacità di leggere nel futuro. In quella banda di geniali sconclusionati il solo ad avere queste caratteristiche fu Allen Ginsberg, il più adatto a raccontarne le gesta. Perché oltre a essere un buon poeta, un discreto scrittore, fu soprattutto un promotore infaticabile dell’immagine del gruppo. E se ancora oggi quel nome evoca qualcosa e suscita emozione lo si deve al lavoro di diffusione che Ginsberg promosse sui giornali, tra le case editrici, con la gente dei paesi in cui era invitato. Ginsberg amava particolarmente l’Italia, qui, più che altrove, il mito della Beat Generation aveva attecchito, grazie anche al lavoro prezioso di Fernanda Pivano. Che non fu solo la traduttrice dei suoi libri ma l’amica, la vestale, l’interprete di quelle voci che cominciarono a circolare nella metà degli anni cinquanta.
L’America era immersa in un torpore puritano, quando Ginsberg trovò le parole giuste per risvegliarla. Le pronunciò una sera alla Six Gallery di San Francisco. Era l’ottobre del 1955: «Ho visto le menti migliori della mia generazione, distrutte dalla follia, affamate, isteriche, nude che si trascinavano per strade di negri all’alba, in cerca di una dose rabbiosa...». Era nato Howl. Non so se qualcuno ha mai scattato e fissato quel pezzo di storia letteraria americana. In Beat Memories non ce ne è traccia. Però era raro che Ginsberg in quel periodo si separasse dalla sua macchina fotografica. Era il suo retro pensiero, la sua musica per immagini, il suo talento di fermare il tempo. Aveva quindici anni quando cominciò a fotografare. Scelse un soggetto difficile: la madre ricoverata in un ospedale psichiatrico. Si sentiva attratto dall’anormalità e da quei mondi distanti dal perbenismo americano. Le foto scavavano e portavano alla luce rabbia e tenerezza.
Fu Robert Frank - che l’America considerava uno dei padri della fotografia - a scoprire nella metà degli anni ottanta i negativi che Ginsberg aveva accatastato e dimenticato. Ne uscì qualcosa di clamoroso: così disse Berenice Abbott, altra grande fotografa. Frank, con ironia, si limitò a una battuta: «Sai Allen, devi stare attento a quello che fai, la fotografia è un’arte per gente pigra». […]
Anche per Ginsberg la droga fu per lungo tempo la sua musa e la poesia il mezzo per metterla in pagina. Ma cos’era un poeta? «Strana vita passata a bussare alla porta del significato delle parole, trascorsa a comporre suoni nella speranza che svelino qualcosa», così scrisse nell’introduzione a una sua raccolta di poesie. Non so se abbia mai bussato alle porte della parola, perché dopotutto ad Allen piaceva prendere a spallate la vita. Non c’era grazia, né timidezza in quei colpi. Ma disordine e felicità. Poi il buddismo cominciò a cambiarlo. Vi si avvicinò alla fine degli anni sessanta: la protesta contro tutte le forme di oppressione si rivestì di meditazione e di preghiere. L’idea che la nascita e la morte fossero eventi transitori poteva perfino tornare utile al suo lavoro di fotografo. Pensò che fermare un’immagine era anche un po’ catturarne l’ombra prima che si dissolvesse nel nulla.
Andai a trovare Allen Ginsberg a New York. Mi ricevette nel suo piccolo studio in Union Square. Mi mostrò alcune foto che avrebbero composto parte della mostra che stava allestendo per la Biennale di Venezia del 1996. Ginsberg aveva sessantanove anni, indossava un completo grigio e portava la cravatta. Era molto magro, i capelli radi e ordinati, una barba folta e curata. Sembrava appartenere a un’esistenza diversa, a una reincarnazione prossima ventura avvenuta nel corpo di un notaio, di un avvocato di strada, di un accademico universitario. Con delicatezza mi passava quelle foto in bianco e nero come fossero l’ultima testimonianza dei pochi sopravvissuti di un gruppo che era stato leggendario. Erano i volti e i corpi di Kerouac, di Cassady, di Corso, di Orlovsky, di Burroughs e dello stesso Ginsberg che venivano sotto i miei occhi. Sembravano reperti archeologici: preziosi e remoti. […]
Allen Ginsberg morì di cancro nel 1997. Le sue foto nel frattempo incontrarono il favore del pubblico. Piaceva quel tono all’apparenza così dimesso e quotidiano, così inconfondibilmente esistenziale dei suoi soggetti. Narravano un’epopea letteraria che fu unica nel suo genere, popolare come un fumetto, familiare per quelle generazioni che avevano sognato e cantato la libertà.