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Gaza. Il placet dell'Occidente alle aggressioni

di Alessandro Cisilin - 07/06/2010


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Chi è d'accordo col governo israeliano al 95 per cento è un pericoloso antisemita”. L'ironia, anzi l'autoironia dell'ebreo Henry Kissinger, celebrato Segretario di Stato americano, ben fotografava i principi negoziali adottati da Tel Aviv negli anni '70. E racconta ancor meglio l'odierno assedio a qualsiasi voce critica che si levi nei confronti di Israele, anche quando la critica è resa ineludibile da operazioni cruente quali l'assalto alla “Freedom Flotilla”.

 

E perfino larga parte del mondo intellettuale progressista sembra aver oramai chinato la testa, con ampie disquisizioni – quali un recente Dominique Vidal su «Le Monde Diplomatique» – circa il progressivo isolamento politico internazionale dello Stato ebraico.

La realtà documenta esattamente il contrario. A essere isolati (fino a rimetterci la vita, com’è emerso al largo delle coste palestinesi) sono oramai i pacifisti che strillano contro l’ingiustizia e la disumanità, mentre ai fatti l'esecutivo israeliano gode di una crescente complicità politica, dall'Europa e dagli Stati Uniti, con la sola eccezione, seppur non secondaria, delle veementi proteste levatesi stavolta dalla Turchia che, per storia se non per geografia, risulta solidamente ancorata nell’alveo politico e militare del cosiddetto Occidente.

Indubbiamente, qualche impercettibile alzata di sopracciglio e qualche tiepida voce critica è rimbalzata anche da oltreoceano da quando alla Casa Bianca si è insediato Barack Obama. Nei mesi scorsi il vice Joe Biden ha dichiarato che le crescenti ostilità tra Israele e i suoi vicini alimentano il sentimento globale anti-americano, a tutto vantaggio di Al Qa’ida e dell’Iran.

E il responsabile del Central Command statunitense per il Medioriente David Petraeus (ex trionfatore nella presunta “pacificazione” di Bagdad) si è spinto ad accusare la politica delle bombe e delle colonizzazioni del premier Netanyahu di fomentare indirettamente le uccisioni di militari americani in Iraq e Afganistan.

Nel concreto, tuttavia, nulla è cambiato, coi “negoziati indiretti” spinti da Washington a rappresentare un eccellente eufemismo della realtà che il governo israeliano non parla neppure con l’iper-compromissoria (e forse compromessa) Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen. Del resto, come notano anche editorialisti di testate tutt’altro che radicali o anti-israeliane (quali «Il Sole 24 Ore»), «Obama è ufficialmente favorevole al blocco di Gaza» che sta affamando quasi due milioni di palestinesi, e già durante la campagna presidenziale argomentava che la chiusura è necessaria per evitare il rifornimento delle pericolosissime molotov ai guerriglieri islamici.

In altre parole, il neopresidente degli Stati Uniti rimane come il suo predecessore più realista del re, ovvero su posizioni ben più vicine alla destra israeliana del Likud di quanto non lo siano gli stessi ebrei americani, due terzi dei quali, ai più recenti sondaggi, sono ad esempio contrari alle colonizzazioni in Cisgiordania. Obama vorrebbe senz’altro la pace, «perché i conflitti – ha detto recentemente - finiscono per costarci molto, in termini di sangue e di finanze», ma che l’obiettivo di un definitivo cessate il fuoco si persegua attraverso la perdurante repressione di un intero popolo gli si conferma un dettaglio secondario, come dimostra anche l’ultimo veto americano in Consiglio di sicurezza dell’Onu a una risoluzione di condanna del cruento assalto alla flotta umanitaria, nonché il no votato all’inchiesta internazionale varata dal Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite.

E se si passa dagli Stati Uniti all’Europa i toni cambiano, ma la sostanza politica rimane la stessa. Si aggrava, in altri termini, la distanza tra le parole – anche quelle messe su carta nei documenti ufficiali - e i fatti.

Lo sdegno è emerso evidente nelle cancellerie europee al seguito della strage di pacifisti, sulla scia di una sempre più severa critica manifestata negli ultimi anni, anche prima dell’operazione “Piombo Fuso”, che uccise due anni fa 1400 palestinesi a Gaza. In un rapporto dell’aprile 2008 sull’avanzamento delle intese politico-economiche con Israele, la Commissione Europea lamentava formalmente che: «Pochi progressi sono stati realizzati sulle questioni da noi sollevate, che comprendevano tra le altre: il processo di pace, la situazione in Medio Oriente, la situazione della minoranza araba in Israele, le restrizioni di movimento in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, la costruzione di barriere di separazione, le detenzioni amministrative, lo smantellamento degli avamposti, la progettata espansione di alcune colonie israeliane a Gerusalemme-est, più check point».

L’Europa protesta che Israele non faccia nulla per cambiare strada rispetto a politiche che un tempo si chiamavano apartheid.

E tuttavia, come a Tel Aviv sanno perfettamente, non fa nulla neanche l’Europa. Anzi, in questi anni di escalation repressiva Bruxelles ha incrementato gli accordi politico-economici con Israele. Nel ’95 Tel Aviv è divenuta partner ufficiale nell’ambito del “Partenariato Euro-Mediterraneo”, attraverso la Dichiarazione di Barcellona, che imponeva, a titolo di “clausole essenziali” (pena la rottura degli accordi), la risoluzione pacifica dei conflitti, il rispetto dei diritti umani e dell’integrità territoriale degli altri partner (inclusi Libano, Siria e Autorità Palestinese), nonché «di agire in conformità alla Carta delle Nazioni Unite e alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, così come agli altri obblighi del diritto internazionale, ed in particolare quelli dettati dagli organismi internazionali o regionali di cui fanno parte». Ora, tra occupazioni, colonizzazioni, invasioni militari, embarghi illeciti, costruzioni di impianti nucleari (gli unici in Medioriente) impedendone l’accesso agli ispettori dell’Aiea, l’annessione di Gerusalemme e del Golan, sono una trentina le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza Onu sistematicamente violate da Israele.

Ma, anziché rescindere quel partenariato - e magari introdurre qualche sanzione come si fa ad esempio con l’Iran - l’Europa lo ha arricchito di nuove intese commerciali (e militari), che consentono a Tel Aviv un interscambio duty-free col Vecchio continente pari oramai a oltre un terzo del suo import-export. L’ultimo di tali accordi è stato siglato nel 2008, alla vigilia di Piombo Fuso, sulla spinta, in particolare, della Francia di Sarkozy. La data, e l’attore istituzionale di riferimento, non sono casuali. Mostrano da un lato come l’asse politico europeo si sia decisamente spostato col cambio di rotta di Parigi, ovvero di uno dei due principali alleati storici dei palestinesi. Il secondo era l’Italia che, per compiacere alla Casa Bianca, è ora arrivata al punto da associarsi al no americano a un’indagine sull’attacco alla Flotilla, con tanto di sentenza emessa a tutta pagina dal «Giornale» del premier: «Hanno fatto bene a sparare». E mostrano dall’altro come la crescente ambiguità continentale sia complice delle aggressioni israeliane non solo verso i palestinesi, ma anche nei confronti di ogni forma di dissenso.

Gli esempi di tale causalità sono costanti e progressivi, e non risparmiano neppure gli esponenti politico-istituzionali.

L’11 giugno 2008, la poco allineata vice-console transalpina di Gerusalemme è stata trattenuta in un check-point per diciassette ore in condizioni degradanti. Sei mesi dopo un locale funzionario consolare si è visto derubare e saccheggiare la casa dai militari israeliani. Gli stessi soldati, altri sei mesi più tardi, hanno bloccato la direttrice del centro culturale francese di Nablus, tirandola fuori dall'auto con targa diplomatica, gettandola a terra e picchiandola.

Alla fine dell’anno scorso una delegazione bipartisan del Parlamento Europeo aveva ricevuto la formale autorizzazione a visitare la Striscia di Gaza. Ma a due ore dal previsto ingresso Tel Aviv ha sbattuto loro la porta, adducendo le consuete “ragioni di sicurezza”.

Israele mostra i muscoli, e lo fa anche verso l'Europa. Anzi, lo fa soprattutto verso l'Europa, stando anche al racconto di diversi attivisti della Flotilla, secondo i quali le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro molti passeggeri facendo però diplomatica attenzione a evitare gli arabi. L'attenzione verso gli europei invece non serve, perché i loro referenti politici lo autorizzano.

All'indomani del blocco israeliano alla missione europea a Gaza, il ministro Frattini è andato a stringere le mani ai vertici di Tel Aviv. E all'indomani del voto contrario dell'Italia a un'inchiesta dell'Onu, il sottosegretario Scotti ha spiegato in Parlamento che «bisogna fidarsi delle indagini israeliane». Sapendo già che sono state chiuse prima ancora di poter iniziare, con una sentenza della Corte Suprema che ha archiviato l'attacco armato alla Freedom Flotilla come “atto di autodifesa”.