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Guerra e pace secondo Il Sole 24 ore

di Fabrizio Fiorini - 07/06/2010


 

C’era un tempo, neanche troppo remoto, in cui anche i più saggi non sentivano come oggi la necessità di restaurare l’umano. I ritmi, i tempi, l’aspetto delle cose rispecchiavano quelli della natura, e quindi quelli dell’uomo. Si mangiava il cavolo in inverno, si rispondeva “grazie, preferisco di no” e si faceva il giro dell’automobile per chiuderne le portiere, senza avere l’impressione di aver fatto la Parigi-Roubaix.

In quei tempi, punto lontani, coloro che parlavano sempre e soltanto della stessa cosa, che discorrevano sempre e soltanto dello stesso argomento, che tiravano in ballo costantemente la stessa storia, lo stesso racconto, lo stesso aneddoto, la stessa donna, la stessa squadra di calcio, o ancora che vestivano sempre alla stessa maniera, o che non potevano distaccarsi da una data abitudine, erano chiamati semplicemente fissati. Poi Dio, non bastandogli l’esser morto, ha voluto occultare anche il cadavere, e oltre che moderno il mondo s’è dovuto scoprire anche molto più intelligente. In soccorso degli umani, che non riuscivano a tenere il passo di tanta evoluzione, giunse trafelata la psicoanalisi, che di semplici fissati non voleva più sentir parlare e che svelò al mondo il sottotesto dell’ossessione, del cerimoniale psichico, dell’autodifesa irrazionale. Se si parlava sempre della stessa persona era perché la si amava e non si poteva averla, se si discuteva sempre di pallacanestro si era un cestista mancato e così via.

Ora, lungi da noi il voler appartenere alla prima categoria, quella del fissato arcaico, che preferiamo comunque all’oltremodo aborrita tipologia umana moderna della fase orale compulsiva e prolungata. Se ci occupiamo quindi per la terza volta in poco tempo de Il Sole 24 Ore, non vuol dire né che ci si è piantato un chiodo in testa né che avremmo voluto fare il presidente di Confindustria e non vi siamo riusciti. Forse invece è perché il suddetto quotidiano economico rappresenta la vera voce del sistema, meglio di altri ne esprime i fondamenti teorici attraverso un rigoroso approfondimento, ma soprattutto perché esso è di fatto un giornale “militante”, tramite il quale il capitalismo italiano può contare su una leva propagandistica di notevole spessore.

L’articolo che questa volta ha meritato attenzione e critica è stato pubblicato in prima pagina mercoledì 19 maggio, ed era firmato da Giorgio Santilli, curatore di temi territoriali, urbanistici ed architettonici. Titolo: “I caduti per la pace meritano una memoria unitaria”. In questo si afferma, in rigoroso ordine tipografico, che: 1) i soldati italiani deceduti in Afghanistan sono caduti per la pace; 2) costoro rappresentano nel mondo “l’Italia migliore”; 3) i valori di pace propugnati sono riconosciuti dall’articolo 11 della Costituzione; 4) è necessario mobilitarsi per l’erezione di un memoriale; 5) l’architettura deve essere usata come strumento per inculcare queste convinzioni agl’italiani.

Vediamo un po’. I caduti per la pace. Tutti sono caduti per la pace. Gavrilo Princip, quello dell’attentato di Sarajevo, in gran parte d’Europa è stato ritenuto un terrorista, e in quanto tale è stato ammazzato in carcere a bastonate. Altrove la pensavano diversamente; a Belgrado, ad esempio, c’è ancora una via intestata a lui: si è immolato per la pace. Per carità di patria sorvoliamo su Cesare Battisti (quello di cento anni fa, non il pistolero carioca dello spontaneismo armato).  Pinochet e Videla hanno dedicato la loro vita alla pace del continente latino-americano. E i brigatisti rossi? A sentire loro mica volevano seminare cadaveri qua e là; hanno combattuto e si sono presi le pistolettate  della ps per una causa limpidissima: sconfiggere l’imperialismo e affermare la pace. E Ludwig? Ed Erika e Omar (scusate la caduta sulla nera)? Si sono sacrificati per la pace della loro famiglia. Per quanto sopra, si è quindi liberissimi di pensare che marò&marines si rechino a Kabul come latori di messaggi di pace: non si sarebbe né i primi né gli ultimi a fare pensieri strampalati. Peccato che sempre ci sarà chi non si troverà d’accordo. Gli afghani, ad esempio, per quanto la loro opinione possa contare.

Sul fatto che rappresentino l’Italia migliore, vista e considerata la qualità dell’Italia restante, è dura controbattere. Fatichiamo tuttavia a concepire come deve essere la “peggiore”.

Sull’articolo 11. E’ spiacevole calarsi nel ruolo di vestale della Costituzione, al solo pensiero si evoca l’immagine di Oscar Luigi Scalfaro (quello che dai tribunali speciali, a guerra finita, comminava le condanne a morte… ah!  dimenticavo: anche lui lo faceva per la pace). Se non a difesa della Carta, ergiamoci almeno a difesa della lingua italiana: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” vuol dire che se pure hai dei nobili motivi, pure se devi separare dei contendenti, la Brigata Sassari a fare il tiro al piccione a Kabul non ce la devi mandare. Altrimenti queste cose le potevano scrivere su un kleenex, non nei “principi fondamentali”. Ancora: “(l’Italia) consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”; come dire: anche senza gli ordini di Washington, a Kabul noi si andava lo stesso. L’importante è crederci, e va bene così.

Il tema dei memoriali, dei monumenti ai caduti, è scivoloso. Ben vengano tali manufatti: in ogni piazza d’Italia ne svetta uno, da quelli mastodontici dei grandi capoluoghi a quelli commoventi dei piccoli paesi, per dieci nomi incisi sul marmo tre cognomi in tutto. E che a Tutti sia lieve la terra. Però occorre fare chiarezza: quando gli americani, o gli inglesi, o gli italiani stessi, compiono un’azione militare in qualche disgraziato angolo del pianeta, spesso capita che la cortina di silenzio non tenga, e che si venga a sapere che a loro cagione ci sono stati trecento, quattrocento morti. I Comandi si affrettano a giustificare: “ma erano combattenti”; oppure: “erano armati”; o ancora: “erano insorti”. Ma non lo dicono allineandosi allo spirito della regolare condotta bellica, secondo cui tra armati contrapposti ci si spara addosso, ed è tutto normale: rimarcano l’appartenenza del nemico abbattuto a dei corpi armati come ad intendere che era spazzatura umana, vite che non valgono, neanche da inserirsi nelle conte dei caduti e per le quali nessuno piangerà. Allora, così ragionando, sotto tutti i nostri monumenti possiamo metterci la dinamite, così usciamo dall’equivoco. Oppure che si rispettino tutti, anche il nemico in divisa. Ma dimenticavamo, non è più tempo di guerre dichiarate e di cavalleria tra belligeranti: ora si porta la pace, e così sia.

Per quanto riguarda l’utilizzo dell’architettura come arma di convincimento, che il Santilli candidamente ammette, non è una novità. Combattete la vostra battaglia, che riterrete sacrosanta ma che è – se vi resta uno scampolo d’onestà ne converrete – tutto fuorché popolare. E le armi di dissuasione e i mezzi non vi difettano. Finché la gente abbocca, buoni voi.

Se non fosse per la necessaria solidarietà dovuta all’editoria e alla carta stampata in questo periodo in cui deve subire ogni genere di attacco e vessazione, auspicheremmo – vista e considerata la levatura del messaggio degli articoli del quotidiano confindustriale – che Il Sole 24 Ore chiudesse bottega. Così noi ci toglieremmo una fissazione, e vi immolereste così anche voi per la pace. Quella delle coscienze.