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Bugie in-crociate

di Franco Cardini - 10/06/2010

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La polemica montata in questi giorni tra un articolo di “La Repubblica” del 7 giugno e una replica
apparsa su “Il Foglio” dell’8 ha l’aspetto, francamente un po’ penoso, di un dialogo strumentale tra sordi che,
oltretutto, non hanno nemmeno troppa voglia di dialogare tra loro. Da una parte si parla di un “addio della
Chiesa allo spirito di crociata”: il che sembrerebbe presupporre che, questo non meglio precisato “spirito di
crociata”, la Chiesa lo abbia fino a tempi recenti davvero custodito come uno dei suoi più preziosi tesori; e che
fosse un bene primario, quasi allo stesso livello delle Scritture e della Tradizione, dal quale essa si sarebbe
finalmente liberata in tempi recenti. Dall’altro si costruisce una bislacca neoteoria della crociata (o, se si
preferisce, teoria della neocrociata) fondata su citazioni neotestamentarie e patristiche avulse dal loro contesto
e da considerazioni che fanno sospettare, in chi le fa, un tardivo conseguimento di una cultura medievistica
costruita sui testi di Duby (non diciamo di De Lubac) tardivamente riletti alla luce di Péguy. Da una parte un
irenismo senza qualità, sul quale si vorrebbe appiattire la complessità della teologia e della storia del
cristianesimo e delle Chiese cristiane; dall’altra una pervicace volontà apologetica che sarebbe impresentabile
in una seria discussione tra specialisti ma le cui intenzioni divengono lampanti nel contesto nel quale si muove
tutta l’edizione dell’8 scorso del giornale di Ferrara. Che è la conclamata necessità di tener alto il principio
dello “scontro di civiltà” nei confronti del mondo musulmano, impiantata sull’enigmatico episodio
dell’assassinio di monsignor Padovanesi del quale si offre naturalmente una spiegazione basata sul fanatismo
fondamentalista islamico (“mostro da sbattere in prima pagina”, anche per relegare una volta per tutte nel
dimenticatoio alcune cosucce imbarazzanti, ad esempio sugli incidenti avvenuti qualche notte fa al largo della
costa di Gaza).
Certo, un assunto come questo ha libera circolazione in Italia visto l’ormai lacrimevole livello di
conoscenza storica circolante nel nostro paese, l’allarmante qualità della divulgazione massmediale che
cinema e TV ne forniscono, il silenzio delle pur esili sedi specialistiche deputate a studiare sul serio che la
recentissima legge rischia di mettere a tacere a suon di tagli mentre alcuni burocrati di regime s’incaricano di
manipolare e di nascondere (per dirne una, qualche anno fa il CNR organizzò un convegno sulla storia delle
crociate con alcuni buoni specialisti stranieri: ma “a porte chiuse”, e in eclatante assenza di alcuni studiosi
italiani “non graditi” in quanto evidentemente “non allineati”, che non vennero invitati: il tutto a spese del
popolo italiano, ovviamente).
Ora, che cosa sostiene l’organo di Ferrara a proposito delle crociate? Semplicemente che la Chiesa
cattolica romana non ha mai fatto suo l’irenismo ch’era pur patrimonio di alcuni (ristretti) gruppi cristiani delle
origini; che alla sua base esiste un forte anelito alla testimonianza che si traduce anche in spirito di martirio
per la verità, il che include, e non esclude, l’uso delle armi; che quelle che di solito definiamo “crociate” (e sulle
quali tra i secoli XII e XV vennero elaborati un diritto canonico, un sistema economico-finanziario, una
tradizione letteraria e agiografica) furono parte della splendida cultura del medioevo occidentale cristiano, dal
quale non possono essere espunte; che il loro spirito oggi permane nella Chiesa e nella società occidentale
che ne è erede.
E fin qui si ha la sensazione di ascoltare la lezioncina di un maestrino cattolico intento a redigere il suo
bravo cattobignami: che, intendiamoci, è del tutto degno di entrar in conflitto con la lezioncina dei maestrini
laicisti autori di bignami anticlericali dove s’immagina una Chiesa sadomaso dèdita a massacri di pagani e
d’infedeli e a sevizie inquisitoriali; e con quella dei bignami veterostoricisti, impegnati a dimostrare che la
crociata altro non fu se non la “sovrastruttura” di movimenti economici e sociali profondi.
In realtà, la crociatistica seria – da Meyer a Prawer a Flori a Riley-Smith -, pur discutendo
accanitamente su una quantità di eventi e d’interpretazioni, ha da tempo dimostrato che le crociate nacquero
sulla base senza dubbio dell’elaborazione della tesi agostiniana della “guerra giusta” (che non santifica la
guerra in toto, ma si limita a studiare i limitati casi nel quale il fedele può prendere le armi legittimamente, in
guerra difensiva e sulla base del comando di una legittima autorità): ma la loro dinamica s’impiantò a partire
dalla riforma istituzionale e spirituale del sec.XI e dal suo incontro con una fase di espansione demografica e
socioeconomica dell’Europa cristiana; la loro elaborazione teologico-canonistica giunse tardivamente, nel
sec.XIII, dopo che per due secoli il movimento crociato si era sviluppato dalla Terrasanta alla penisola iberica
sulla feconda radice del pellegrinaggio e della sua disciplina, rappresentando da un lato la facies militare di un
rapporto con il mondo musulmano ch’era altresì fecondamente tessuto anche di rapporti economici, culturali e
diplomatici, e articolandosi dall’altro in un complesso e raffinato strumento di controllo della società (da qui le
crociate contro gli eretici o i nemici politici del papato, la politica delle decime e delle indulgenze, la
predicazione ecc.). Le crociate causarono anche, nell’Europa dei secc.XIII-XVI, un serio e serrato
contraccolpo, e una serie di contestazioni all’interno stesso della Chiesa. E non giova certo all’articolista tirar
poco opportunamente in ballo una fonte forse tardiva e comunque incerta come la supposta testimonianza di
frate Illuminato da Rieti che ci presenta un Francesco d’Assisi impegnato in una discussione col sultano di
chiero ed evidente stampo controversistico: lo stesso padre Golubovich, che pubblicò quella fonte nel vol. I
della sua venerabile Biblioteca bio-bibliografica di Terrasanta, ne sottolineava l’incertezza e l’inaffidabilità.
Ma fin qui si tratta solo di una ricostruzione storica incerta, generica, fondata sulla volontà di affermare
una serie di luoghi comuni sostenuti da un pregiudizio. il vero giochetto di prestigio viene poi: allorché il
cattomaestrino, con un colpo di magica bacchetta toecon, fa sparire lo “strappo” rappresentato dalla Modernità
e dal processo di secolarizzazione et voilà, ci presenta l’attuale Occidente individualistico e liberal-liberistico
come l’ovvio e naturale erede – senza soluzione di continuità - della grande civiltà cristiana medievale della
quale ha testè cantato le lodi. Dietro al cattomaestrino, balde e salde si allineano le schiere dei catholiquesfauves
che ieri seguivano la lezione di De Maistre e di Donoso Cortès e facevano l’apologia di quel Sillabo di
Pio IX che condanna senza appello la Modernità liberal-liberistica, mentre che dall’indomani dell’11
settembre, sull’onda dei born again in Jesus Christ proclamatori di nuove crociate in Afghanistan e in Iraq, si
sono convertiti al “cristianismo” puro e duro, tutto Dio e Profitto (Max Weber, queste cose, le aveva già dette in
modo ben più elegante).
A che cosa serve tutto ciò? Alla costruzione di una paraideologia in apparenza cattolica fatta apposta
per accalappiar voti e per mettere d’accordo vecchie istanze della destra “tradizionalista” profondamente
manipolate con le pretestuose ragioni degli “atei devoti” che hanno scoperto in ritardo la lezione crociana del
“Perché non possiamo non dirci cristiani” e l’hanno messa al servizio della propaganda contro le note bestie
nere del berluskismo: che sono, manco a dirlo, il “relativismo” (con esemplare confusione tra relativismo etico
e relativismo antropologico), i musulmani (quelli fondamentalisti: però Magdi Cristiano Allam spiega
dottamente che gli altri sono solo degli ipocriti) e i comunisti.
La proposta apologetica di una crociata che non è mai esistita non sarebbe grave in sé: ma ormai da
troppi anni essa è uscita dagli ambiti propriamente demagogici degli ambienti teocon e ha cercato di acquisire
una rispettabilità che non le spetta, ma che è stata perseguita con ampio dispiego di mezzo e che ha sfiorato
perfino ambienti accademici in apparenza seri.
Naturalmente, all’origine questa fangosa mistificazione è cominciata nel mondo del fanatismo
fondamentalista. Cito un caso-solo: che purtroppo non è un caso-limite. Stando a una fonte autorevole come il
“Los Angeles Times” del 16 ottobre 2003, il generale Boykin, cristiano-evangelico, avrebbe dichiarato
tranquillamente che “noi siamo una nazione giudeocristiana”, e dunque “il nemico è un tipo che si chiama
Satana”; e che “noi, l’armata di Dio, nella casa di Dio, siamo stati allevati per questa missione”. Sul “The
Guardian” del 20 maggio 2004, Sidney Blumenthal ha richiamato i precedenti del generale in Somalia,
quando a proposito dei capi musulmani egli dichiarava: “Io sapevo che il mio Dio era più grande del loro; che
era il Vero Dio, e il loro un idolo”. Abbiamo più volte rimproverato un linguaggio del genere ai fondamentalisti
di casa nostra: ma che a usarlo non sia un qualunque agitatore politico, o il solito sacerdote un po’ troppo
coinvolto nel sostegno al non ancora estinto bushismo, o la solita giornalista di successo atea ma convertita
agli ideali crociati o a quelli che essa suppone esser tali: bensì un militare cui si sono attribuiti importanti
incarichi politici da parte del governo della superpotenza, è obiettivamente d’una gravità inaudita. Tantopiù
che il generale Boykin ha avuto a che fare con gli atti criminosi perpetrati nella prigione di Abu Ghraib: dove fra
l’altro si costringevano i prigionieri ad abiurare alla loro fede e a mangiar carne di maiale. Il che è purtroppo
testimoniato da un lancio della “Reuters” del 21 maggio 2004 dall’eloquente titolo New images amplify abuse
at Iraq prison, controllabile online e, ohimé, ampiamente fededegno. Possso assicurarvi da medievista
studioso delle crociate che abusi del genere, nel cupo medioevo, erano davvero rari e venivano fatti oggetto di
esecrazione. Se queste sono le nuove crociate, ebbene, sono incommensurabilmente peggiori di quelle
storiche. Alla faccia della democrazia, della tolleranza e dei Diritti dell’Uomo, maturati nel frattempo.
Insomma, la nuova “crociata” è nel vento: e un sacco di cristiani specie cattolici (la parola non ha mai
goduto di buona stampa presso protestanti e ortodossi) nonché di “difensori laici (o addirittura atei) della
Cristianità “ (non se ne sentiva il bisogno: ma sono spuntati anche quelli) fanno capire che non dispiacerebbe
loro affatto. Difatti, nell’attesa di proclamare quella nuova, si stanno “riscoprendo” e “rivalutando” quelle
vecchie. Revisionismo storico? Magari: la cosa avrebbe in fondo una sua plausibilità: si potrebbe discutere.
Invece, la parata di sciocchezze alla quale stiamo assistendo è riuscita a scendere molto più in basso.
Vediamo come.
Gran brutta bestia la tentazione iperspecialistica, quando esce dal suo naturale e legittimo territorio:
ch’è quello della ricerca scientifica. E ben vengano i coraggiosi e gli avventurosi che osano esplorare i territori
lontani dai propri. Ben venga perfino la tuttologia, provocazione sovente meritoria contro deprecabili forme di
pigrizia o di pavidità intellettuale. A patto che tutto ciò sia condotto con juicio e con un minimo di cognizione di
causa. Altrimenti, anche a esser colti, brillanti e intelligenti, si corre il rischio di grossi scivoloni.
Un rischio nel quale sembra esser incorso perfino Geminello Alvi che, su “Il Corriere della Sera” del 19
ottobre 2004, discettando delle crociate e della loro storia, finisce con l’accodarsi alla schiera di quanti al
mondo fanno il nobile mestier degli Scopritori dell’Acqua Calda, degli Sfondatori di Porte Aperte e dei pescatori
di Granchi d’Acqua Dolce. L’articolo di Alvi è stato più o meno rispiattellato - con qualche modifica, parecchia
confusione e un richiamo a dir poco misguiding a un successivo saggio su una rivista statunitense (quindi, per
definizione, autorevole...) – sul paginone centrale de “Il Foglio” del 13 luglio 2005: ma parliamo dei plagiati,
che non per nulla son tali, perché in qualche modo fanno notizia, e non dei plagiatori, che vanno e vengono.
Quindi in realtà il “foglio”, che a differenza del lupo del noto adagio non ha perduto né il pelo né il vizio, ha
cinque anni dopo, nel giugno del 2010, ricalcato fedelmente le orme di qualcosa che aveva già scritto senza
troppo pudore nel 2005. Questa sì ch’è coerenza.
Difatti l’Alvi, cinque anni fa, accusava gli studiosi italiani di esser rimasti, in materia di storia delle
crociate, ancorati al “mito sessantottino” e “politicamente corretto” dei crociati selvaggi e venali, nonché
prigionieri dei pregiudizi anticrociati dell’antiquata storia di Steven Runciman; e svelava loro l’esistenza di
studiosi come Jonathan Riley Smith e Thomas Madden che invece hanno “difeso” i crociati”, e affermando
inoltre che il saraceno Saladino era – come ha rivelato a suo tempo Francesco Gabrieli – un feroce tagliatore
di teste. Insomma era proprio il Feroce Saladino, come lo descriveva l’epiteto appiccicatogli negli Anni Trenta
dalle figurine della Perugina-Buitoni. Il tutto per concluderne – e l’Alvi ne concludeva - che gli studiosi italiani
(tutti “sessantottini” e “di sinistra”?) avrebbero dovuto mettersi al passo con i tempi, e magari frequentar la
“Society for the Study of the Crusades and the Latin East”. Così l’avrebbero piantata con la loro manìa di
denigrare il felice e civile Occidente con l’alibi delle critiche démodées indirizzate ai crociati medievali.
Peccato che il diavoletto dell’attualizzazione e dell’uso strumentale della storia – che lo spingeva a far
l’apologia delle crociate medievali per suggerire che, insomma, anche quelle dei giorni nostri sono una gran
bella e buona cosa: bisogna pur difenderla, che diamine, la “civiltà occidentale”... – non solo impedisse all’Alvi
di legger quel che già allora, e da anni, si scriveva nelle sedi storiche serie, in Europa e anche (perfino…) in
Italia, ma lo inducesse anche a imbarazzanti scivolate. Come quella di chiedersi se la conquista crociata di
Lisbona, nel 1147, fosse stata “un male o un bene”: ch’è uso moralistico della storia dinanzi al quale perfino la
Maestrina dalla Penna Rossa del buon De Amicis avrebbe recalcitrato. O quella di non accorgersi che la
denigrazione della crociata fu mito, ohimè, non già sessantottino, ma semmai già settecentesco e illuminista
(per averne contezza si ricorra al Diderot e al Voltaire, nonché alle pagine immortali dell’Encyclopédie,: ma il
Diderot e il Voltaire non erano, fino a qualche tempo fa, i mani protettori della nostra intellighentzjia
intelligente?). O quella di dimenticare che l’apologia del Saladino – del resto, con qualche riserva ch’è
opportuno fare, largamente giustificata dalla realtà storica: su questo, se proprio vogliamo far del moralismo
applicato alla storia (e mi ripugna) lo sfido a dimostrare il contrario - è stata proposta, nel “nostro Occidente”,
non da alcuni pericolosi estremisti filoislamici, bensì da Dante, da Boccaccio e da Gotthold Efraim Lessing che
in pieno Illuminismo ne ha fatto, col suo Nathan der Weise - il modello della tolleranza. O quella infine di
considerare “provvidenziale” la cacciata degli arabi da Granada nel 1492 (avrebbe avuto il coraggio di
affermare che fu provvidenziale anche quella, contestuale, degli ebrei?) e di affermare – riferendosi
presumibilmente ai fatti del 1480 – che per fortuna “gli arabi” fossero cacciati da Otranto. E’ ben noto che
protagonisti della terribile pagina del massacro otrantino del 1480 furono dei “turchi” (tra i quali forse v’erano
magari dei rinnegati italiani e greci): di arabi, manco l’ombra.E’ inoltre forse meno noto, ma non proprio
segreto, che nel pasticciaccio brutto di Otranto c’entrarono forse le diplomazie fiorentina e veneziana, altro che
scontro puro e duro fra croce e Mezzaluna: sarebbe bastato dar un’occhiata alla pur vecchia biografia del
sultano Maometto II redatta da Franz Babinger (un vero classico della storiografia moderna: lo vede, caro Alvi,
che qualcosa leggiucchiamo anche noialtri storici italiani?) e pubblicata in Italia da Einaudi, per averne
sommaria ma altresì adeguata contezza.
Se l’Alvi si fosse preso la briga insomma di guardar meglio le bibliografie correnti, disponibili anche in
rete, si sarebbe accorto non solo che Riley-Smith e Madden erano allora e continuano ad essere ben noti in
Italia – ma si tratta di studiosi di valore ben diverso tra loro - , ma che gli studiosi del nostro paese erano e
sono molto attenti a recepire le novità nel campo della ricerca specifica in quel campo e anche a contribuirvi.
La Società internazionale di studi da lui giustamente citata come il centro motore della ricerca crociatistica era
ed è ben frequentata da italiani: studiosi come Antonio Carile e Giorgio Fedalto ne hanno ricoperto anche
cariche direttive. Medievisti che vanno da Giosuè Musca a Gabriella Airaldi al compianto Marco Tangheroni a
Gherardo Ortalli (e non cito i Maestri ormai entrati nell’Olimpo della storia patria, come Giovanni Miccoli e
Raoul Manselli) hanno fornito alla storia delle crociate contributi ben noti anche a livello internazionale
(qualcosa, fra gli eruditi di quart’ultima fila, ci ho messo perfino io). I centri di studi medievistici di Spoleto e di
Todi si sono occupati a più riprese delle crociate. Esiste una casa editrice romana, la Jouvence, che si è
specializzata nel far conoscere in traduzione alcune fra le opere più recenti e interessanti della crociatistica
israeliana, come i lavori di Joshua Prawer e di Sylvia Schein. E sta nascendo una pattuglia di giovani studiosi
delle crociate estremamente valida: da Marco Meschini autore di un recente libro sulla quarta crociata a
Giuseppe Ligato che sta studiando il tema dei prigionieri cristiani e musulmani a Renata Salvarani che ha
collaborato a lungo con padre Michele Piccirillo a Marina Montesano che ha di recente riconsiderato il tema
del rapporto fra l’espansione genovese e la crociata nel Mediterraneo a luigi Russo a Vito Sibilio a molti altri. .
Per tacere dei molti specialisti che, lavorando su temi che vanno dalla storia economica e sociale del
Mediterraneo ai diari di pellegrinaggio, fatalmente finiscono anch’essi per doversi occupar di crociate. Un
panorama estremamente vasto e articolato.
Geminello Alvi se la prendeva, cinque anni fa. con certi manuali e con “gli storici esoteristi da
dopolavoro ferroviario”; e polemizzava contro un uso della storia suscettibile di contrabbandare temi
antioccidentalisti sotto l’alibi della ricerca. In questo, poteva avere molte ragioni. Ma gli studiosi seri non
c’entravano e non c’entrano: loro, di destra o di sinistra che siano, stanno lavorando parecchio, e bene. A uno
come Alvi, la disinformazione si poteva perdonare, come a tutti, quando ci cadeva per caso, a proposito di un
argomento per lui in quel momento marginale e sul quale evidentemente non aveva competenza. A volte,
come si dice, dormicchia perfino Omero: figurarsi gli altri. E’ capitato anche a me e càpita a tutti. Ma quando
della disinformazione si fa centro per un articolo impegnato, su un grande quotidiano, questo no.
Comunque, diciamo la verità anche per giustificare in qualche modo le scivolate di uno scrittore
intelligente e raffinato come Alvi: eravamo cinque anni fa, e a maggior ragione siamo oggi, siamo tutti un po’
sottosopra. Le ripercussioni dei tragici avvenimenti di questo nostro tempo sulla pubblicistica e sulla letteratura
storica divulgativa si possono capire, per quanto certo in alcun modo giustificare: il fatto è però hanno dato
ohimè alla stura a ogni sorta di brutture. Fra esse, si segnalano per indecenza certe “storie” – uscite per lo più
da ambienti e da case editrici di certi estremisti cattolici usi a ridurre la storia della cattolicità alla battaglia di
Lepanto e alla messa in latino – che pretendono di presentare e di spiegare le secolari vicende dei rapporti fra
cristiani e musulmani come un’infinita sequenza di guerre e di orrori. Non citerò esempi al riguardo, dal
momento che tale paccottiglia non merita forma alcuna di menzione, che sarebbe indirettamente
propagandistica.
Proprio per questo è tanto più doveroso il segnalare i pochi lavori di questo tipo dotati, al contrario, di
dignità e di attendibilità storica. Non senza tuttavia fornire, in senso propriamente farmaceutico, qualche
necessaria “istruzione per l’uso” della quale il lettore avveduto dovrà tener conto.
Facciamo il caso concreto di Infedeli di Andrew Wheatcroft, un libro tradotto nella nostra lingua nel
2004, e per cura nientemeno che della gloriosa editrice Laterza. L’Autore, docente di anglistica presso
l’Università di Stirling in Scozia, è uno studioso di amplissime e approfondite letture; è anche un viaggiatore
pieno di curiosità e di umanità, un instancabile visitatore di biblioteche e un attento valutatore delle fonti
iconiche. E’ infine, fatto molto importante, tutt’altro che un vecchio o recente apologeta di scontri di culture o di
civiltà di sorta: e di questi tempi ciò, che in anni passati sarebbe stato un dato ovvio, è divenuto un merito. Il
che non toglie che questo libro – è egli stesso a confessarlo, e merita ogni comprensione per questo – sia
stato in qualche modo condizionato dai fatti dell’11 settembre del 2001.
Wheatcroft, partendo dal caso esemplare di Lepanto e procedendo secondo un itinerario diacronico e
“labirintico” molto efficace anche sul piano letterario, narra dei rapporti fra musulmani e Cristianità occidentale;
e “dell’inimicizia, del modo in cui fu creata e del modo in cui continua ad essere vissuta tuttora”. Prospettiva
più che legittima: la quale tuttavia ci obbliga ad attraversare per intero tutto questo lungo e ricchissimo libro
senza mai dimenticarla.
Voglio dire – ciò fondamentale – che Wheatcroft non dice da nessuna parte, e tanto meno pensa o
insinua, che i rapporti fra società cristiana occidentale (che egli forse generalizza tuttavia un po’ troppo,
dimenticando il “processo di laicizzazione” di cui la nostra società è stata protagonista e che rende un po’
problematico il definirla, ancor oggi, come “cristiana” nel suo complesso) e Islam siano stati sempre e del tutto
segnati dalla reciproca ostilità e dalla conduzione o preparazione di conflitti. Di questi rapporti, che furono
articolati e complessi, egli studia e presenta comunque – quanto meno nelle intenzioni – soltanto l’aspetto
conflittuale e la fenomenologia della conflittualità.
E’ una scelta plausibile. Esistono biblioteche intere di libri che, ad esempio, studiano e ricostruiscono
le secolari, continue guerre tra Francia e Germania dal Re Sole (e magari da Francesco I, o addirittura dal
Barbarossa) ad Hitler: ma sappiamo tutti che esse non esaurirono affatto, per fortuna, l’intera gamma dei
rapporti fra quei due grandi paesi e i loro abitanti. Potrei scrivere un libro autobiografico, intenso e
appassionato, sui litigi fra mio padre e mia madre: il che non toglie affatto che si volessero un gran bene. E
difatti il libro di Wheatcroft, nella sua ricchezza e complessità, finisce per toccare se non per centrare anche la
questione della reciproca attrazione, della compenetrazione, della reciproca simpatia, della complementarità
storica, fra cristianesimo occidentale e Islam: ad esempio quando parla del fascino esercitato sui politologi
moderni dal “modello autocratico” ottomano, oppure dell’innamoramento degli occidentali per l’Oriente e della
dimensione – estetica: ma non solo - dell’ “orientalismo”.
Tuttavia, fedele a se stesso e al compito che si era prefisso, egli fa centro sulle guerre: e quindi sui
reciproci pregiudizi che ne sorreggevano e in qualche modo contribuivano a giustificarne la pratica. Il lettore
dovrà sempre tener a mente che è dei rapporti conflittuali, e non dei rapporti tout court, che egli tratta.
Sarebbe fuorviante il dimenticarlo anche solo un istante; e magari anche il non fornirsi dei necessari antidoti,
informandosi dei molti rapporti amichevoli (commerciali, culturali, diplomatici) esistenti fra i due mondi.
Proviamolo con qualche semplice riscontro. L’Autore non cita mai Pietro Abelardo, che nel pieno XII
secolo propose in una sua opera un pacato e amichevole confronto tra le filosofie ebraica, cristiana e
musulmana. Dedica un intero, splendido capitolo ai pregiudizi e alle maledizioni reciproche (e qui entrano
anche l’imam Khomeini e Ronald Reagan), ma non accorda neppure un cenno alla “scuola di Toledo” e al fatto
che la prima traduzione latina del Corano fosse voluta, in pieno XII secolo, dai monaci cluniacensi. Cita più
volte Bernard Lewis – rendendo giustissimo omaggio alla sua figura di studioso ma mettendo allo stesso
tempo in guardia a proposito di qualche suo giudizio politicamente tendenzioso -, neppure una volta tuttavia il
Lessing, fondatore illuminista del mito del Saladino come padre della tolleranza nella cultura occidentale.
Una volta tenuto presente che questo non è un libro sui rapporti fra cristianesimo e Islam, bensì sulle
guerre e sullo stato di conflittualità tra le due sfere o tra quelle che ad esse in qualche modo si rifanno (che
rapporto c’è fra la Cristianità medievale e protomoderna e la Modernità occidentale?), questa lettura è tanto
opportuna quanto affascinante. Ma bisogna tener conto di troppe cose, per leggerlo adeguatamente e
correttamente. Scopo di chi ha non dico scritto, ma tradotto e pubblicato questo libro era di metterlo nelle mani
di lettori provvisti di adeguate istruzioni per l’uso oppure di confondere le acque? E’ questo che vorremmo
tanto sapere.
Resta il fatto che le crociate non sono quelle che vorrebbero i troppi adepti e neoadepti d’un composito
fronte politico-religioso che va dai vari gruppi teocon agli animatori della Christian Cohalition statunitense di
Pat Robertson ai vari gruppi dei born again in Jesus Christ ai propagandisti-predicatori televisivi e non della
Bible Belt negli States dell’Old Deep South, dove l’antislamismo sembra essersi sostituito, come succedaneo,
all’originario antisemitismo. Non parlerò di tutto ciò sia perché poco o nulla potrei aggiungere a quanto al
riguardo hanno osservato Barbara Victor, The last crusade (New York, St. Martin’s Press, 2004), Claude
Liauzu (Empire du Mal contre Grand Satan, Paris, Colin, 2005), Emilio Gentile (La democrazia di Dio. La
religione americana nell’era dell’impero e del terrore, Roma-Bari, Laterza, 2006) ed altri. Ma nell’esaminare la
deterministica e grossolana teologia della storia costruita da quegli ambienti secondo i quali gli Stati Uniti
d’America sono il Nuovo Israele in quanto nuovo Popolo Eletto da Dio, e i loro national interests coincidono
sempre quindi non solo col volere del Signore, ma anche con “l’interesse della civiltà nel suo insieme”, come si
esprimeva Teddy Roosevelt all’atto dell’occupazione del Canale di Panama, nel novembre del 1903, non
bisogna dimenticare che essa viene appoggiata, negli USA come altrove (ognuno ha gli “Atei Devoti” che si
merita), anche da politici, studiosi e intellettuali che astraggono da Dio e dalle citazioni bibliche, ma che si
limitano a riproporre una tecnologicamente avanzata teoria del Faustrecht: la forza dell’Occidente sta tutta
nelle armi, essi hanno ragione perché vincono e vincono perché hanno ragione. L’estensore di quello che,
almeno nelle intenzioni, sarebbe il “Manifesto storico” di questa visione del mondo, è Victor David Hanson,
docente di storia greca e latina presso la State University of California di Fresno, autore di un libro che in
edizione italiana è uscita col titolo di Massacri (Milano, Garzanti) e nel quale si allineano in bell’ordine tutte le
battaglie di un Occidente sempre identificabile con se stesso e considerabile in blocco contro un Oriente che
sarebbe altrettanto tale. Il libro di Hanson allinea in bell’ordine, tra le Grandi Vittorie che hanno salvato
l’Occidente e la civiltà, Salamina, Poitiers, Tenochtithlan (con il pittoresco corollario dell’assegnazione d’ufficio
della civiltà azteca all’Oriente), Lepanto e perfino l’offensiva del Tet: il che è alquanto singolare, perché ci vuole
senza dubbio qualcosa di più di una sia pur massiccia dose di patriottismo per considerar l’avventura
statunitense in Vietnam come una vittoria. Il professor Hanson, insomma, va ben al di là dei teocon: Dio è
senza dubbio con gli Stati Uniti, pur essendo irrilevante che Egli esista o no.