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Espana es diferente

di Valerio Zecchini - 14/06/2010

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“España es diferente”, la Spagna è diversa, questo il motto coniato negli anni sessanta dall’allora ministro del turismo Manuel Fraga Iribarne, politico che poi fu uno dei più importanti leader della destra spagnola fino ai giorni nostri. Ma non era solo uno slogan inventato per incuriosire i potenziali turisti e indurli a visitare un paese fino ad allora chiuso in sé stesso- nella sua semplicità c’era una verità profonda.
Fino a una ventina di anni fa, la Spagna (e anche il resto della penisola iberica) aveva infatti conservato un insieme di caratteristiche che la rendevano unica nel contesto europeo- una diversità spesso vissuta con un orgoglio che ben si sintetizza nella famosa esclamazione di Miguel de Unamuno: “Bisogna spagnolizzare tutta l’Europa, e non viceversa!”. Si riferiva allo spirito del Don Chisciotte e alla sua follia romantica, a quella volontà di sfida all’impossibile, a quell’anelito epico con il quale desiderava contagiare il resto d’Europa. L’entrata nell’Unione europea, l’esposizione universale e le olimpiadi nel 1992, ma soprattutto la seconda fase del socialismo spagnolo (quella di Zapatero) hanno portato la Spagna ad essere oggi completamente uniformata al resto dei paesi occidentali. Questo livellamento culturale negli ultimi tempi ha investito anche la corrida, che sembrava essere l’ultimo baluardo della tradizione: sotto la spinta omologatrice dello zapaterismo, le manifestazioni di piazza anticorrida (fino a ieri frequentate da sparuti gruppi di animalisti) hanno acquisito una forza inusitata e sono state ampiamente pubblicizzate dai media.
Dobbiamo dunque affermare con decisione che l’abolizione della corrida costituirebbe un crimine culturale senza precedenti; personalmente la definisco l’arte marziale dell’estremo occidente, perché la considero come il corrispettivo dell’etica del samurai giapponese. Essa fonda le sue radici nel cattolicesimo paganeggiante così proprio del costume spagnolo, oltre che nella sua peculiare cultura popolare sviluppatasi nei secoli della decadenza. Cultura popolare che, non avendo più alcun punto di riferimento nell’aristocrazia, priva cioè di modelli credibili, sviluppò forme e usanze autonome e originalissime. La principale motivazione che anima gli attivisti che auspicano la fine della Fiesta Nacional è poi quanto mai ridicola: il toro muore sì combattendo ad armi impari, ma vive lussuosamente fino al giorno in cui entra nell’arena; mentre oggi tutti gli altri animali da allevamento spesso vivono in condizioni di dura prigionia fino a quando non vengono macellati. L’altra obiezione che di solito viene posta da questi alfieri del più bieco veteroprogressismo è che ormai la corrida conterebbe pochi veri appassionati e sopravvive soprattutto come attrazione per i turisti. Nulla di più falso: l’entusiasmo suscitato dal nuovo idolo delle plazas de toros David Fandila sta a testimoniare il contrario, e anche il fatto che le peñas taurinas (circoli di tifosi) sono più frequentate oggi che nel recente passato.
La corrida è un magico connubio di sport e arte: l’artista, il matador, vuole che venga riconosciuta la sua esencia: la qualità di realizzare una corrida con arte, bellezza, sentimento. Emozioni che possano durare nel tempo per essere immortalate non solo nelle cronache ma anche da pittori e poeti. E’ lungo l’elenco degli artisti che hanno cantate le gesta dei grandi toreri, basti citare Dalí e Picasso, García Lorca e Almodóvar, Orson Welles e Ernest Hemingway. Quest’ultimo sentenzia in Morte nel pomeriggio: “l’essenza della massima emozione della corrida è il sentimento di immortalità che il torero prova nel mezzo di una grande faena e che trasmette agli spettatori. Egli compie un’opera d’arte e gioca con la morte accostandosela sempre più vicino, una morte che sapete racchiusa nelle corna”.
L’artista italiano Aldo Mondino, scomparso nel 2005 dedicò una delle sue ultime mostre (“Tauromachia”) alla corrida, di cui era appassionatissimo cultore: “il torero per me è la metafora dell’artista, l’uomo che sa dominare la paura attraverso gesti di grande bellezza”. La mostra consisteva di 100 opere in ceramica raffiguranti i più grandi toreri della storia, in posa o in azione, incorniciati dai simboli delle loro ganaderías, gli allevamenti di tori. Non a caso Mondino dedicò mostre anche al Marocco dei tappeti, alle danses des jarres tunisine, ai dervisci rotanti della Turchia; una passione per le tradizioni culturali che era soprattutto passione per la molteplicità, per la bellezza della vita e dell’armonia – e nel contempo uno strenuo impegno contro l’omologazione culturale forzata imposta dalla globalizzazione imperante.
“Manolete”, che esce in Italia con tre anni di ritardo, narra gli ultimi anni della breve vita del leggendario toreador morto in combattimento nel 1947. Diretto da un regista olandese già sceneggiatore per Steven Spielberg e interpretato dalla star hollywoodiana Adrien Brody (sconcertante la sua somiglianza col vero Manolete), il film è rovinato dal melenso melodramma della storia d’amore del matador con Lupe Sino, raccontata con tediosi flashback. Modestamente interpretata da Penélope Cruz, quest’ultima era un’attrice di basso rango invisa al regime franchista, ma anche alla massa degli spettatori delle arene e alla cuadrilla del toreador, la sua squadra di assistenti personali. Il labirinto di passioni generato da questa contrastata relazione è reso alquanto malamente e il punto di forza del film sta invece nell’efficace descrizione della vita dietro le quinte del variopinto mondo della corrida, nonché nell’intenso lirismo delle scene di combattimento. In particolare l’ultima, quella del 28 agosto 1947 in cui Manolete deve affrontare la più importante sfida della sua carriera: una corrida in cui è chiamato a competere con il più giovane e arrogante Luís Miguel Dominguin e a riconquistare l’amore del popolo delle plazas de toros, un po’ appannato dopo il suo soggiorno in Messico. Sarà la sua faena più bella ma anche l’ultima; la gloria della morte nell’arena lo renderà definitivamente un mito. Il film celebra comunque degnamente questa figura tormentata e romantica, leggendaria per la cultura iberica: Adrien Brody ne sottolinea adeguatamente i modi austeri, le espressioni sofferte, i tratti del volto spigolosi e soprattutto la leggiadria del portamento applicata a una pratica marziale come la corrida.