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Quale forma di lince abitava i boschi appenninici nei secoli passati?

di Francesco Lamendola - 16/06/2010

 


«Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel maculato era coperta;
e non mi si partìa d’inanzi al volto,
anzi impediva tanto il mio cammino,
ch’io fui per ritornar più volte volto.»

Così il gran padre Dante, nel I canto dell’«Inferno» (vv. 31-36); né sono mancati gli studiosi della «Divina Commedia» i quali hanno creduto di ravvisare nella descrizione di questa «fera alla gaetta pelle», come dice poco più avanti (v. 42) il Sommo Poeta, non solo, genericamente, un felino, e forse un leopardo, secondo la descrizione dei Bestiari medievali, ma proprio lei, la signora lince, oggi malinconicamente scomparsa dai nostri boschi: «Lynx lynx».
Infatti, se quasi tutti i commentatori, antichi e moderni, sono d’accordo nell’identificarne la fiera come l’allegoria morale del peccato della lussuria, nonché l’allegoria politica dell’avido e astuto comune di Firenze, le opinioni si sono sempre diversificate riguardo all’animale vero e proprio che Dante ha voluto in quei versi rappresentare. Manfredi Porena, di cui abbiamo seguito la lezione nei versi sopra citati, osserva che «La parola lonza viene etimologicamente da “lynx” = lince; ma designava allora piuttosto un leopardo» (Bologna, Zanichelli, vol. 1, 1970, p. 9). D’altra parte, un naturalista di grande valore, come il professor Giuseppe Scortecci, non aveva alcun dubbio circa l’identificazione della fiera dantesca con la lince.
Lince o leopardo, non intendiamo aggiungere qui la nostra opinione a quelle, autorevolissime, che già sono state espresse al riguardo; anche perché, sinceramente, non ci sembra che un simile esercizio d’intelligenza, o piuttosto di erudizione, sia poi così importante per la comprensione del testo dantesco; con buona pace di quanti vorrebbero vedere in ogni parola, in ogni virgola dell’immortale poema un significato nascosto e di vitale importanza non solo per la comprensione della «Commedia», ma anche per la mente ed il cuore del lettore.
Quello che piuttosto ci interessa, in questa sede, è se la lince, ai tempi di Dante - posto, ovviamente, che una lince fosse la prima delle tre fiere che compaiono all’uscita dalla selva del peccato; o, quanto meno, che come tale potesse venire interpretata dai lettori suoi contemporanei - fosse ancora un animale relativamente diffuso nelle estese foreste degli Appennini e delle Alpi; ma soprattutto dell’Appennino settentrionale, visto che Dante mai si stanca di sentirsi, pensare e giudicare come un Toscano, anche nel più profondo dell’Inferno (cfr. canto X, vv. 22-23) e, in genere, nei regni dell’Oltretomba.
Sappiamo, infatti, che quel nobile felino, dal portamento superbo e quasi fiabesco, ha resistito molto più a lungo nei boschi delle vallate alpine, tanto che alcuni esemplari vi erano ancora segnalati ai primi del Novecento; mentre più rapido è stato il declino delle popolazioni dell’Italia peninsulare, concentrate lungo la catena appenninica.
Un’altra interessante domanda, per il naturalista, è quella di sapere con certezza a quale sottospecie appartenesse la lince dell’areale appenninico, rimasta separata dalla sua compagna alpina dalla progressiva e irrimediabile scomparsa, nel corso del Basso Medioevo ed oltre, delle estese foreste primigenie planiziali che, ancora al tempo dei Romani e nei secoli dell’Alto Medioevo, avevano occupato vaste porzioni della Pianura Padano-Veneta.

Scrivono Sandro Lovari e Marco Tenucci in «La lince. Un fantasma nel bosco», nella enciclopedia naturalistica «Conoscere la natura d’Italia» (Novara, istituto Geografico De Agostini, 1983-85, vol. 10, pp. 53-55):

«La lince (“Lynx lynx”) è un carnivoro fissipede, appartenente alla famiglia dei Felidi, che ha distribuzione geografica olartica (Nordamerica ed Eurasia). Pesa 18-25 chilogrammi, con un’altezza al garrese di 50-70 centimetri. In natura difficilmente vive oltre dieci.-quindici anni d’età, ma in cattività può giungere a sfiorare i venti. Fino al 1800 in Italia era ancora presente su tutto l’arco alpino, ma poi la caccia incondizionata e l’alterazione dell’habitat forestale da essa preferito ne ridussero a poco a poco la consistenza numerica e l’area di distribuzione: agli inizi del 1900 la lince non sopravviveva più che sulle Alpi Marittime, e gli ultimi tre individui di cui si abbia notizia vennero uccisi rispettivamente nel 1909, nel 1913 e nel 1915 in provincia di Cuneo. Circolano voci più o meno attendibili sulla presenza di qualche raro esemplare avvistato sull’Appennino Centrale fino a dieci-venti anni fa [cioè fino al 1967-75], ma in merito non si dispone purtroppo di alcuna prova sicura.
Recentemente è stata proposta la reintroduzione della lince sui monti del Parco Nazionale del Gran Paradiso. Senza dubbio questa operazione è corretta tanto sul piano faunistico quanto su quello dell’etica di un parco che si proponga di ricostruire un profilo zoologico-ambientale ancora presente non molti decenni prima. Tuttavia è anche lecito nutrire qualche perplessità sul successo di un’eventuale reintroduzione di questo predatore non certo gradito alla maggior parte dei valligiani., pastori, cacciatori e bracconieri. Sussiste insomma il rischio concreto che i riproduttori liberati nel parco vadano entro qualche anno a farsi sparare nelle aree confinanti, o vengano addirittura eliminati anche all’interno della zona protetta. Questo è tanto più probabile in quanto è necessaria una notevole estensione di foresta montana per garantire la vitalità biologica di un nucleo di linci: le poche reintroduzioni finora coronate da successo finora coronate da duraturo successo – che è quello che conta in una operazione faunistica di questo tipo - si sono infatti articolate su territori di almeno 100.000 ettari!
È certo che, precipua a ogni tentativo di reintroduzione din un predatore, debba comunque essere organizzata  una capillare campagna di convinzione e coinvolgimento  dell’elemento umano locale per avere qualche possibilità di successo.  Nell’Austria centrale, per esempio, la lince si estinse nel 1875, ma nel 1977 alcuni biologi dell’università di Gottinga ne tentarono la reintroduzione, liberandovi nove individui sotto l’egida ufficiale degli enti responsabili di Salisburgo, Storia e Carinzia. L’opposizione diretta e indiretta degli ambienti venatori fu ben presto palese: ogni volta che una lince o i relativi segni di presenza venivano avvistati in un’area, i cacciatori del posto davano inizio a intensi tentativi di bracconarla. La dispersione degli individui reintrodotti si dimostrò alta, mentre il tasso di riproduzione all’interno della zona di liberazione fu invece trascurabile. Così, nel complesso, alla lunga l’intera operazione si rivelò un costoso fallimento. […]
La sistematica di questi felini non è del tutto chiara: in Spagna vive una lince di minori dimensioni corporee, dal mantello più maculato, dotata di alcune particolarità craniche che la individuano come una specie, o sottospecie, a sé: “Lynx pardina”.
Essa sembra essere stata presente nell’Italia peninsulare già durante il Villafranchiano. Caratteri craniometrici la farebbero classificare come un’entità sistematica molto ben separata dalla lince comune (“L. lynx”), a cui risulta invece maggiormente affine la lince rossa nordamericana (“L. rufa”).
La forma che abita i Balcani è da alcuni zoologi attribuita a “pardina”, da qualche altro a “lynx”, e assolutamente nulla si conosce si quella che potrebbe essere vissuta sugli Appennini! Tuttavia, per analogia con altre entità faunistiche (ad esempio ilo camoscio e alcuni insetti) presenti nella penisola iberica e in quella italiana - e ben diverse dalle forme alpine - si può ipotizzare che la passata esistenza di “pardina” sugli Appennini sia tutt’altro che impossibile. D’altra parte non si può neppure escludere una forma meridionale di “L. lynx”, più piccola e maculata. Insomma, l’assenza di ogni reperto come pelli crani, altro materiale osseo, lascia aperto il campo a ogni ipotesi…
Per quanto concerne l’arco alpino invece non sussistono dubbi: si trattava di “L. lynx”, come dimostra ‘ampio materiale museo logico disponibile. […]
Nel complesso la lince è un felino schivo, di non facile avvistamento anche dive annovera densità numeriche piuttosto elevate. Tuttavia non sembra mostrare un’effettiva incompatibilità con la presenza umana, purché disponga di siti di riproduzione tranquilli e isolati.
A di là, comunque di ogni considerazione scientifica e tecnica sull’opportunità e probabilità di successo di una sua reintroduzione, in Italia, rimane il fatto incontrovertibile che la lince è un animale esteticamente stupendo, che un tempo ornava con la sua presenza i boschi del nostro Paese, da cui l’assurda caccia esercitata contro di essa l’ha pian piano eliminata, depauperando il patrimonio faunistico italiano di una delle entità di maggiore valore
L’ipotesi di un suo ritorno non può dunque che meritare la più seria ae attenta considerazione.»

Riassumendo.
Il genere «Lynx» si suddivide in quattro specie: la lince europea, chiamata anche cerviero o lupo cerviere («Lynx lynx», diffusa in tutta Europa, ad eccezione delle regioni più meridionali, e nella maggior parte dell’Asia); la lincea spagnola o pardina («Lynx pardinus»); la lince rossa americana, chiamata anche “bobcat” («Lynx rufus») e la lince canadese «Lynx candensis»). Ad esse si può aggiungere il caracal («Caracal caracal»), più piccola, diffusa dall’Asia occidentale all’Africa, sia a nord che a sud del Sahara; benché questo felino, un tempo considerato come una specie di lince, sia oggi ritenuto piuttosto l’esponente di un genere a sé stante.
La sottospecie alpina («Lynx lynx alpina») è oggi, probabilmente, estinta. In compenso, attualmente esiste una piccola ma relativamente stabile popolazione di linci in Friuli, nelle vallate delle Prealpi Giulie - del Natisone, del Torre, di Resia e nella Valcanale -, provenienti dalle foreste della vicina Slovenia e, più oltre, dai Balcani.
La lince europea, sottospecie carpatica, è presente anche nel Parco Nazionale del Gran Paradiso, in seguito a un progetto di ripopolamento che, però, ha dato finora risultati molto modesti. La lince appenninica, invece, appartenente alla sottospecie “pardina”, non si sa se esista ancora; forse una popolazione relitta di piccolissime dimensioni è sopravvissuta nei boschi più isolati dell’Appennino Centrale, ove pare fosse ancora presente verso gli anni ’30 del Novecento e dove, recentemente, si sono insediante  alcune coppie di lupi stanziali; ma la cosa non è certa. A parte ciò, la lince europea è presente nel Parco Nazionale D’Abruzzo, dove è stata introdotta dall’uomo.
Per finire, si può dire che la controversia sulla lince della Sardegna si sia conclusa con il riconoscimento che questo felino, nella grande isola mediterranea, non c’è mai stato, nonostante la segnalazione di Mola del 1908 - che avrebbe voluto farne una sottospecie a sé stante -, dato che non se ne sono trovati neppure i resti fossili. Pertanto, i suoi presunti avvistamenti si riferivano, quasi certamente, a qualche grosso esemplare di gatto selvatico («Felis lybica sarda»), introdotta nell’isola dall’Africa settentrionale in tempi storici, e precisamente per opera dei coloni fenici della non lontana Cartagine.
Che altro dire?
Fino a quando non emergeranno fatti nuovi, come ritrovamenti di resti fossili o, addirittura, di esemplari vivi, non siamo in grado di precisare quale forma di lince fosse quella che abitava i boschi dell’Appennino in epoca storica, se la specie europea o quella iberica.
La caccia indiscriminata, anche a mezzo di trappole ed esche avvelenate, e la progressiva distruzione dell’habitat di questo suggestivo felino - che deriva il suo nome dal mitologico Linceo e che ha ispirato il nome dell’Accademia dei Lincei, fondata nel 1603 da un gruppo di giovani entusiasti delle scienze naturali - ne ha messo gravemente in pericolo la sopravvivenza nel nostro Paese, dove la natura ed i suoi abitanti non sono, purtroppo, particolarmente amati.
Sarebbe un gesto di civiltà reintrodurlo, per quanto possibile, in alcune aree boschive delle Alpi e degli Appennini, in modo da far sì che il nostro massimo poeta, se potesse tornare a visitare i luoghi da lui cantati con la loro flora e fauna, non avesse un ulteriore motivo di rattristarsi per la scomparsa definitiva del felino con le orecchie sormontate dai caratteristici ciuffi di peli, che gli conferiscono un aspetto così nobile e strano.
Ci piace pensare che, incontrandolo nei boschi del Casentino, da lui cantati nei versi dell’immortale poema, al gran padre Dante si aprirebbe il viso in un sorriso di compiacimento: proprio a lui, che, invece, così spesso piegava le labbra in una smorfia di sdegno o di amarezza per il triste spettacolo degli incorreggibili vizi umani.