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L’ambiente ruderale offre una splendida occasione di riconquista alla vegetazione spontanea

di Francesco Lamendola - 21/06/2010

 

Non occorre andare a caccia di qualche sito di archeologia industriale, come vecchie fabbriche di tessitura o centrali idroelettriche abbandonate, per incontrare un ambiente ruderale: basta una cascina diroccata, una massicciata ferroviaria, perfino il bordo di una comune strada asfaltata: sono tutti luoghi ove l’intervento duraturo dell’uomo è entrato in contatto, senza farla scomparire del tutto, con la natura; luoghi che la natura, sotto forma di una vigorosa vegetazione spontanea, cerca continuamente di riprendersi.
Sono sufficienti pochi mesi di abbandono, perché il giardino di una villetta di periferia assuma l’aspetto di una piccola giungla; e sono sufficienti pochi anni di abbandono, perché un intero paese assuma l’aspetto fantastico di un luogo di fantasmi, con le fronde dei cespugli che penetrano dentro le orbite vuote delle finestre e ciuffi di ortiche, di bardana o di equiseti che popolano le strade di ciottoli e si spingano fin dentro le case dai tetti cadenti.
Di simili villaggi abbandonati, e in gran parte invasi dalla vegetazione, ne esistono parecchi nelle vallate alpine e prealpine; soltanto in Friuli ve ne sono diversi, a cominciare da Palcoda e San Vincenzo, nelle Prealpi Carniche; mentre i ruderi di antichi castelli dalle torri smozzicate, come quello di Caneva, nell’alto Livenza, o come quello di Collalto, nell’Alto Trevigiano, subiscono la medesima sorte.
In genere, simili luoghi suggeriscono malinconiche riflessioni sulla caducità delle cose umane e, magari, spingono il filosofo ad almanaccare sulla precarietà della nostra condizione; il poeta, poi, potrà infiorare i suoi versi con i classici elementi dell’orrido, del solitario, dei lontani tempi medievali; così come farà il pittore, visto che dal XVIII secolo si è diffuso un ghiotto filone iconografico, quello del “paesaggio con rovine”.
Tuttavia, come abbiamo detto, non è necessario scomodare né paesi abbandonati, né castelli in rovina, magari accompagnati da cupe leggende di anime in pena; ma è sufficiente qualche modesto edificio cittadino, qualche opificio dismesso, qualche cortile abbandonato, qualche orto o giardino non più coltivati, per vedere l’impetuosa rivincita della vegetazione spontanea sui segni orgogliosi della presenza e del lavoro umani.
Per molti di noi, nati e vissuti in città, quei luoghi un po’ fuori mano, un po’ abbandonati e fatiscenti, sovente popolati da gatti e da una variegata quantità di ospiti alati sui tetti e sui balconi pericolanti, hanno costituito il primo approccio con il mondo della natura; la prima occasione per andare a caccia di lucertole o di grilli, per imparare a distinguere una tuia da un cipresso dell’Arizona, un sambuco da un ailanto; oppure, semplicemente, per giocare a nascondino e per sognare esotiche avventure con i pellerossa.
Ma proviamo a spostare il nostro punto di vista, sempre così terribilmente antropocentrico, e sforziamoci, per quanto possibile, di guardare quegli ambienti ruderali dal punto di vista delle altre creature viventi, piante ed animali: per esse, il fatto che l’uomo abbia rinunciato ad esercitare una fettina del suo dominio sulle cose, è l’occasione per riprendersi quanto era stato loro sottratto, per rientrare in possesso di un territorio da cui erano state scacciate.
Scrivono Carlo Andreis, Enrico Banfi e Francesco Bracco nella eccellente enciclopedia naturalistica «Conoscere la natura d’Italia» (Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1983-85, vol. 8, pp. 42-48):

«… l’ambiente ruderale meridionale si evolve velocemente verso associazioni xerofiti che, simili a quelle naturali costituite in gran parte da graminacee annuali e da composite per lo più spinose, oppure degrada verso il suolo nudo; nella Padania invece col passare del tempo si possono formare via via vegetazioni più complesse, che, se indisturbate, innescano delle varie serie evolutive nel tentativo di ricostituire situazioni simili a quelle precedenti al disturbo.  Ciò è possibile a causa delle condizioni ambientali, spesso di tipo - quasi o totalmente - continentale, che permettono un progressivo accumulo di sostanza organica e formazione di humus: il che non può invece avvenire, o quasi, negli ambienti ruderali del sud, dati che tutto il materiale vegetale che cade al suolo non ha il tempo di degradarsi, ma viene subito “bruciato”, calcificato. L’evoluzione è dunque diversa (ricordiamo però che questo fatto non è esclusivo degli ambienti ruderali, ma di tutte le situazioni xeriche del Mediterraneo).
Ma torniamo alla Padania e ai suoi ambienti ruderali, non prima di aver rapidamente  ricapitolato ciò che significa “ambiente ruderale”. Possiamo dire ruderale un ambiente normalmente povero di sostanza organica, con scarichi di pietre, calcinacci, materiali dimessi, oppure bordi di strade, massicciate ferroviarie, oppure ancora legato all’abbandono di colture. A questi ambienti sono legate specie vegetali che appunto vengono indicate come “ruderali”, le quali, insieme alle specie infestanti, che normalmente dovrebbero essere più o meno nitrofile (cioè amanti di ambienti rcchi di sostanze azotate), costituiscono il gruppo delle specie “sinantropiche”, vale a dire condizionate dall’uomo e che lo seguono. Naturalmente ci si potrebbe chiedere dove vivevano queste piante, quando l’uomo non c’era.
Se andiamo a vedere, in natura riusciamo a trovare qualche cosa che somigli a quanto ora è più diffuso: può sembrare un paradosso cercare qualcosa di naturale che giustifichi situazioni sinantropiche assai più diffuse, ma questa è la realtà. Così possiamo considerare ruderale il ghiaione di un’ansa di fiume dove si forma una vegetazione simile a quella che si presenta nelle discariche cittadine, tratti di duna disturbata da eventi naturali che determinano l’insediarsi di specie diverse dalla norma in modo caotico, uno sfasciume di roccia coperto da vegetazione incoerente. Molto comune, poi, è la ruderizzazione dei campi coltivati: senza arrivare all’abbandono, molti terreni vengono sfruttati in modo esagerato e impoveriti; le specie presenti, anno dopo anno, da infestanti nitrofile diventano ruderali che si adattano a vivere in situazioni estremamente povere; alcune, come la gramigna (“Cynodon dactylon”), scompaiono in seguito a opportune concimazioni. […]
Già dal secondo anno di abbandono o di non utilizzazione, però, la flora infestante, che pur sempre è legata alle colture e a un periodico rimescolamento del terreno, tende a rarefarsi cedendo il passo a specie ruderali [gramigna, piantaggine, bardana,  equiseto, convolvolo, topinambur, farfaraccio, amaranto, ortica, prugnolo, papavero, ecc.].
Ma anche il tipicvo ambiente ruderale non ha vita lunga: come in tutte le situazioni già viste dove non ci sia un’azione condizionatrice continua (vedi le ferrovie), l’evoluzione porta a vegetazioni erbacee di tipo prativo o a boscaglie che potrebbero precorrere, come già notato, il bosco, che in questo caso, potrebbe anche formarsi. Ad esempio, nelle coltivazioni di pioppo diffuse in tutta la zona padana, si verifica la stessa successione di situazioni e alla fine, quando vengono interrotte le varie arature e sarchiature, prima si insedia una vegetazione ruderale e poi, lentamente, una boscaglia con gli elementi del bosco planiziario comprendente talora anche cespugli di farnia (“Quercus robur”): tutto un complesso che, se non avvenissero il taglio del pioppo e un successivo dissodamento, potrebbero proprio portare al bosco misto di farnia e altre piante caducifoglie.
Da tutto questo emerge quindi l’importanza dei luoghi ruderali non solo come “banca dei semi”, cioè come luogo di riserva di vegetali tra i più disparati, oltre a quelli tipici, ma anche di condensazione, di riunione di elementi utili per una ricostituzione delle formazioni-climax potenziali della regione.
Si è accennato all’inizio al problema dell’esistenza degli ambienti ruderali, quando l’uomo non dava fastidio; un caso abbastanza tipico è quello degli ambienti sabbiosi dunali, dove nella vegetazione “normale” si insediano abbondantemente alcune lappole (“Xanthium italicum” e “X. Summarium”), forbicine (“Bidens spp.”) e la persicaria (“Polygonum persicaria”), oppure le anse dei fiumi, dove, sulle sabbie o sulle ghiaie, si formano popolamenti di “Xanthium strumarium”), o di topinambur e persicarie. Se bene osserviamo, spesso però si tratta di piante estranee alla flora spontanea locale, e introdotte in tempi storici. Quindi per concludere possiamo notare che diverso è il concetto di ambiente ruderale rispetto a quello di specie ruderali. In un ambiente ruderale non troviamo solo le specie strettamente ruderali, ma molte altre che si comportano “anche” da ruderali, cioè le meno esigenti della flora spontanea, e tante altre che trovano qui condizioni sufficienti per vivervi, almeno per un certo periodo.
È questo che fa dei luoghi ruderali una sorta di riserva genetica, dalla quale molte specie sono pronte al balzo di conquista di nuovi ambienti.»

L’ambiente ruderale, dunque, costituisce un importante tassello dell’evoluzione paesaggistica. Come abbiamo visto, la vegetazione disordinata che vi si insedia nei primi tempi, cede ben presto il passo a delle forme di popolamento più graduali e metodiche, che tendono a riportare l’ambiente naturale nelle condizioni precedenti l’insediamento umano.
In questo senso, il paesaggio vegetale degli ambienti ruderali non è che un elemento transitorio, destinato ad essere soppiantato da una vegetazione stabile perfettamente coerente e integrata nei suoi vari aspetti; così come lo è, per esempio, la vegetazione di una foresta, dopo che un incendio abbia distrutto le antiche piante e creato spazio per una seconda invasione; oppure, in forme meno drammatiche, quando gli alberi più vecchi, mano a mano che cadono e vengono decomposti dagli organismi in ciò specializzati, vengono rimpiazzati da alberi e arbusti più giovani: un po’ come il paesaggio di una città cambia insensibilmente, via via che gli edifici più vecchi vengono abbattuti e sostituiti da moderne costruzioni.
Certo, non sempre le cose sono così semplici; perché, come si è detto, molte specie esotiche sono state introdotte, per svariate ragioni nel paesaggio vegetale originario; e, quando un ambiente antropizzato regredisce e crea spazio per un “ritorno” della vegetazione spontanea, sono spesso proprio le specie esotiche, meglio attrezzate dal punto di vista riproduttivo, ad occupare il terreno così liberatosi. E gli effetti non sempre sono soddisfacenti.
Per esempio, in prossimità del paese di Refrontolo, sulle colline viticole della zona di Pieve di Soligo, alcune palme, introdotte poco meno di un secolo fa, hanno trovato le condizioni propizie per espandersi, proprio a partire dall’edificio abbandonato presso il quale erano state piantate; e, risalendo il letto di un torrente coperto da un ombroso sottobosco, si sono alquanto diffuse - complice forse anche il cambiamento climatico degli ultimi anni, con inverni relativamente miti ed estati sempre più calde e secche -, conferendo al paesaggio un aspetto tropicale alquanto incongruo, data la promiscuità con altre essenze vegetali tipiche delle zone collinari pedemontane del Nord Italia e perfino con abeti rossi.
Così, ad esempio, il topinambur, detto anche patata americana o patata del Canada, è divenuto ormai un elemento tipico del paesaggio ruderale nonché degli argini dei fiumi; mentre gli equiseti o code di cavallo sono, da sempre, elementi caratteristici degli ambienti umidi e preferibilmente ombrosi. Specie indigene e specie esotiche più antiche convivono ormai in relativa armonia; succede, peraltro, che le specie esotiche di recente importazione siano accompagnate anche dai relativi parassiti, rispetto ai quali la flora locale non possiede sufficienti difese ed è, pertanto, destinata a soccombere.
In ogni caso, tutto dipende dalla ricchezza dell’humus, in presenza di specifiche condizioni climatiche e specialmente pluviometriche. Mentre nell’Italia meridionale il materiale organico viene distrutto al suolo in maniera molto rapida, in quella settentrionale il processo avviene più lentamente e ciò consente la formazione di uno strato di terreno azotato su cui può insediarsi una ricca vegetazione pioniera, aprendo la strada al ritorno graduale del paesaggio vegetale verso la situazione che esisteva prima dell’insediamento delle attività umane.
Perfino gli ambienti artificiali più invasivi, come grandi opere stradali, complessi industriali, aeroporti e ferrovie, possono essere riconquistati vittoriosamente dalla vegetazione spontanea in tempi inaspettatamente brevi.
La natura possiede risorse poderose e inaspettate, rispetto alle quali la presenza umana, anche se così a noi non sembra, non è che un temporaneo incidente, destinato a passare come una meteora, così come è incominciato.
Chi voglia immaginarsi come saranno le grandi metropoli odierne fra qualche migliaio di anni - il che, in termini naturalistici, è un tempo assai breve - non ha che da fare una escursione ad Angkor Vat, l’antica capitale khmer; o nelle città maya dello Yucatan, con le loro superbe architetture sacre; o anche, più semplicemente, alla campagna nei pressi di Aquileia, dove un tempo sorgeva una delle maggiori città d’Italia e di tutto l’Impero Romano.
Certo, le scorie radioattive possono contaminare un luogo per molte migliaia d’anni; tuttavia, neppure le peggiori ferite che lo sviluppo industriale e tecnologico ha inferto alla natura, sono veramente mortali. Noi crediamo il contrario, abituati come siamo a commisurare ogni cosa sulla insignificante scala temporale delle nostre vite e di quella che noi, orgogliosamente, chiamiamo la storia.
Tuttavia, riflettendo sul semplice fatto che alcuni grandi alberi tuttora viventi in Italia, levavano già le loro chiome al cielo quando Michelangelo costruiva la cupola di San Pietro e quando Marco Polo partiva da Venezia per le terre remote del Gran Khan, un sentimento di doverosa e salutare umiltà dovrebbe pervaderci; e ricordarci, al tempo stesso, che noi siamo soltanto degli ospiti dell’ultima ora sul pianeta Terra, ospiti che dovranno lasciare il posto ad altre specie viventi, quando se ne saranno andati.