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Crisi sistemica e ideologie economicistiche

di Mauro Tozzato - 21/06/2010



Robert Skidelsky, professore emerito di economia politica all'università di Warwick, in un articolo su Il Sole 24 Ore del 19.06.2010 esprime in maniera sintetica l’attuale contrasto tra neokeynesiani e neoliberisti sulle politiche economiche portate avanti dai paesi “occidentali” in seguito all’aumento dei deficit e dei debiti pubblici:
<<Se il risanamento dei conti pubblici si dimostrerà la via maestra per la ripresa e una crescita rapida, allora potremo anche seppellire Keynes una volta per tutte. Se al contrario i mercati finanziari e i loro portabandiera politici si riveleranno degli "asini matricolati" come pensava Keynes, allora bisognerà prendere di petto la sfida, che rappresenta per il buon governo, il potere finanziario.>>

Giovanni Mazzetti, uno dei 100 firmatari della Lettera degli economisti e professore associato di economia politica all'università della Calabria, sviluppa le tesi neokeynesiane sino alle estreme conseguenze:
<<Credo che le prospettive future siano molto peggiori del "double-dip"[…] Considero i tagli di spesa non come causa dei problemi futuri ma solo come sintomo di una situazione ormai indirizzata verso la catastrofe. L'attività produttiva è sostenuta dalla spesa pubblica e questa si può tagliare solo se c'è la certezza che subentrerà la spesa privata. Ma chi, oggi, può essere certo di ciò? Come in una giaculatoria, si fa appello alla crescita per superare la crisi e risolvere i problemi dei bilanci pubblici. Ma la crescita non si ottiene con pratiche divinatorie: dipende dalla spesa. Keynes lo aveva detto già 80 anni fa : "La spesa di un individuo è il reddito di un altro individuo". Senza spesa non c'è la creazione del lavoro che manca o la riproduzione del lavoro che c'è già.>>
A proposito dei  timori per il double-dip, ovverosia per la “doppia caduta” in recessione (andamento a W), bisogna dire che risulta ancora abbastanza diffuso tanto che, alcuni giorni fa, lo stesso Bernanke con una dichiarazione pubblica ha tentato di rassicurare mercati e governi:
<<Il Presidente della Federal Reserve in una intervista ha tentato di allontanare i timori che si erano riacutizzati dopo il dato sul mercato occupazionale americano che aveva messo un luce un aumento modesto dei posti di lavoro.
Bernanke ha ripetuto che non c'è nessuna ricaduta in recessione dietro l'angolo, sottolineando come le spese dei consumatori e gli investimenti siano sostenuti a sufficienza per garantire un percorso di crescita dell'economia Usa, pur se con un ritmo relativamente moderato.
I due grandi limiti alla crescita, ha aggiunto Bernanke, sono il mercato del lavoro e la persistente fragilità del settore bancario.
Quanto alla crisi europea, Bernanke ha sottolineato che la FED sta guardando con molta attenzione all'evolversi della situazione, ma non ha precisato quali impatti potrebbero esserci sull'economia statunitense. In ogni caso, il problema della riduzione del deficit è presente anche per gli Stati Uniti, ma non nel breve termine.>>
A proposito della lettera dei 100 economisti si è espresso in maniera decisamente contraria  Francesco Daveri, professore ordinario di politica economica all'Università di Parma e docente al master della Sda Bocconi:
 <<Non sono così pessimista. La lettera dei 100 economisti contiene elementi keynesiani fuori luogo. Per esempio non tiene conto che alcuni paesi hanno rapporti debito/pil superiori al 100 per cento. Gli aggiustamenti delle finanze pubbliche andavano fatti. La Germania avrebbe potuto evitare i tagli in questa fase, in contemporanea con gli altri paesi. Il problema è che Angela Merkel, con la coalizione che si è spostata a destra, ha dovuto cedere al tema tradizionale del rigorismo a cui il suo elettorato è molto sensibile, e ha in qualche modo rinunciato all'eredità europeista del suo padre politico, Helmut Kohl.[…] Kohl era più disponibile alle richieste dei partner europei perché lui stesso aveva qualcosa da chiedere, impegnato com'era nella riunificazione. Oggi non è così e la Merkel può permettersi di indicare la strada al resto dell'euro zona: il recupero di competitività verso il resto del mondo perchè è lì fuori che c'è il mercato, lì c'è il futuro. In questo la Germania dimostra di essere lungimirante.>>
Daveri, inoltre, mette in rilievo - probabilmente con buone ragioni - che in presenza di una politica monetaria espansiva e del deprezzamento dell'euro, non ci saranno contraccolpi  così negativi come temono alcuni. In effetti non esiste alcuna certezza che tra un anno o due la situazione dell'economia sarà migliore tanto da permettere un risanamento più agevole delle finanze pubbliche. I tagli fatti oggi, quindi, potrebbero consentire ai paesi della zona euro di riconquistare la “fiducia” dei mercati finanziari (per usare il linguaggio degli’”economisti”). Daveri conclude affermando che:
<< È vero che la ripresa in questa fase passa soprattutto dall'export, ma il recupero di fiducia attraverso una gestione più ordinata dei bilanci pubblici crea senza dubbio un clima favorevole agli investimenti.>>
Ovviamente, come più volte ricordato su questo blog, non consideriamo l’alternativa tra neokeynesiani e neoliberisti come dirimente per l’andamento della crisi politico-economica in corso. Abbiamo più volte ribadito i limiti di una lettura economicista  dello sviluppo storico-sociale ma riteniamo sintomatico per la comprensione della conflittualità politica e geopolitica dell’attuale fase anche questo tipo di dibattito tra “correnti” teorico-ideologiche dell’”economica” ortodossa. La tematica della fiducia in campo economico deve, inoltre, essere considerata prevalentemente come uno sviluppo e secolarizzazione della fede calvinista nella pre-destinazione riguardo agli esiti economico-sociali dello sviluppo capitalistico. Tanto più saremo operosi e ci impegneremo, altrettanto aumenteranno le nostre probabilità di avere successo e quindi di dimostrare la nostra “predestinazione” a esso. Ma questo deve essere valido per tutti gli “operatori” - sia nelle formazioni sociali “particolari” come in quella globale – che devono, ognuno per quanto gli compete, attivarsi per rilanciare lo sviluppo dando “fiducia” e ricevendo, allo stesso tempo in cambio, altrettanta “fiducia”. Naturalmente la nostra “visione” che pone al centro il conflitto strategico non vede per nulla farsi avanti  “armoniose collaborazioni” tra soggetti economici come del resto non nutriamo sicure aspettative dall’azione della “mano invisibile” dell’ordine esteso di mercato (Hayek); certamente la “scuola austriaca” porta avanti una visione del mondo più realistica di quella proposta dai suoi oppositori ma per quanto ci riguarda essa esprime le idee di gruppi dominanti con i quali siamo in contrasto se non altro per la prospettiva di autonomia e di “interessi” nazionali ai quali facciamo attualmente  riferimento in termini di fase. Per concludere provo ad accennare brevemente ad una questione che riguarda la manovra economica che il nostro governo sta per approvare. Mi tocca partire da un lungo estratto ricavato da un articolo di Angelo Miglietta e Mario Rey, i quali scrivono (sul Sole 24 ore del 19.06.2010):
 <<Iniziamo dalla riduzione della spesa pubblica per trasferimenti o per pagamenti di salari e stipendi. Sono ben diverse le conseguenze a seconda del livello di reddito su cui s'interviene. Mentre infatti le conseguenze di una riduzione di stipendi elevati sono molto modeste sui consumi (sono infatti un elemento di equità, non d'impatto macro-economico), così non è per i livelli bassi, visto lo spazio già ridotto dei salari di partenza, dove pressoché nullo è lo spazio dei risparmi. La conseguenza di queste decisioni generalizzate è dunque quella dell'avvio della deflazione, che unanimemente viene ritenuto il male più grave di una società, come il caso ventennale del Giappone dimostra. In questo senso possiamo quindi osservare che le decisioni prese in Italia, proprio perché incidono su fasce medio-alte, correttamente avranno un impatto ridotto sulla crescita economica e, anzi, favorendo la riduzione del deficit, potrebbero portare al miglioramento delle condizioni generali del sistema.
Senza dire dell'aspetto più importante, anche se economicamente non di rilievo diretto, che è l'impatto sulla coesione sociale e la qualità della vita delle persone. Queste considerazioni si possono utilmente applicare anche alle decisioni fiscali. Pur osservando che l'aumento della pressione fiscale è sempre un fatto negativo per un sistema economico oltre una soglia iniziale (per gli effetti di distruzione di ricchezza che si accompagnano alla crescita della spesa pubblica), è chiaro che l'impatto negativo sui consumi per un aumento delle aliquote fiscali è più contenuto per i redditi più elevati.>>
Il discorso sembrerebbe filare abbastanza ma sono i fatti che mi sembrano in contrasto con questi “pacati e sensati” ragionamenti. Il blocco totale delle contrattazioni nazionali e decentrate della pubblica amministrazione e quindi degli stipendi pubblici a medio-basso reddito fino al 2013 (per cui la retribuzione non potrà aumentare nemmeno di un euro rispetto al 2010) si ripercuoterà naturalmente anche sui lavoratori (non solo dipendenti) dei settori privati. Difficilmente ci saranno accordi contrattuali “reali” considerando che già di per sé l’aumento della disoccupazione e della cassa integrazione (oltre che del precariato) renderà fisiologico il “blocco” dei redditi medio-bassi; per Miglietta e Rey invece le fasce coi redditi inferiori non saranno colpite e la manovra risulta tutto sommato equa. Per ora concludiamo con questo interrogativo aspettando i prossimi sviluppi.