De-crescita, l’antimondo nel prefisso

La crescita economica è infinita e infinitamente benefica? Il benessere che ne consegue per le società del mondo avanzato - che pure attraversano una fase di crisi, qui, nell’Occidente - è benessere per tutti i popoli del pianeta e per l’ecosistema Terra? Qualcuno, criticato come utopista da chi crede nella bontà della crescita, magari resa “sostenibile”, parla da un po’ di tempo di “decrescita”. Un piccolo prefisso, quel “de-”, molto in… crescita nella nostra lingua. 

Siamo in tempi di crisi e, tra le strette che in vario modo vengono annunciate e determinate in Europa e in casa nostra dalle decisioni degli organi di governo della politica e dell’economia e i mutamenti nel comportamento medio di chi acquista (si sta più attenti, si cerca di risparmiare, di non privilegiare per forza il marchio costoso), si tenta da più parti di rilanciare l’idea di correttivi al modello di crescita economica che ha trainato le società avanzate negli ultimi decenni. Si parla di sviluppo sostenibile e di economia verde - il disastro della Bp nel Golfo del Messico sembrerebbe confermarne la necessità, pur sconfessando, nei fatti, entrambi. 

Cinquecento economisti riuniti nella Seconda Conferenza Internazionale sulla decrescita di Barcellona (26-29 marzo 2010 http://www.degrowth.eu/v1/) sono tornati a porre l’accento su un’ipotesi politico-economica, non priva di risvolti filosofici, che ha trovato negli ultimi anni soprattutto nel pensiero e nell’opera dell’economista e filosofo francese Serge Latouche i propri punti di riferimento.

Il concetto di decrescita, come messa in discussione radicale dell’idea di crescita illimitata presentata come unico criterio di razionalità possibile, ha trovato anche in Italia seguaci ed elaboratori (riuniti, per esempio, nell’Associazione per la decrescita http://www.decrescita.it/joomla/ e nel Movimento per la decrescita felice http://www.decrescitafelice.it/) nel mondo del volontariato eco-pacifista, del commercio equo e solidale, di certo pensiero cattolico e tra alcuni intellettuali ed economisti critici.

Più che entrare nel merito delle concezioni espresse da Latouche (e da altri) in una consistente bibliografia, si coglieranno alcuni elementi linguistici che sono spie di necessità comunicative precise. Una preoccupazione di chi è fautore della decrescita è di non passare per intransigente pauperista, pur rivendicando la piena necessità e opportunità di richiamarsi a un pensiero e a una pratica di vita fondati, nell’economia, sull’austerità e, nel modo di pensare, su valori etici di solidarietà e dettami interiori di spiritualità.  

Il pauperismo evoca idee di uggiosa rinuncia. La rinuncia, anche se per forza di cose implicata dal pensiero della decrescita, non è slogan accattivante. Ecco perché la decrescita da Latouche è presentata come serena (Petit traité de la décroissance sereine, 2007; it. 2008), quella di Maurizio Pallante addirittura come felice (La decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal PIL, 2005).  Nel citato sito del Movimento per la decrescita felice, anche la scelta del simbolo del movimento è significativa: l’ape Pilli, pupazzesca e sorridente, che «1. è laboriosa 2. ha bisogno di un ambiente pulito 3. con l’impollinazione favorisce la biodiversità 4. autoproduce il suo cibo e le sue medicine 5. costruisce la sua casa con una geometria perfetta 6. rifiuta di nutrirsi con piante geneticamente modificate 7. vive in comunità collaborando con le sue simili 8. se si sente minacciata si difende col pungiglione ben sapendo che è a costo della vita 9. prende l’iniziativa adeguata, utile per la comunità, senza bisogno di esempio o di ordini».

Proprio tutto il contrario delle più celebri api cui guarda il pensiero del liberismo economico dal Settecento a oggi, cioè le api protagoniste della durissima operetta del medico olandese Bernard de Mandeville, La favola delle api, vizi privati e pubblici benefici (1705), apologo di un alveare ricco e prospero finché i comportamenti dei suoi abitanti sono improntati all’egoismo ed alla corruzione, destinato a decadere rapidamente in seguito alla perdita di ogni spirito d’iniziativa, dovuta all’introduzione delle virtù morali della frugalità e dell’onestà.   Venendo all’aspetto lessicale della questione, notiamo come decrescita, nel suo significato generale di ‘diminuzione o inversione della crescita’ è attestato nella nostra lingua sin dal 1962; la specializzazione semantica che ci interessa è, invece, sopraggiunta nei primi anni del nuovo secolo.

Lo stesso vale per la specializzazione di décroissance (francese), degrowth (inglese), decrecimiento (spagnolo castigliano). Decrescita si inserisce in una serie di prefissati con de- chilometrica e potenzialmente infinita, formati a partire da verbi (nella maggioranza dei casi), sostantivi e aggettivi. Questo de- era già ben noto e usato per creare parole nuove ai tempi dei nostri padri latini. Aveva e ha valore di allontanamento, abbassamento, movimento dall’alto verso il basso; «ha, tra gli altri, valore genericamente privativo, e in questo senso è molto usato nella lingua contemporanea […] indica separazione, sottrazione, diminuzione di quanto è indicato dal verbo o sostantivo stesso.

Particolarmente rappresentativo il caso in cui tale prefisso viene premesso a sostantivi femminili terminanti con il suffisso -izzazione». Puntuale, quest’ultima annotazione della studiosa Augusta Forconi: spulciando nel volume Il Vocabolario Treccani. Neologismi. Parole nuove dai giornali (Istituto della Enciclopedia Italiana, 2008), che raccoglie parole nuove nell’arco del decennio 1998-2008, si nota come su 32 sostantivi e aggettivi prefissati con de-, ben 15, praticamente la metà, siano sostantivi in -izzazione; mentre in -zione esce il vocabolo deregolazione (che ricalca l’inglese deregulation), liberisticamente agli antipodi di decrescita.  

Il lemma decréscita sostantivo femminile [derivato di crescita, con il prefisso de-]. 1. Diminuzione o inversione della crescita; decremento. 2. Concezione politica, economica e sociale che, mettendo in discussione radicalmente l’idea universalistica che la crescita trainata dalle economie sviluppate produca sempre e per tutti effetti positivi a lungo termine, propone un modello di sviluppo basato sulla riduzione dei consumi e sull’autoproduzione e autoconsumo dei beni.   Elaborato dalla redazione di “Lingua italiana” del Portale Treccani  

Esempi d’uso  

Una decrescita sostenibile - e, se si potesse, felice - significa comunque una serie di rinunce che dovrebbero essere decise spontaneamente da quella parte del mondo che si avvantaggia dell’attuale situazione, ragione per cui appare una possibilità piuttosto remota. Mario Tozzi, «La Stampa», 7 giugno 2007   […]

una sparuta e combattiva pattuglia di economisti ha messo in discussione il concetto della crescita economica all’infinito. Qui il discorso si farebbe lungo: molti dei problemi posti da questi studiosi sono senza dubbio reali, ma io - personalmente - non me la sento di tifare per la decrescita. Luca Cifoni, http://www.ilmessaggero.it/, 11 maggio 2009  

Dall’autore del Breve trattato sulla decrescita economica [sic], ecco un saggio di interrogazione sul terreno di una delle “invenzioni” cruciali della modernità. Come si è formato il nostro “immaginario economico”, la nostra visione economica del mondo? Perché oggi vediamo il mondo attraverso i prismi dell’utilità, del lavoro, della concorrenza, della crescita illimitata? http://www.secoloditalia.it/, 11 gennaio 2010  

Nella riflessione di Latouche sono assemblati materiali diversi, dall’ecologismo al feticismo della merce di marxiana memoria, dall’uomo unidimensionale di Herbert Marcuse fino al localismo. Il risultato è che viene vagheggiata un’umanità che prenda la strada della decrescita, rinunciando ai frutti del lavoro e della creatività, e nemmeno vi è il sospetto che, se tale idea fosse accolta, larga parte del genere umano scomparirebbe. Per nutrire e curare quanti popolano la terra c’è infatti necessità dei benefici derivanti da quell’integrazione economica che Latouche tanto disprezza. Carlo Lottieri, http://www.ilgiornale.it/, 14 febbraio 2010  

Ricorriamo alla decrescita? Ma nel contesto dato non può funzionare. Se nemmeno la crescita assicura di per sé né l’aumento dell’occupazione né quello dei salari e degli stipendi, figuriamoci la decrescita! Essa è indispensabile ma può verificarsi solo come effetto collaterale del passaggio ad economie alternative a quella capitalistica, perché come avverte Edgar Lander: «Non è possibile un capitalismo della crescita zero e ancor meno un capitalismo della decrescita» poiché, per dirlo con Frassineti, «il capitalismo si inebetisce se non cresce sempre più: o accumula o muore». Nino Lisi, http://www.ilmanifesto.it/, 28 maggio 2010