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Il problema del “limite”

di Stefano di Ludovico - 28/06/2010

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Volendo individuare il problema principe dell’attuale modello di sviluppo, problema del quale sempre più le future generazioni dovranno gioca forza farsi carico, questo può essere certamente visto nella questione del “limite”, ovvero del limite da porre allo sviluppo medesimo, dell’argine che, in un modo o nell’altro, dovrà porsi alle crescita indefinita dell’apparato tecno-capitalistico il quale, assurto a modello di civiltà dall’Occidente agli arbori dell’età moderna, è oggi fatto proprio dall’intera umanità. Da diversi decenni a questa parte ormai, la consapevolezza e la conseguente denuncia dei rischi a cui uno sviluppo incontrollato e illimitato può portare sono entrate a far parte dell’immaginario comune, così come le pratiche volte a porre rimedio a simile negativa prospettiva entrate a far parte dell’agenda politica di qualsivoglia istituzione o consesso organizzato, a livello nazionale come internazionale. Qual è il problema? Di cosa ci si lamenta e cosa si denuncia alla fine?

Innanzi tutto – ed è la risposta tipica di quelle prospettive o tendenze che, in generale, possiamo qualificare come “ambientaliste” – pare che tale modello di sviluppo, fondato com’è sullo sfruttamento intensivo di risorse naturali destinate prima o poi all’esaurimento e, più in generale, sulla ricerca dell’utile come motore stesso dello sviluppo – motore quindi di per sé indifferente all’impatto ambientale del suo procedere – stia portando l’umanità lancia in resta verso il suo stesso suicidio, una volta che l’habitat all’interno del quale tale modello è nato e si è sviluppato non avrà più niente da offrire ai suoi sfruttatori o sarà diventato completamente inospitale per i suoi abitanti così poco rispettosi della casa comune nella quale hanno finora vissuto. Com’è evidente, tale prospettiva resta in fin dei conti interna al modello tecnocratico stesso di cui pur si denunciano i pericoli: l’apparato non funziona bene, porta all’esaurimento delle risorse e devasta l’habitat medesimo dello sviluppo; bisogna quindi porre dei rimedi e trovare soluzioni alternative. Da qui le celebri formule dello “sviluppo sostenibile”, della “crescita compatibile”, del “capitalismo temperato” che ormai sono sulla bocca di tutti. In pratica non si contestano i fini dell’attuale modello di civiltà – fini che per tali prospettive restano pur sempre confinati entro la dimensione “tecno-economica” dell’esistenza, per cui l’unico scopo che l’uomo e quindi la società dovrebbero porsi sono il benessere, il comfort e la sicurezza materiale sempre maggiori ed estesi a un numero sempre maggiore di individui nel mondo – ma se ne contestano soltanto i mezzi. Anzi, l’attuale modello viene criticato proprio perché sembra non saper garantire più quei fini che pur si era proposto – o garantirli solo ad una minoranza di privilegiati –; quindi il modello va modificato, “migliorato”, o nel caso anche completamente cambiato, proprio perché quella garanzia non sia messa in pericolo. Non è una critica al sistema stesso, ma alla sua “funzionalità”, per cui se in teoria il sistema riuscisse a trovare al suo interno, nei suoi stessi parametri di riferimento, le soluzioni più adeguate per evitare la catastrofe annunciata – soluzioni che molti apologeti dell’attuale sistema garantiscono come possibili, essendo nella natura stessa dell’apparato tecnico il sapersi “migliorare” indefinitamente – la critica “ambientalista” non avrebbe più ragion d’essere.

Accanto alle suddette critiche per così dire interne al sistema stesso, negli ultimi tempi si sono andate però affermando prospettive di diverso tipo, che, almeno all’apparenza, hanno cercato di mettere in discussione i fondamenti stessi del modello di sviluppo attuale, ovvero l’orizzonte e quindi le finalità puramente tecno-economiche della civiltà moderna, fondamenti che, al di là dell’eventuale mancata garanzia dello stesso benessere materiale, stanno rischiando di ridurre l’uomo a mero ingranaggio di un apparato produttivo fine a se stesso e quindi di snaturare la sua reale essenza, che certo non può ridursi alla sua sola dimensione tecno-economica. Se quindi la prospettiva ambientalista si limita a denunciare i pericoli per la stessa sopravvivenza materiale del genere umano, quest’ultima tende a sottolineare innanzi tutto il carattere “alienante” dell’attuale modello di sviluppo, modello che, esaltando solo la dimensione tecno-economica dell’esistenza e subordinando ad essa l’intera vita alienerebbe l’uomo dalla sua vera natura. Questo tipo di critica connota ad esempio la cosiddetta filosofia della “decrescita”, che vede in Serge Latouche uno dei suoi padri fondatori nonché maggiori sostenitori e divulgatori. Per lo studioso francese infatti non si tratta tanto di mettere in discussione i “mezzi” dell’attuale modello di sviluppo, ma piuttosto i suoi stessi fini, in quanto è l’immagine stessa dell’homo oeconomicus o homo faber che dir si voglia – immagine su cui tale modello si impernia – che deve essere superata per recuperare una dimensione più completa e autentica dell’essere umano. Se così è, la critica non va portata solo sul piano tecno-economico, ma – molto più profondamente e incisivamente – su quello culturale, delle mentalità e, per usare un’espressione cara allo stesso Latouche, dell’“immaginario”: il vero problema non è “limitare”, far “decrescere” un modello di sviluppo che lungi dal garantire benessere e sicurezza a tutti rischia di portarci, per una sorta di eterogenesi dei fini rispetto ai suoi stessi intenti, al suicidio collettivo, ma liberare l’uomo dalla convinzione, sedimentatasi nella sua mente nel corso di secoli di ideologia tecno-economicistica imperante, che l’orizzonte materiale sia appunto l’unico orizzonte di vita possibile e giustificabile, convinzione che rappresenta il vero “limite” da superare. “Far uscire il martello economico dalla testa”: questo, secondo una celebre espressione di Latouche, il reale obiettivo di tale filosofia, per cui quella della “decrescita” più che una battaglia tecno-economica è innanzi tutto una battaglia culturale tout-court, che investe l’uomo nella sua globalità, in quanto è proprio la sua dimensione globale ad essere stata oscurata dal pregiudizio tecno-economicista della modernità. Del resto tali istanze fanno capolino anche in alcune delle componenti più radicali dello stesso ambientalismo – definite non a caso dell’“ecologia profonda” – in cui la rivendicazione di un diverso rapporto tra l’uomo e l’ambiente più che alla sola necessità di evitare possibili catastrofi materiali persistendo l’attuale modello di sviluppo è dovuta soprattutto al bisogno di recuperare stili di vita più autentici e meno alienanti rispetto a quelli a cui ci costringe la megamacchina tecno-economica.

Ma anche di fronte a tali prospettive propugnanti il superamento totale del modello dominante, se chiediamo ai sostenitori della “decrescita” o dell’ecologia profonda qual è questa visione globale, questa dimensione più autentica dell’uomo in base a cui si dovrebbero porre limiti alla “crescita”, le risposte non appaiono sempre convincenti. Se è in nome di “altro”, ovvero di altri orizzonti esistenziali e di altre visioni del mondo che l’attuale modello di sviluppo deve essere messo in discussione, è questo altro che anche e soprattutto dovrebbe essere individuato e definito. Eppure qui i discorsi si fanno spesso incerti e vaghi: il più delle volte ci si limita ad avanzare mere questioni di natura morale, o di tipo socio-relazionale, o, ancora, psicologico, nel senso che un immaginario liberato dal “martello” economico dovrebbe portare al recupero di istanze etiche, conviviali e di benessere psico-fisico soprattutto nel rapporto con i nostri simili e l’ambiente che ci circonda in genere, istanze che la paranoia sviluppista di cui siamo tutti vittime ha inibito quasi completamente. Anche quando ci si sposta su piani ed esigenze che intendono davvero trascendere dimensioni esistenziali che restano in ultima analisi confinate ad una visione puramente materiale dell’esistenza, il più delle volte il discorso sembra limitarsi a richiami ad una spiritualità alquanto confusa e nebulosa, spesso improvvisata o dalle origini incerte e le più disparate, secondo quel modello di “religione fai da te” così diffuso al mondo d’oggi che della vera e autentica spiritualità altro non rappresenta che una grottesca quanto inquietante caricatura. Di fronte a simili forme di spiritualità, l’impressione che in fin dei conti non si riesca davvero a superare l’orizzonte profano e secolare che del modello sviluppista tecno-economico costituisce il vero fondamento è difficile da evitare. Alla fine, dunque, anche al cospetto dei sostenitori della “decrescita”, dei fautori di un mondo “altro” rispetto a quello del dominio dell’economia sembra lecito domandarsi: ma “decrescere” in nome di cosa? “Decrescere” perché?

A tal proposito appare interessante porre attenzione a questa circostanza: non è raro trovare all’interno delle prospettive critiche su citate richiami e suggestioni di tipo antimoderno, ovvero elogi alle società del passato che, a differenza della nostra, avrebbero avuto un preciso senso del “limite”, società quindi immuni dai rischi a cui invece sta andando incontro l’umanità presente. L’uomo delle civiltà tradizionali – si sente spesso dire – viveva in armonia con la natura, la rispettava, aveva insomma una chiara “coscienza ecologica”, a differenza dell’uomo moderno che, accecato dal dogma produttivista, ha rotto quell’armonia avviandosi verso la sua stessa rovina. In verità nessuna civiltà tradizionale ha mai avuto una “coscienza ecologica”, si è mai posta il problema del “rispetto dell’ambiente” o di attuare una “decrescita” programmata dell’economia, essendo questi costrutti mentali e ideologici tipici del nostro tempo e completamente estranei alla mentalità tradizionale. Se le civiltà del passato non hanno conosciuto i problemi e i rischi “ambientali” con cui si ritrova a fare i conti l’umanità odierna è soltanto perché quelle civiltà erano fondante su altri parametri ed altre visioni del mondo, parametri e visioni in cui la prospettiva di uno sviluppo indefinito delle cosiddette forze produttive non era per nulla contemplata. In poche parole, l’uomo tradizionale era preso da tutt’altro genere di problemi, basava la sua esistenza su tutt’altro genere di valori e fini, e che lo scopo della società fosse quello di garantire un benessere e una sicurezza materiale sempre maggiori era un’idea completamente estranea al suo immaginario. Per dirla sempre con Latouche, erano in pratica “altri” i martelli che gli battevano in testa. Anzi, per certi aspetti, era proprio l’assenza di preoccupazioni ecologiche, di programmazione economica, ovvero, in generale, di un immaginario di tipo tecnicista che ha portato le civiltà premoderne a vivere in “equilibrio” con la natura e l’ambiente. Il fatto è che presso tali civiltà l’economia, come hanno mostrato ad esempio gli studi di Karl Polanyi e in parte dello stesso Latouche, era, per usare l’espressione dell’economista ungherese, embedded, ovvero “incorporata” in altri universi di pensiero – di tipo spirituale, simbolico, religioso -, ovvero in un immaginario davvero “altro”, da cui dipendeva e da cui era di conseguenza “limitata”, a differenza di ciò che è accaduto con l’avvento della società moderna, quando, unico caso conosciuto nella storia, l’economia, emancipatasi da tali universi, ha finito essa stessa per incorporare e quindi per dominare l’intero immaginario umano.

Come risaputo, le società tradizionali – si pensi a quanto evidenziato in merito soprattutto alle civiltà di origine indoeuropea da Georges Dumézil – erano in genere organizzate secondo una struttura “tripartita”, essendo tre le istanze fondamentali attorno a cui doveva organizzarsi necessariamente ogni comunità umana degna di questo nome: l’istanza spirituale, l’istanza guerriera, l’istanza economica, ognuna delle quali era rappresentata e vivificata nella società da una classe sociale specifica (vedi le notorie triadi sapienti-custodi-produttori della tradizione platonica, brahmani-kshatriya-vaishya/shudra di quella vedica, druidi-flaith-bó airig di quella celtica, e gli esempi potrebbero continuare all’infinito, fino a quella oratores-bellatores-laboratores della civiltà medievale europea). Essendo le finalità di tipo spirituale riconosciute superiori rispetto a quelle di tipo produttivo (la classe guerriera svolgendo più che altro una funzione di mediazione e appunto di “custodia” delle altre due ovvero dell’intero corpo sociale), queste ultime erano strutturalmente impossibilitate a svilupparsi illimitatamente, trovando nelle prime il loro preciso “limite”. Per questo le classi produttive erano gerarchicamente subordinate alle altre, dato che il “mezzo” è necessariamente subordinato al “fine” e da questo appunto “limitato”. Tale gerarchia sociale rinviava del resto ad una gerarchia di tipo etico (le tre virtù della “sapienza”, della “forza/coraggio” e della “temperanza” nel platonismo, del dharma, dell’artha e del kama nell’induismo) che, a sua volta, si richiamava ad una di tipo ontologico, essendo la realtà stessa articolata su tre diversi livelli (il “Mondo delle Idee”, l’“Anima universale”, il “Mondo sensibile” nella tradizione platonica; il “Brahma”, il “Mondo sottile”, il “Mondo grossolano” in quella induista) a cui corrispondevano sul piano umano le cosiddette tre “anime” (le platoniche “anima razionale”, “irascibile” e “concupiscibile”, i tre guna induisti sattva, rajas e tamas). Sul piano dell’immaginario religioso tali livelli della realtà si riflettevano poi nelle celebri triadi di divinità che ritroviamo al vertice dei pantheon di un po’ tutte le civiltà antiche (Giove-Marte-Quirino a Roma, Odino-Thor-Freyr tra gli antichi germani; Mitra/Varuna-Indra-Ashvin nell’India vedica, ecc.), divinità ognuna delle quali predisposta appunto ad una delle tre funzioni base della società: quella sovrana, quella guerriera, quella economica. Il tutto secondo quella precisa corrispondenza macrocosmo-microcosmo che caratterizzava la visione tradizionale del mondo: come sul piano dell’essere la sfera metafisica è superiore e fonda quella fisica, e nell’uomo l’anima “razionale” con la sua corrispondente virtù è superiore e regola quella sensibile, nella società l’economia è subordinata alle finalità spirituali e da queste riceve le sue direttive. Le classi produttive non a caso erano le classi dei “servi”, di coloro che appunto erano “al servizio di”, essendo l’economia “mezzo” per il perseguimento di fini e valori esterni ad essa e di natura superiore.

Tutto ciò viene stravolto e di fatto ribaltato con l’avvento della società moderna: non riconoscendo più alcun valore trascendente ed altra dimensione dell’esistenza al di fuori di quella materiale, e quindi alcun’altra finalità ad essa esterna e superiore, la sfera della produttività, la sfera della tecnica e dell’economia, si emancipa dalla subordinazione alle altre due rivendicando la propria autosufficienza, divenendo così da mezzo a fine stesso del consesso umano. È la dinamica propria delle cosiddette rivoluzioni borghesi che hanno portato in Occidente al tramonto della società tradizionale e all’avvento del mondo moderno: il Terzo Stato, la classe dei laboratores, si ribella e decreta la soppressione delle altre due, che fino ad allora ne avevano “limitato” le pretese. Il celebre scritto dell’abate Sieyès Che cos’è il Terzo Stato?, non a caso considerato il manifesto della Rivoluzione francese, è a tal proposito paradigmatico: secondo lo scrittore francese quella del clero e quella dei nobili sono classi inutili, che non “servono” a niente, dunque da eliminare; l’unica classe che ha diritto di cittadinanza nel nuovo ordine che si annuncia è appunto quella dei “servi”, di coloro che “servono”. È l’emancipazione della ragione “servile”, della ragione “strumentale”, ovvero della Tecnica che da mezzo viene eretta a fine, dato che ciò che non “serve” - lo “spirito” e i suoi “custodi” - non si vede… a cosa serva! È il ribaltamento completo dell’ottica tradizionale: come diceva Aristotele nel celebre passo della Metafisica, è proprio ciò che “non serve a nulla” – ovvero la “filosofia”, intesa come conoscenza suprema – che è da collocare sul gradino più alto, dato che il fine, ciò che viene “servito”, non può che essere superiore al mezzo, a ciò che quel fine “serve”. Secondo Sieyès, invece, coloro che non “servono”, ovvero gli oratores e i bellatores, sono inutili, un peso, sono classi “parassite”, perché a loro e alle istanze che rappresentano non viene più riconosciuto alcun valore, come alcun valore nella società odierna figlia di tale rivoluzione viene riconosciuto a ciò di cui non è immediatamente chiara la valenza strumentale, il suo “servire” a qualcos’altro. Se il “vero”, ciò che ha valore, secondo l’ottica tradizionale era sempre stato visto come la conformità a ciò che era valido in sé, ovvero fine a se stesso, secondo l’ottica tecnica che domina la modernità vero e valido è soltanto l’utile, il funzionale, ciò che serve e rimanda ad altro, e quest’altro ad altro ancora, in base a quella catena di rimandi infiniti che della civiltà della Tecnica costituisce l’essenza stessa e dove si è persa appunto ogni nozione di “fine”, ovvero di valore che non rimanda ad altro che a se stesso. Marx si porrà sulla stessa scia di Sieyès, estendendo la critica mossa dall’abate francese al clero e alla nobiltà alla stessa classe borghese, accusata anch’essa di non “servire” a nulla, di essere una classe parassita e quindi inutile, essendo la sola classe utile quella degli operai, i “servi” per eccellenza, ed emancipando così definitivamente la sfera tecno-economica da quei fini e quelle dimensioni altre che sino al quel momento l’avevano tenuta legata a sé e l’avevano quindi “limitata”.

Affrancatasi da ogni limite, da ogni vincolo, ovvero da ogni valore o fine esterni e divenendo valore e fine essa stessa, la sfera produttiva ha potuto così iniziare il suo trionfale cammino, le sue “magnifiche sorti e progressive”, omologando a sé l’intera società: dalla società “tripartita” a quella “unidimensionale”, dalla visione pluralista, qualitativa e differenziata al regno dell’Unico e della Quantità. È la storia dello sviluppo, del progresso economico e tecno-scientifico così come lo conosciamo e celebriamo ancor oggi, unica ragion d’essere del mondo presente. È il trionfo della Tecnica: essa non conosce “limiti”, perché se fine è diventato il mezzo stesso, il continuo auto-superarsi, il continuo auto-accrescimento, il continuo “miglioramento” del complesso dei mezzi costituiscono l’obiettivo stesso del sistema. Il mondo della Tecnica è appunto una megamacchina che si autoregola e si autoriproduce, un treno lanciato verso null’altra direzione che la sua stessa corsa, perché la corsa, o meglio l’accelerazione continua, è il suo stesso fine. Che senso ha allora parlare di “limiti”, di “decrescita”, se la macchina è stata congegnata proprio per oltrepassare ogni limite, proprio per crescere indefinitamente? “Non si può fermare il progresso”: questo adagio popolare nasconde una profonda verità, rivela come anche la coscienza comune avverta chiaramente come il “progresso”, la crescita continua siano l’essenza stessa del mondo in cui oggi viviamo, e che parole d’ordine quali lo “sviluppo sostenibile”, i “limiti della ricerca”, la “crescita zero” sono solo ossimori privi di senso fin quando non si è in grado o non si ha il coraggio di mettere in discussione i presupposti originari e fondanti di tale mondo. Fin quando davvero non si riesca, per dirla ancora con Latouche, a pensare “altri mondi, altre menti, altrimenti”. “Dio si fa beffe delle creature che deplorano gli effetti di cui continuano ad amare le cause”, diceva Bossuet. Come la Tecnica si fa beffe di chi si illude di porre “limiti” a chi è stata programmata perché limiti non abbia, di imporre regole a chi è stata eretta a dispensatrice di nuove regole, di imporre valori a chi è stata elevata ad unico e supremo valore. Si fa beffe di chi è convinto di poter assegnare un fine a chi è stata elevata essa stessa a fine e di dare un senso a un mondo di cui pur si riconosce la mancanza di fini, perché un mondo senza fini non può che essere un mondo senza senso.