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Vacanze e solitudini

di Claudio Risé - 15/07/2010

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Arrivano le vacanze e chi non sta benissimo comincia a stare un po’ peggio; come le cronache segnalano. Le ragioni sono molte. Il caldo, innanzitutto, è per il sistema nervoso e il tono dell’umore una prova più difficile del freddo: vengono accentuate sia le spinte maniacali, verso l’euforia, che quelle depressive. È insomma più complesso mantenere quella «linea mediana» dell’umore che alla luce estiva appare mediocre a antipatica, ma in realtà coincide con l’equilibrio psicologico.
Una delle prove più complesse è lo sconvolgimento dei ritmi abituali: sonno-veglia; ozio-divertimento-lavoro; immobilità-movimento; concentrazione-svago.
La modernità, con le sue vacanze prolungate per ragioni produttive e commerciali, ha ignorato la lezione delle culture tradizionali. Esse rovesciavano i ritmi di vita, ma solo per qualche giorno, come per il Carnevale o le feste agricole, ben sapendo che l’uscita dal ritmo quotidiano, se non limitata nel tempo, era per l’uomo fonte di stress e, potenzialmente, di disorientamento e spersonalizzazione.
La nostra psiche e il nostro cervello si sono sviluppati seguendo precisi ritmi che possono anche rovesciarsi ma per brevi periodi (ritualizzati con precisione nel tempo e nello spazio), che hanno la funzione di rappresentare l’eccezione che conferma la regola, rafforzandola (come il Carnevale con la Quaresima).
Le vacanze estive di oggi durano invece settimane e investono, potenzialmente, il mondo intero.
Il sistema delle comunicazioni ci spiega che possiamo andare dovunque, a fare qualsiasi cosa. Anche questo messaggio, contraddetto dai prezzi dei viaggi e soggiorni e dalle loro condizioni (sono note le avventure estreme di turisti che ogni anno si ritrovano abbandonati in qualche aeroporto o località imprecisata, senza saper come uscire dai guai), è fonte di ulteriori stress.
In realtà il mito delle vacanze globali, sollecitando fantasie di uguaglianza e affermazione sociale, mette poi duramente di fronte alle prove delle disuguaglianze, dei soldi che mancano, delle lingue non conosciute, delle abitudini alimentari e dei costumi diversi, insomma dello smarrimento identitario («non sono nessuno»), e della frustrazione.
C’è però un punto ancora più dolente nei periodi in cui si scatena l’immaginario delle vacanze, ed è (come dimostrano le cronache di questi giorni), quello dei sentimenti, dell’amore, del bisogno di riceverlo, e della disperazione per non averlo. Le vacanze sono (spesso, ma non sempre) molto piacevoli per chi le trascorre con la persona amata. Una fetta di popolazione per fortuna ancora vasta, ma che non corrisponde certo alla totalità. Per tutti gli altri, per coloro che non sopportano il proprio compagno/a, per molti single, per l’esercito degli abbandonati/e, le vacanze sono il momento, spesso spietato, del confronto con la propria solitudine affettiva: sono solo/a.
La visione euforica (anche se falsa) della società globalizzata, dove tutti sembrano essere in compagnia del resto del mondo, rende questo vissuto di abbandono ancora più inaccettabile. Nel ritmo di lavoro quotidiano, nelle piccole comunità dell’azienda, o dell’ufficio, la solitudine è meno assillante, maggiormente mediata da momenti di comunicazione (la mensa, la pausa caffé, le confidenze sulla serata), che coprono almeno in parte la percezione di essere soli, la rendono meno esasperata. Nel lungo periodo del divertimento obbligatorio, senza riti, e senza reti di protezione, la solitudine può invece mordere crudelmente chi la prova. Trasformando così l’avvicinarsi delle vacanze in un guaio. Per sé e per gli altri.