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Un ominide peloso e cavernicolo si aggira nell’intrico delle foreste africane?

di Francesco Lamendola - 27/07/2010

 

 

Quando gli appassionati di criptozoologia discutono della possibilità che un ominide peloso sopravviva in qualche remota località del pianeta, ai confini del mondo “civile”, subito il loro pensiero corre allo Yeti, il cosiddetto “abominevole uomo delle nevi”, o, tutt’al più, al Sasquatch, il suo omologo delle Montagne Rocciose nordamericane.

Ben pochi di loro sanno che una creatura del genere è stata segnalata, fin da tempi relativamente antichi, nell’Isola del Sud della Nuova Zelanda, ove avrebbe costituito una sorta di spauracchio per le tribù dei Maori ivi insediate, al punto da indurle ad abbandonare alcune delle loro sedi presso la costa sud-orientale (cfr. il nostro precedente articolo «Il Maeroero della Nuova Zelanda: uno Yeti agli Antipodi», sul sito di Edicolaweb).

Ancor meno numerosi, probabilmente, sono poi coloro i quali hanno sentito parlare di una creatura del genere, pelosa e cavernicola, dalle abitudini estremamente circospette e quasi inafferrabile, che vivrebbe da tempi immemorabili nel fitto delle foreste africane, specialmente nel bacino del fiume Congo, ma anche nelle regioni più meridionali, fino allo Zimbabwe (ex Rhodesia del Sud), e più orientali, fino alla Tanzania e al Mozambico.

Nelle lingue locali tale creatura viene chiamata ora “Agogwe”, ora “Kakundakari” e sarebbe più piccola dei suoi omologhi himalaiani e americani, variando fra una statura di un metro-un metro e venti (per le femmine) ed un massimo di un metro e settanta centimetri (per i maschi); il che potrebbe essere posto in relazione con le particolari caratteristiche del denso e buio ambiente forestale in cui vive, un po’ come avviene nel caso dei Pigmei. 

Inoltre, a differenza dello Yeti, essa è nota agli Europei solo da poco tempo: la sua prima segnalazione, infatti, risale al 1937. Nel dicembre di quell’anno, infatti, apparve un articolo del capitano William Hichens, sul «Discovery Magazine» (pp. 369-73), intitolato «African Mystery Beasts», in cui l’autore affermava:

 

«Alcuni anni fa, venni inviato in quella zona [le foreste di Ussure e di Simbit nella parte occidentale delle pianure di Wembare] come membro di una spedizione ufficiale di caccia al leone; e, mentre mi trovavo appostato in una radura, in attesa che sopraggiungesse il mangiatore di uomini, vidi due piccole, scure e pelose creature, che avanzavano dalla densa foresta su un lato della radura e che scomparvero nell’intrico degli alberi sul lato opposto. Avevano l‘aspetto di piccoli uomini, alti circa quattro piedi [1 metro e 20 cm.] e camminavano eretti, ma erano ricoperti da una pelliccia di color ruggine. I cacciatori indigeni che erano con me li fissarono con un misto di paura e sbalordimento. Dissero che si trattava di agogwe, i piccoli uomini pelosi, che a stento è dato di vedere una volta nel corso di una intera vita umana.»

 

L’articolo produsse un notevole scalpore ma nessuno, e tanto meno gli zoologi, prese sul serio il racconto di Hitchens, che venne ricoperto di critiche e ridicolizzato; finché un altro testimone, Cuthbert Burgoyne, prese la penna e scrisse alla rivista qualche tempo dopo, per confermare ciò che aveva narrato il capitano inglese.

Burgoyne sostenne di essersi trovato nel Mozambico dieci anni prima, nel 1927, intento a navigare lungo le sue coste a bordo di un mercantile giapponese, allorché aveva scorto, con il cannocchiale, un branco di babbuini e, insieme ad essi, anche qualcos’altro, che aveva attirato la sua attenzione.

Si trattava di due piccole creature umanoidi, alte da quattro a cinque piedi, gracili nella figura, la cui apparizione aveva disturbato i babbuini mentre questi ultimi erano intenti a catturare dei granchi sulla riva del mare. Non solo Burgoyne le aveva viste, ma anche altre persone a bordo della nave; mentre un esperto cacciatore che si trovava con lui, e che era suo amico, gli disse che sempre lì, nell’Africa Orientale Portoghese (Mozambico), insieme a tre compagni e a sua moglie, aveva visto una volta tre di quelle creature, che dovevano essere il padre, la madre e un piccolo, mentre attraversavano un tratto di boscaglia; e aggiunse che gli indigeni li avevano dissuasi dalla tentazione di sparare su di esse.

La misteriosa creatura era poi scivolata nel silenzio per un altro paio di decenni, salvo riapparire sotto i riflettori della stampa internazionale alla fine degli anni Cinquanta e all’inizio degli anni Sessanta del XX secolo.

Questa volta a vederla era stato un collezionista professionista di animali, Charles Cordier, abituato a rifornire svariati zoo e musei occidentali. Egli disse che un Kakundakari era rimasto imprigionato nel laccio destinato agli uccelli. Peraltro lo strano essere era riuscito a liberare il piede dal laccio, a rialzarsi e dileguarsi in pochi istanti, senza che l’inserviente africano, paralizzato dallo stupore, riuscisse a fare un solo gesto per trattenerlo.

Il giovane zoologo americano George B. Schaller, laureato all’Università del Wisconsin e grande studioso delle scimmie antropomorfe africane, partecipò nel 1959-60 ad una spedizione scientifica per lo studio dei Primati; in tale veste conobbe Cordier, con il quale strinse amicizia e delle cui ricerche riferì nel suo libro «L’anno del gorilla» (titolo originale. «The Year of the Gorilla»m, The University of Chicago Press, 1964; traduzione italiana di Enrica Cambieri, Milano, De Donato Editore, 1968, pp. 120-21):

 

«.., Per ognuno degli ottantacinque gorilla attualmente vivi negli Stati Uniti  almeno cinque sono stati uccisi mentre venivano catturati o sono morti prima di raggiungere gli zoo. Un triste rimprovero per i collezionisti ma anche per gli zoo che in genere non si curano dei metodi con cui gli animali vengono presi.

Charles Cordier, invece, aveva elaborato una tecnica per cui l’intero gruppo di gorilla veniva circondati con delle reti. Erano necessari cento indigeni, riluttanti, per sostenere le reti contro cui i gorilla caricavano restando impigliati. Questo metodo richiede tempo e molto denaro ma è umano. Gli animali eccedenti vengono poi lasciati liberi. Un gorilla di montagna costa 5.000 dollari, cifra che a prima vista può sembrare eccessiva, ma se si considerano gli sforzi, il tempo e le spese necessarie per catturare e trasportare l’animale fino allo zoo si vede che il prezzo è ragionevole.

Cordier non ha avuto una vita molto facile, poiché è uno di quegli uomini che normalmente non scendono a compromessi. Tuttavia non ha mai perso la curiosità e l’amore per il mondo che lo circonda. Nel 1959 e nel 1960 il suo entusiasmo era interamente rivolto al Kakundakari. Il Kakundakari è per il bacino del Congo quello che l’Abominevole Uomo delle Nevi è per l’Himalaia. Secondo gli indigeni il maschio è alto un metro e settanta, la femmina un metro e venti. Ha il corpo coperto di peli e cammina eretto. Di notte dorme nelle caverne, su giacigli di foglie, e durante il giorno si nutre di granchi, di chiocciole ed uccelli. Charles sostiene di aver visto l’impronta del piede di una di queste creature, simile all’uomo, e sembra che nel 1957, presso un campo minerario, un Kakundakari sia stato ucciso. Un altro Kakundakari inciampò in una delle trappole per uccelli di Charles, cadde in avanti, si voltò, si  mise a sedere, tolse il piede dal cappio e se ne andò senza che l’indigeno vicino alla trappola riuscisse a fare niente. Che cos’è il Kakundakari? Un gorilla, un uomo-scimmia o un mito? È possibile che in Africa esistano ancora grandi creature sconosciute?  Ancora nel 1901 Sir Frederick Jackson scriveva questa lettera ad un collezionista: “Il delegato di Sua Maestà m’incarica di riferirle che nelle foreste di Mboga, un distretto della provincia di Toro [nell’Uganda] esiste un animale straordinario e di invitarla a fare il possibile per ottenere qualche esemplare perfetto di questa specie. Sembra che un tale animale sia l’anello dio congiunzione fra le antilopi e le giraffe.  Gli indigeni lo chiamano Okapi…”. Il gorilla di montagna emerse dalle foreste africane nel 1902, il gigantesco maiale selvatico della foresta nel 1903, il pavone del Congo nel 1936. Vastissime regioni del bacino del Congo sono ancora disabitate e non sono mai state esplorate. Attualmente non vedo nessun motivo di negare l’esistenza del Kakundakari e spero che prima o poi Charles riesca a trovare un esemplare di questi esseri.»

 

Come si è detto, l’Agogwe sarebbe notevolmente più piccolo dello Yeti himalaiano, ma suppergiù delle stesse dimensioino di un altro elusivo primate asiatico: l’Almasty, altro ominide peloso che, stando ai racconti di alcuni testimoni, si aggirerebbe da sempre nelle regioni boscose e isolate alle pendici del Caucaso.

Se davvero l’Almasty esiste (e sembra che un esemplare sia stato realmente catturato nel 1941 da alcuni militari sovietici, venendo esaminato anche da un ufficiale medico, che rimase estremamente perplesso), si tratterebbe della creatura antropoide a noi geograficamente più vicina: un parente dello Yeti alle soglie dell’Europa!

Segnalazioni di uomini pongoidi vengono anche alla Cina, ove uno di essi, alto un metro e mezzo e completamente villoso, sarebbe stato ucciso nel 1957 da alcuni contadini; dall’Iran, ove si dice addirittura che abbiano conservato l’uso della parola; dalla Malesia, ove una precisa segnalazione risale al 1953; e infine dall’Australia, ove la locale varietà di uomo selvaggio è nota agli aborigeni e ad ai bianchi con il none di “Yowie”.

Ve ne sarebbero di due specie: uno, di statura impressionante, insediato nelle foreste tropicali della parte settentrionale dell’isola-continente; ed una più piccola, simile all’Almasty caucasico, che si aggirerebbe nelle pianure erbose. Uno degli avvistamenti più dettagliati, e anche più drammatici, risale al 1977, quando una giovane cavallerizza venne disarcionata e rimase terrorizzata dall’incontro con un gigante villoso alto due metri.

Sembra che anche nell’isola di Ceylon, in passato, abitassero dei piccoli uomini della montagna, che forse - ma non è certo - erano villosi come quelli del Caucaso, dell’Iran, della Cina e della Malesia; erano pigmei chiamati Nittaewo, scomparsi nel XIX secolo.

Ma ora torniamo all’Agogwe africano, o Kakundakari, chiamato anche, in altre zone, col nome di Kikomba.

Nel 1938 l’esploratore italiano Attilio Gatti aveva sentito parlare di una gigantesca creatura pelosa, alta circa due metri, dimorante le foreste dell’Ituri (Cingo), e le aveva dato la caccia. Gli indigeni la chiamavano Mulahu e asserivano che possedeva una forza prodigiosa, unita ad un carattere irascibile. Gatti, dopo aver rinvenuto alcuni ciuffi di peli che non potevano appartenere ad alcuna scimmia nota alla scienza, finì per imbattersi nel Mulahu in carne ed ossa, il giorno dopo un violento temporale.

Ecco come egli stesso rievocò quel momento straordinario (citato in: Jean-Jacques Barloy, «Animali misteriosi fra cronaca e leggenda»; titolo originale: «Les survivants de l’ombre. Enquête sur les animaux misterieux», Paris, Les Editions Arthaud, 1985; traduzione italiana di Roberta Ferrara, Roma, Edizioni Lucarini, 1987, p. 215):

 

«Rivedo ancora le pelliccia ondulata e di un nero rossastro, quelle immense braccia alte e spalancate, il perimetro colossale dello stomaco e soprattutto quella testa di un’enormità sconcertante, resa cieca e addirittura priva di volto dalla lunga cortina di peli bianchi che spiovevano dalla visiera sporgente delle sopracciglia… Avevo visto il Mulahu!»

 

Naturalmente, viene spontaneo domandarsi se non si sia trattato, semplicemente, di un gorilla; ma i particolari relativi alla testa ed al volto, nonché la cortina dei peli bianchi sugli occhi, fanno pensare a qualcosa di profondamente diverso; qualcosa che non trova riscontro nelle nostre attuali conoscenze zoologiche…

L’Agogwe, comunque, sarebbe decisamente più piccolo: esso starebbe al Mulahu, più o meno, come l’Almasty sta allo Yeti. 

A quanto pare, anche l’Africa possiede più di una specie di uomini selvaggi; e bisogna ancora aggiungere all’elenco la variante del Madagascar, costituita dagli Ombas (“uomini”), che gli indigeni conoscono piuttosto bene e che, certamente, non hanno niente a che fare con i lemuri della grande isola: nessun indigeno, infatti, potrebbe confondere l’indri, o qualsiasi altro lemure, con una creatura antropoide.

Ne ha riferito un antropologo francese, François-Xavier Pelletier, nel 1984, in seguito ad una curiosa esperienza personale. Gli Ombas, secondo alcune voci, vivrebbero nelle grotte di un distretto isolato e sarebbero in rapporti complessivamente pacifici con gli umani. Ciò non toglie che, talvolta, si verifichino degli incidenti; in uno di questi,  si dice che un Ombas sia stato ucciso, per difesa, da un indigeno.

Alcuni pensano che gli Ombas non siano propriamente dei pongoidi, ma semplicemente i discendenti dei primitivi abitanti dell’isola, gradualmente sterminati o fatti schiavi dai successivi colonizzatori, e regrediti allo stato selvaggio. Infatti, gli Ombas non sono pelosi, ma hanno la pelle bianca; solo i loro capelli sono straordinariamente lunghi.

In tal caso, essi si potrebbero apparentare ai Nittaewo di Ceylon; con la notevole differenza che, mentre questi ultimi sono sicuramente estinti, i Vasimba (così si chiamano i primitivi abitanti del Madagascar) sopravvivrebbero ancora, in talune località fuori mano; alcuni di essi sarebbero tenuti in condizioni di schiavitù.

L’Africa è un continente grande e, per molti aspetti, tuttora misterioso, pur nell’era dei viaggi spaziali e dell’informatica.

Chissà che non finisca per restituirci almeno una parte dei suoi segreti, finora gelosamente custoditi nel folto delle foreste pluviali, ove nessun raggio di sole riesce mai a filtrare attraverso la volta impenetrabile dei rami.