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Le spedizioni dell’ammiraglio Chêng Ho:un notevole esempio di potenza non imperialista

di Francesco Lamendola - 28/07/2010


Per la mentalità occidentale moderna, è ovvio che, se uno Stato possiede la forza, prima o poi cerca di imporla ai suoi vicini; la storia occidentale moderna non offre un solo esempio di una potenza che si sia autolimitata, che si sia imposta delle regole e dei confini all’uso della forza nei confronti delle potenze più deboli o dei popoli più indifesi.

Tali forme di autolimitazione esistevano, nel mondo antico e nel Medioevo, se non quanto ai mezzi, almeno quanto ai tempi del loro impiego: l’anno, il mese e la settimana erano pieni di giorni in cui non era lecito combattere; per non parlare delle sospensioni periodiche dei conflitti dovute a ricorrenze religiose o ad eventi sociali universalmente riconosciuti (si pensi solo alle Olimpiadi, nel caso del mondo greco).

L’avvento della modernità coincide con la scoperta dei Nuovi Mondi e l’umanità occidentale, trovandosi alle prese con un tipo di umanità completamente differente, non esita a trasformare la scoperta in una immediata conquista. Non solo: dopo aver mobilitato i migliori teologi e scienziati per decidere se siano davvero esseri umani quelli che si trovano di fronte all’altro capo del mondo, dotati di anima immortale e quindi anch’essi creature di Dio, gli Occidentali stabiliscono un precedente che, d’ora in poi, avrà la forza di una legge naturale: quanto più i “selvaggi” sono lontani dal loro grado di civiltà, tanto più diventa lecito stabilire, nei loro confronti, tecniche di sopraffazione sciolte da ogni vincolo morale.

In altre parole, nei confronti di un “diverso” che si può considerare a malapena un essere umano, è giusto applicare una politica sciolta da qualsiasi obbligo: la sua stessa “barbarie” solleva l’uomo bianco dal dovere di rispettare i suoi diritti ed, anzi, autorizza a procedere in base a parametri etici completamente differenti, stabiliti dal conquistatore a sua esclusiva discrezione. La pratica del sacrificio umano fra gli Aztechi, ad esempio, autorizza gli Spagnoli a qualunque violenza contro di essi, in nome di una morale completamente diversa da quella degli indigeni: la morale della civiltà e della “vera” religione, introdotte - in fondo - per il bene degli stessi conquistati.

Sono assai rari, nel corso della storia occidentale moderna, i casi in cui l’uomo bianco si mostra spontaneamente generoso nei confronti di popolazione più deboli e meno evolute e si astiene da violenze gratuite o da disegni di conquista militare. Potremmo citare, fra questi, i grandi viaggi di esplorazione inglesi e francesi nell’Oceano Pacifico, durante il XVIII secolo: Cook, La Pérouse, Marion Dufresne non vogliono sfruttare la loro superiorità tecnologica a danno dei Polinesiani: più o meno illusi circa la naturale bontà dei “selvaggi”, non di rado cadono vittime di una commovente fiducia e, talvolta (come Marion), finiscono nella pentola dei cannibali. Tuttavia, ripetiamo, si tratta di rare eccezioni; la regola è completamente diversa.

Restando al caso dell’Europa, la modernità strappa definitivamente il velo della forza bruta nelle relazioni internazionali: non appena, dopo la spedizione di Carlo VIII, le grandi potenze scoprono il grande segreto dell’Italia, ossia che quest’ultima unisce il massimo della ricchezza e il massimo della debolezza militare, le guerre di conquista si susseguono e si trasformano ben presto in una competizione fra i diversi invasori, la cui posta in gioco è la supremazia sulla Penisola. Machiavelli e Guicciardini prendono atto di tutto questo e ne traggono materiale per una filosofia della politica che, d’ora in poi, fino alle due guerre mondiali del XX secolo ed oltre, sarà la Bibbia di ciascun uomo politico “realista”.

Ancora nel tardo Medioevo, non sempre le relazioni politiche fra gli stati si erano basate sulla forza bruta: come ha mostrato egregiamente Johan Huizinga, nell’”autunno” del Medioevo la forma era spesso anche la sostanza e l’”homo ludens” esigeva la sua parte, che non era riducibile al mero dato della conquista materiale; la corte di Carlo il Temerario era ancor più splendida di quella dei maggiori sovrani europei e il Ducato di Borgogna, pur surclassando più volte il Regno di Francia quanto a potenza e ricchezza effettive, non ne mise mai in dubbio la superiorità teorica, consistente nell’atto di omaggio feudale.

Talvolta la modernità vestirà i panni delle ideologie democratiche e giacobine per camuffare la nuova legge brutale della pura forza: così, ad esempio, la Repubblica francese del 1793, erede della politica di espansione di Luigi XIV, invece di chiamarla con il suo vero nome, si nasconderà dietro belle parole d’ordine “umanitarie” per giustificare l’annessione della Savoia, della Renania, del Belgio. Niente di nuovo sotto il cielo: è la stessa cosa che faranno i “liberatori” americani e britannici in Iraq e in Afghanistan, tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo.

D’altra parte, al di fuori della civiltà occidentale, è esistito un grande ed evoluto impero -  quello cinese - il quale, fino a che non entrerà in crisi e non cadrà sotto i colpi dell’aggressione occidentale (e giapponese, che ad essa si può accomunare quanto ai metodi ed agli scopi), pur possedendo, e a lungo, una netta superiorità tecnica e militare sugli stati vicini, disdegnò di sottometterli con la forza e preferì esercitare su di essi un blando protettorato basato non sull’impiego della forza, o sulla minaccia di ricorrervi, ma sullo sfoggio della sua superiore civiltà e sulla pacifica esibizione della sua potenza.

Il punto più alto di una tale politica di prestigio, che nulla chiede se non un atto di sottomissione formale e che costa alle casse dello stato molto, ma molto di più di quanto non possa mai fruttare, è rappresentato da un episodio straordinario e quasi sconosciuto in Occidente: la serie dei grandi viaggi marittimi intrapresi dall’ammiraglio Chêng-Ho (in grafia cinese moderna: Zheng He), un eunuco di religione islamica (ma per nulla fanatico), che si svolsero nel corso del XV secolo, soltanto pochi decenni prima di Colombo e dell’inizio dei grandi viaggi di scoperta e di conquista degli Europei.

Chêng Ho condusse le sue spedizioni per conto dell’imperatore Yung Lo, della dinastia Ming (i Ming governarono la Cina dal 1368 al 1644), fra il 1405 e il 1433 e lo videro spingersi lungo tutto l’Oceano Indiano, oltre Ceylon, l’India e il Golfo Persico, sino alle coste orientali dell’Africa e, forse, dal lato opposto - come hanno ipotizzato alcuni studiosi moderni - sino allo sconosciuto continente australiano.

I viaggi furono complessivamente sette, effettuati da una flotta di oltre trecento navi e con alcune migliaia di marinai fra equipaggi e personale vario: diplomatico, commerciale e scientifico. Una intrigante ipotesi, avanzata dallo studioso inglese Gavin Menzies sulla base di una serie di indizi e deduzioni di natura piuttosto controversa, è che nel corso del sesto viaggio, svoltosi fra il 1421 e il 1423, la flotta cinese avrebbe raggiunto anche il Nuovo Mondo; e che perfino l’Antartide sarebbe stata avvistata e debitamente cartografata da quegli arditissimi navigatori.

Menzies ha esposto questa sua tesi nel libro «1421: la vera storia della spedizione cinese che scoprì l’America» e, se non ha convinto gli storici di formazione accademica, che l’hanno respinta come del tutto fantasiosa, ha però messo una pulce nell’orecchio dei lettori non prevenuti. Fra l’altro, lo studioso britannico sostiene che a bordo della flotta cinese vi era anche un mercante veneziano, Niccolò Da Conti, che disegnò una carta della Terra la quale sarebbe caduta pochi anni dopo, nel 1428, dei Portoghesi.

Gli scopi di questi grandi viaggi - effettuati con una immensa flotta di giunche gigantesche a sette, otto e nove alberi, in confronto alle quali le caravelle di Colombo sarebbero sembrate degli autentici gusci di noce - non erano militari e nemmeno commerciali, nel senso comune della parola. Certo, vi erano scambi di merci fra l’ammiraglio e i sultani e gli altri sovrano locali, ma più come doni e, quindi, come gesti simbolici, che per ottenere un reale profitto. Ostentando la potenza marittima, e quindi tecnologica e culturale, della sua madrepatria, Chêng Ho si riprometteva di ottenere un atto di vassallaggio formale, che avrebbe rafforzato il prestigio del Celeste Impero nel mondo e avrebbe spinto agli estremi confini dell’ecumene la fama della sua potenza e della sua perfetta autosufficienza.

Infatti, se l’ammiraglio avesse accettato un vero e proprio scambio commerciale, ciò avrebbe rivelato ai “barbari” (i Cinesi adoperavamo comunemente questa parola per definire gli stranieri, proprio come i Greci), questi ultimi avrebbero saputo che la Cina era priva di alcuni prodotti e desiderosa di entrarne in possesso, il che avrebbe incrinato la sua immagine di “centro del mondo”, del tutto pago di quanto possedeva e di ciò che la sua terra produceva.

Yung Lo, pertanto, si può paragonare al re portoghese Enrico il Navigatore, per la sete di conoscenze geografiche e per il formidabile impulso dato alla marineria del suo Paese, ma con questa fondamentale differenza: i viaggi dei Portoghesi, come quelli - dopo di loro - di Spagnoli, Francesi, Inglesi e Olandesi - erano finalizzati alla scoperta di nuove rotte marittime per le “isole delle spezie” o, in seconda battuta, per il controllo dei commerci dell’oro, dell’avorio e degli schiavi; nonché, in via accessoria, alla diffusione del Cristianesimo fra i popoli “pagani”. Quelli dei Cinesi, invece, scaturivano da una magnanimità nel senso cavalleresco della parola ed erano stati concepiti in un Impero dove i più alti funzionari, i mandarini, non erano guerrieri o mercanti, ma poeti e umanisti.

Un profilo sintetico ma accurato delle imprese dell’ammiraglio Chêng Ho è stato delineato dallo storico americano Daniel J. Boorstin in «Storia delle conquiste umane» (titolo originale: «The Discoverers», Random House, 1983; traduzione italiana Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1985, vol. 1, pp. 170-72):

 

«Chêng Ho condusse la sua flotta - non la si può chiamare armata perché non aveva una funzione militare - quasi in ogni luogo abitato delle coste del Mar Cinese e del’Oceano Indiano.  I cinesi esercitavano il commercio marittimo col mondo islamico almeno da cinquecento anni, sin dal glorioso rinascimento dell’epoca T’ang. Alle loro carte erano stati aggiunti il Nilo, il Sudan e Zanzibar e persino alcune località del Mediterraneo. Forse queste notizie erano arrivate ai cinesi indirettamente, tramite i mercanti arabi, ma i recenti ritrovamenti di monete e porcellane T’ang e Sung sulla costa africana dalla Somalia a Zanzibar fanno credere che i cinesi stessi siano arrivati in questi luoghi. Delle spedizioni di Chêng Ho facevano anche parte alcuni interpreti cinesi che parlavano le lingue di questi paesi, e sotto questo profilo l’organizzazione era talmente efficiente da far pensare a una lunga esperienza di traffici coi paesi d’oltremare.

Le sette missioni che si susseguirono si spinsero sempre più a ovest. La prima, che partì nel 1405, toccò Giava e Sumatra, poi Ceylon e Calcutta. Le spedizioni seguenti raggiunsero il Siam, trasformarono la Malacca in una base per le navi dirette alle Indie Orientali, poi proseguirono verso il Bengala e le Maldive fino al sultanato di Ormuz, all’imboccatura del golfo Persico. Alcune squadre navali, sempre in missione pacifica, visitarono le Ryukyu e Brunei; altre si spinsero ancor più a occidente, raggiungendo Ormuz e Aden all’entrata del Mar Rosso, per poi piegare verso sud-ovest lungo la costa africana fino a Mogadiscio in Somalia, Melinda a nord di Mombasa e le sponde di Zanzibar. La morte di Yung Lo [l’imperatore], avvenuta nel 1424, fu di cattivo auspicio per la grande impresa portata avanti al suo protetto Chêng Ho. L’imperatore che gli successe sposò infatti la causa del partito contrario a queste missioni navali e bloccò quella in progetto.

I viaggi di Chêng Ho rimasero dunque legati alle sorti della successione imperiale. Dopo il breve regno dell’imperatore che si era mostrato avverso alle spedizioni, il successore, un entusiasta sostenitore delle imprese navali, finanziò il settimo e più esteso di quei viaggi. Coi suoi 27.550 uomini di equipaggio, tra ufficiali e ciurma, questa missione, che durò due anni e superò qualsiasi precedente impresa, riuscì a stabilire, prima del suo rientro nel 1433, delle relazioni diplomatiche o tributarie con venti regni e sultanati: da Giava a est, per le isole Nicobare fino alla Mecca a nord-ovest, e poi a sud per un lungo tratto della costa orientale africana. Queste remote popolazioni, che per un millennio avevano visto ben poche giunche cinesi nelle proprie acque, furono letteralmente sopraffatte da quelle navi a più piani, più grandi di qualsiasi altro vascello visto prima o che i portoghesi avrebbero portato dopo. Probabilmente i locali rimasero non poco stupiti nel sentire che una flotta così imponente non era venuta per una missione militare.

Per la mentalità occidentale non è facile afferrare il senso delle missioni della Flotta del Gran Tesoro. Gli interessi e gli scopi di Chêng Ho erano diametralmente opposti a quelli che avrebbero mosso le spedizioni europee all’epoca delle scoperte geografiche.  Navigando lungo la costa africana e doppiando il Capo di Buona Speranza per raggiungere l’India, i portoghesi speravano di aumentare le ricchezze del proprio paese, di procurarsi le materie prime e i generi di lusso dell’Oriente e di convertire i pagani al cristianesimo. […] Gli articoli di scambio che Vasco da Gama aveva portato con sé erano rotoli di stoffa a strisce, catinelle, fili di perline e zollette di zucchero… generi che avevano suscitato solo una risata di disprezzo da parte del raja Samurin. Le “merci” che i portoghesi si portavano via comprendevano invece, tra l’altro, schiavi a migliaia: prima della metà del XVII secolo dalla sola Angola ne erano già stati deportati già più di un milione e trecentomila. Con tutte le pesanti attrezzature belliche di cui erano dotate le loro navi, i portoghesi non avevano nessuna remora a ricorrere al terrore.  Abbiamo già detto come Vasco da Gama avesse fato smembrare i corpi di vari mercanti e pescatori presi a caso, mandando poi in un cestino mani, piedi e teste al raja di Calcutta semplicemente per indurlo ad arrendersi in fretta.  Una volta assunto il potere, i portoghesi governarono l’India con lo stesso spirito. Quando il viceré Almeida sospettò di un messaggero che era venuto con un salvacondotto per vederlo, gli fece strappare gli occhi. Il viceré Albuquerque sottomise invece le popolazioni della costa araba, tagliando il naso alle donne e le mani agli uomini. Quando le navi portoghesi arrivavano per la prima volta in un porto di una regione lontana, per mostrare che facevano sul serio i marinai appendevano alle estremità dei pennoni i corpi degli ultimi prigionieri catturati.

La flotta di Chêng Ho veniva da un mondo completamente diverso. Lo scopo delle grandi e costose spedizioni che raggiunsero i luoghi più remoti non erra quello di racimolare tesori, né di impiantare commerci, o di conquistare, o raccogliere informazioni scientifiche. Nella storia recente sono poche le spedizioni navali che siano salpate con scopi diversi da questi. I cronisti cinesi riferirono una voce secondo cui il primo viaggio di Chêng Ho era partito con lo scopo di rintracciare il nipote dell’imperatore Yung Lo; questi, spodestato dallo zio, era fuggito da Nanchino e, a quanto si diceva, errava per contrade straniere. Ma col procedere delle spedizioni venero ad aggiungersi altre e più consistenti motivazioni.

I viaggi, destinati ad ostentare lo splendore e la potenza della nuova dinastia Ming, divennero essi stessi un’istituzione e dimostrarono che le tecniche di persuasione nonviolenta e ritualizzata potevano permettere di riscuotere tributi fin negli stati più remoti. I cinesi non intendevano stabilire proprie basi permanenti nelle nazioni tributarie, ma speravamo piuttosto che “tutto il mondo” accettasse spontaneamente di dare il proprio contributo all’unico e vero centro della civiltà.

Essendo questa l’ottica delle missioni, la flotta cinese non osò mai depredare gli stati toccati nel corso dei viaggi. Chêng o non cercava schiavi, né oro, né argento, né spezie: nulla doveva mostrare che i cinesi avessero bisogno di beni che altre nazioni possedevano. Mentre i portoghesi dovevano restare famosi presso i popoli asiatici per la loro capacità di impadronirsi di tutto quello che trovavano, la fama dei cinesi sarebbe rimasta legata alla loro capacità di dare. Essi dovevano farsi involontariamente portatori della massima cristiana, secondo cui dare è meglio che ricevere. Invece di paccottiglia di scarto e ninnoli infantili, i cinesi offrivano i capolavori degli artigiani più raffinati. Le spedizioni asiatiche degli europei mostrarono quanto, in Occidente, fossero preziosi e ricercati i prodotti tipici dell’Oriente; la prodigalità ostentata dai cinesi doveva invece rendere palese quanto questi visitatori fossero già soddisfatti di quel che avevano. Questo sistema dei “tributi”, che dominò allora le relazioni tra la Cina e altri stati asiatici, era assolutamente inconcepibile per chiunque conoscesse la mentalità occidentale. Lo stato che corrispondeva a un tributo non si sottometteva con ciò a un conquistatore, ma piuttosto riconosceva che la Cina, per definizione L’UNICO paese veramente civilizzato, non necessitava affatto di assistenza. I tributi erano quindi più simbolici che economici; lo stato tributario esprimeva il proprio desiderio di godere del generoso dono della cultura cinese, e la Cina a sua volta dimostrava “la magnanimità e la ricchezza del Regno Centrale”. Non c’è da stupirsi che per i cinesi fosse difficile immaginare una comunità di nazioni sovrane: solo la Cina era veramente sovrana, perché solo essa era degna della sovranità! Le deleterie conseguenze di questo atteggiamento mentale si sono fatte sentire fin nel XX secolo.

Ai tempi di Chêng Ho i cinesi praticavano effettivamente ciò che predicavano, con tutte le onerose conseguenze del casso. La logica non paritaria del sistema dei tributi imponeva ala Cina di pagare più di quanto ricevesse: ogni nuovo stato tributario peggiorava lo squilibrio della bilancia commerciale cinese. I casi della storia che strutturarono le relazioni internazionali di questo paese in questa particolare forma ci aiutano a capire come mai le relazioni fra la Cina e il resto del mondo dovevano nei secoli a venire apparire tanto incomprensibili. Nel frattempo il sistema tributario divenne un paravento delle nascenti richieste commerciali di altre nazioni. I sovrani stranieri non erano restii nel ricevere i “doni”  dell’imperatore cinese, “doni” che avevano in realtà la funzione di persuadere a dare pacificamente ciò che avrebbe potuto essere sottratto con la violenza. Per le potenze straniere il governo cinese divenne un mero strumento. Anche se col passare dei secoli diveniva sempre più debole, il governo continuò a ricevere i commercianti stranieri sotto le mentite spoglie di “tributari”. Ma al tempo di Chêng Ho l’imperatore riuscì, almeno per un momento, a far corrispondere a verità l’affermazione che il Regno Centrale non aveva bisogno di niente da nessuno e non aveva nulla da imparare da alcuno.

I cinesi non erano commercianti né conquistatori, e neppure crociati. Accanto alla spietata determinazione di convertire i pagani, i portoghesi portaqrono in Asia un’intolleranza tipicamente occidentale. Musulmani, buddhisti, indù e cristiani eretici divennero il bersaglio dell’azione di proselitismo, nonché delle persecuzioni. Nel 1560, quando i portoghesi insediarono a Goa un tribunale della Santa Inquisizione, fu inaugurato un regno del terrore corroborato dalla logica della tortura.

I cinesi avevano alle spalle una concezione totalmente diversa della religione e una tradizione di vivi-e-lascia-vivere. Tolleranza è un termine fin troppo debole per il compiacente pluralismo praticato dai cinesi. Gli uomini di Chêng Ho non solo erano contrari alle persecuzioni religiose, ma anzi ovunque si prodigavano per sostenere la fede del luogo.»

 

Come si vede, il rovescio della medaglia delle grandiose, ma pacifiche spedizioni di Chêng Ho è che la volontà di espansione “non violenta” dell’Impero Cinese nasceva da una cultura sciovinista e arrogante, secondo la quale la Cina era l’unico Paese al mondo realmente civile e tutti gli altri popoli non erano che barbari: presunzione che i Cinesi avrebbero finito per pagare a caro prezzo, quando furono le flotte occidentali a presentarsi davanti ai loro porti, a partire dal XVI secolo, con i cannoni pronti a far fuoco.

In un certo senso, le spedizioni navali volute e finanziate dall’imperatore Yung Lo si possono accostare alla politica estera del famoso faraone Amenophis IV (1370-1352, della XVIII dinastia egiziana), meglio noto come Akhenaton per via del suo straordinario, ma effimero tentativo di riforma religiosa in senso monoteista, imperniata sul culto del dio solare, Aton appunto. Pare che Amenophis IV fosse un convinto “pacifista” e che, nelle sue relazioni diplomatiche con gli stati vicini del Medio Oriente, abbia cercato di astenersi da ogni conflitto in nome di una convivenza basata sulla tolleranza; esperimento che durò pochissimo e che, del resto, non si può paragonare al regno pacifico di un Antonino Pio, in quanto ispirato non da circostanze casuali, ma da una deliberata volontà di evitar