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In nome di Lenin e di Stalin*

di Gianni Petrosillo - 29/07/2010

CON IL MIO AMICO LENIN

 



   Qualche tempo fa era stato Bifo a dare del pazzo a Lenin, avanzando l’ipotesi che le manie depressive di quest’ultimo fossero alla base dell’involuzione sanguinaria del bolscevismo militante e dell’intero sistema sovietico.

   Prima di lui però altri ex “specialisti” intellettualoidi della rivoluzione proletaria, vedi Marco Revelli o Adriano Sofri, avevano inaugurato una più vasta operazione di revisione di quel periodo storico e di tutto il novecento, non per venire a capo degli eventuali errori ed orrori di una stagione confusa ma comunque pieni di ideali e di aspirazioni nobili, quanto piuttosto per “onorare” logiche “strettamente  personali”. Si trattava di recuperare consenso sulla scena intellettuale e nel panorama editoriale dominante con una dimostrazione di ravvedimento culturale e di ripensamento morale, a rinnegamento completo della precedente linea politica che li aveva portati alla ribalta.
  Giustamente, Costanzo Preve definì il pentimento della banda degli ex di Lotta Continua (ma non solo di questi come attesta l’esempio di Franco Berardi e di tanti altri) “uno sgradevole fenomeno sociologico, morale ed editoriale” che alimentando la fandonia della “leggenda nera del novecento, secolo diabolico in cui l’utopia della virtù si è rovesciata in terrore (Hegel, Merleau-Ponty, Furet, eccetera), ed in cui il comunismo non è stato che l’applicazione politica del livellamento fordista al mondo sociale” testimoniava, tutt’al più, della pietrificazione dottrinale e dell’inconsistenza politica di quei quattro leaders da strapazzo i quali, a cavallo dei ’60 e dei ’70, si erano messi in testa di fare la rivoluzione in Italia in assenza di condizioni materiali adeguate. Già questo la dice lunga sul senso di responsabilità di questi venditori di fumo che se solo fossero diventati davvero classe dirigente conquistando il potere, data l’incompetenza e l’immoralità dimostrate, sarebbero stati dieci, cento, mille volti peggiori dei capi dell’URSS. In tali faccende, sono soprattutto lo spontaneismo e l’improvvisazione  teorica ad anticipare i peggiori crimini contro l’umanità e non l’ideologia (va-riamente declinata) che è comunque una forma di rappresentazione della realtà e delle possibili opzioni per modificarla.

  Dopo siffatti cialtroni tocca adesso ad un altro ex lottacontinuista come Paolo Mieli impancarsi per dare lezioni magistrali su nomi e fatti dell’URSS post-rivoluzionaria.  Il tono della narrazione, ça va sans dire, è del tipo “splatter” e gli eventi che caratterizzarono l’instaurazione dell’Unione Sovietica vengono presentati al pubblico su uno sfondo di brutalità e soprusi senza limite. Il citato giornalista, sul Corriere della Sera, ci ha regalato una lenzuolata su Lenin padre del terrore e su Stalin continuatore zelante di cotanta inciviltà. Il tutto riassumibile in due parole: Socialismo è barbarie.
   Questa volta il vero obiettivo di Paolino lo sfigato non era però il georgiano (ormai quest’ultimo è così ben incasellato tra peggiori dittatori dell’umanità che non c’è pericolo che esca dalla classifica) ma quell’esempio intatto e politicamente troppo evocativo, per sostenitori e detrattori, rappresentato dall’uomo della Lena. Nel discorso di Mieli la ragione storica, per ottenere gli effetti desiderati, de-ve necessariamente cedere il passo alla statistica delle persecuzioni e degli ammazzamenti, secondo uno schema ben collaudato che riduce il passato ad un florilegio di genocidi preventivamente depurato degli eventi scomodi per i dominanti.

   Lenin è ancora oggi l'exemplum da cancellare, qui sta il succo di tanto accanimento da parte di Mieli e dei suoi sodali della carta stampata e dell’editoria. Ciò che non gli si perdona è di aver fatto la frittata rivoluzionaria, di aver rotto le uova e gli indugi e di aver creato un pericoloso precedente non ancora neutralizzato dal pensiero unico imperante.

   Poiché Mieli non sa assolutamente nulla di storia si permette di affermare che il regime sovietico fosse addirittura più oppressivo di quello zarista e che lo Tsar medesimo non raggiunse mai tali livelli di follia omicida. Il giornalista del Corriere finge però di dimenticare che non furono i sovietici a trascinare la Russia in quella macelleria dei popoli che fu la I guerra mondiale, e che anzi era stato proprio Lenin, solo contro tutti, a tirare fuori gli oppressi dell’est dal massacro interimperialistico del 14’-18’, lottando contro le posizioni guerrafondaie dei menscevichi, dei S.R. e degli stessi membri del partito bolscevico, dubbiosi sui tempi secondo i quali richiamare le truppe dal fronte.
   Come ho scritto altrove, l’unica voce avversa al conflitto fu quella isolata di Lenin. Costui, allorché il Comitato Centrale del Partito Bolscevico sceglieva di  temporeggiare sulla concessione dell’autorizzazione alla firma degli accordi di pace - in quanto non disposto a cedere importanti fette di sovranità su Estonia, Lettonia, Transcaucasia e altri territori occupati dai tedeschi, nonché a pagare le cospicue riparazioni di guerra richieste dai nemici - tenne ugualmente ferma la barra sul ritiro immediato evitando alla sua nazione un epilogo ancor più cruento.

   Mieli questo lo sa? E Mieli ha mai sentito parlare della domenica di sangue del 1905 quando Ulani e Cosacchi trucidarono senza pietà, con sciabole e fucili, contadini, operai, sudditi e fedeli che, guidati dal Pope Gapon, volevano soltanto incontrare il loro sovrano per ottenere pane e pietà? Questi uomini non avevano in mano bandiere rosse e armi ma sacre icone ed una petizione per Nicola II: “Noi operai, abitanti di Pietroburgo, siamo venuti a te. Noi siamo miseri, gli schiavi oltraggiati, oppressi dal dispotismo e dall’arbitrio. Quando il calice della pazienza fu colmo, cessammo di lavorare e chiedemmo ai nostri padroni di darci il minimo necessario, senza il quale la vita è un supplizio. Ma tutto questo ci fu rifiutato: tutto ciò sembrò illegittimo ai fabbricanti. Noi che siamo qui, in molte migliaia, al pari di tutto il popolo, non abbiamo nessun diritto umano. Per causa dei Tuoi funzionari noi siamo diventati schiavi” Come riporta sempre Lenin nel testo la Rivoluzione del 1905 la petizione aveva questa conclusione, equivalente più ad una ingenua supplica che ad una rivendicazione di classe: “Sovrano! Non rifiutarti di aiutare il Tuo popolo! Abbatti il muro che esiste fra Te e il Tuo popolo! Ordina e giura che i nostri voti saranno realizzati e Tu renderai felice la Russia; se non lo farai siamo pronti a morire qui. Noi non abbiamo che due vie: o la libertà e la felicità o la tomba”. E tomba fu: centinaia di morti e migliaia di feriti caddero davanti al Palazzo d’Inverno con le immagini dell’imperatore e dei santi tra le mani. E Mieli il dilettante si sorprende delle efferatezze, di certo non gratuite, che poi il popolo riservò ai cosacchi e ai Romanov quando fu il momento di fare i conti con la tirannide che lo aveva angariato per secoli.
   Inutile negare, invece, che nella prima fase di costruzione della nuova Formazione Sociale Socialista, e per un lungo periodo successivo, la pressione delle città sulle campagne fu sempre al limite del tollerabile, mentre i propositi di arginare l’influenza dei Kulaki (i contadini ricchi) sulla società rurale, cioè  sullo strato dei contadini medi e poveri, risultavano spesso vani proprio a causa dell’incapacità di modificare radicalmente i rapporti sociali tra le classi in lotta.
   Come ho scritto in un articolo apparso sull’ultimo numero di Eurasia quando Lenin, all'inizio della Nep, insisté sul consolidamento dell'alleanza tra gli strati inferiori della città e della campagna (la Smycka) aveva ben presente il livello dei rapporti sociali e l'andamento delle lotte di classe nella Russia post-rivoluzionaria. Da tale punto di vista, la Nep più che mera politica economica fu uno sforzo rivolto a rinsaldare l’alleanza tra questi due gruppi, in mancanza della quale sarebbe stato impossibile ottenere un seppur minimo ordine sociale ed economico. Siccome questa saldatura non si concretizzava era inevitabile che crescessero gli attriti e scontri tra contadini e potere bolscevico, contrasti che purtroppo sono spesso sboccati in forme di dura repressione. Ad ogni modo o si agiva così o si buttava a mare tutto tornando all’età della pietra.

   Quanto a Stalin, ormai passato alla storia come il divoratore di uomini o il continuatore dei gulag, (poiché la fondazione dei campi concentrazionari viene attribuita da Mieli a Lenin) dobbiamo ram-mentare il suo ruolo e quello del suo popolo nella II guerra mondiale. Anche un reazionario, molto meno saccente e arrogante dell’ex direttore  del Corriere, del calibro di Zbigniew Brezinski ha ri-cordato in  un saggio che è stata l’URSS a fermare il nazismo mentre gli americani arrivarono in Europa a giochi già fatti, giusto in tempo per godersi una gloria alla quale avevano contribuito in minima parte. Infine, Stalin fu un protagonista decisivo della proiezione della Russia a superpotenza mondiale in opposizione agli Usa. Come ha ben scritto La Grassa, l’URSS pur non realizzando il comunismo “avrebbe comunque mutato i ‘connotati’ (strutturali, ma in senso geopolitico e non ‘di classe’) del mondo contemporaneo”. Già questo ha evitato all’umanità ulteriori ostilità e guerre che invece sono dilagate in epoca monopolare, dopo la caduta dei paesi del socialismo realizzato, e che, probabilmente, si intensificheranno con l’entrata delle nazioni  nella fase policentrica.
  Mi chiedo se adesso verrà fuori almeno un Valerio Evangelisti qualsiasi, meno parziale e ideolo-gizzato dell’originale, a smerdare i mercanti di cotante menzogne  che seguitano ad infangare la no-stra identità e storia politica. Purtroppo ne dubito assai perché ormai questi imbecilli hanno il cervello saturo di Baygon, cosicchè, invece di concentrarsi sulle questioni serie preferiscono ergersi a giustizieri spaziali all'inseguimento degli ultracorpi rosso-bruni. Ripeto, sono degli imbecilli e forse anche prezzolati. Con questo chiudo.

*(riceviamo e volentieri pubblichiamo. ndr)