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Ritengo che il tema dei grandi centri commerciali extraurbani non possa che essere letto in modo sistemico e quindi in stretta relazione con i temi che afferiscono alla città, al territorio e all’ambiente in senso integrato.
Si può sostenere in particolare che le cosiddette “cittadelle del commercio”, un fenomeno che in Italia tende a svilupparsi intorno alla fine degli anni ottanta e che si consolida sempre più nel decennio successivo, con l’odierna variante degli ormai “famosi” outlets, possano incrementare le esternalità negative che già derivano da un fenomeno al quale spesso si sovrappongono e che è altrettanto preoccupante, il cosiddetto sprawl, la diffusione/sparpagliamento dell’urbanizzato, che avviene indiscriminatamente, su tutto il territorio.

L’incremento del consumo di suolo agricolo, della congestione veicolare e dell’inquinamento legati ad un altrettanto veloce scadimento della qualità della vita, dell’abitare nelle nostre città e più in generale dell’ambiente, sono forse gli esempi più visibili delle conseguenze che possono derivare anche dalla correlazione dei fenomeni sopraccitati.

Ma quali sono le motivazioni dell’affermarsi dei grandi centri commerciali extraurbani? Vorrei fare una critica di tipo costruttivo in merito, non solo di esclusiva denuncia del fenomeno in questione.
La previsioni localizzative dei centri commerciali si identificano infatti – nel migliore dei casi, ovvero quando non rispondono ad esclusivi interessi economici - come la risposta ad una domanda di beni e servizi che nasce dal territorio, o meglio, ad una domanda che denuncia un problema latente che non trova nei sistemi urbani e nelle politiche di governo del territorio una propria risoluzione.

Il problema evidente è la mancanza di strutture e di infrastrutture (fisiche e sociali) adeguate ed in grado di soddisfare le esigenze e i bisogni dei cittadini. A titolo esemplificativo, fra le prime potremmo includere tutte le forme di “riqualificazione” urbana, sia in chiave sociale che territoriale, e di offerta culturale e di loisir che mancano spesso nei piccoli centri urbani; le seconde si identificano invece come la carenza di adeguati servizi di supporto alla fruizione della città: un sistema efficiente di trasporto pubblico locale e sovralocale che sia alternativo all’uso del mezzo privato, un adeguato sistema di accoglienza e di housing sociale di qualità.

Paradossalmente anche i piccoli centri urbani di provincia, ma anche alcune città medio-grandi, assomigliano sempre più a ciò che il celebre sociologo Marc Augè ha definito con il consolidato concetto di non-luogo, ossia “un mondo promesso al provvisorio e all’effimero, spazio intermittente e senza storia, puro incrocio di mobilità e di traiettorie, nel quale individui senza volto si sfiorano senza parlarsi…Chi entra in questi spazi rinuncia alle proprie determinazioni abituali: diventa solo quello che fa come passeggero, cliente, guidatore. Partecipa all’identità anonima di una comunità provvisoria:la coesistenza di individualità distinte, simili e indifferenti le une alle altre ( Augè,1992)”.

Stante a quanto scritto sinora, si può quindi affermare, senza toni nostalgici, che esiste la necessità di un “ritorno alla città” e al territorio in senso tradizionale, alla città “compatta” delle relazioni autentiche, in luogo di quella diffusa. Esiste infatti il bisogno di ritornare alla dimensione culturale e sostenibile dell’abitare in ambito urbano, di ricostituire le reti sociali e di vicinato e i cosiddetti “centri commerciali naturali”, i luoghi del commercio “umano” delle vie cittadine, e tutto ciò può essere stimolato con opportune politiche urbane e territoriali, o altrimenti dovremo fare i conti con la carica di socialità, autentica o non autentica che sia, che i centri commerciali stanno assumendo.

A tal fine è importante intraprendere azioni atte a favorire una nuova attrattività e accessibilità alle nostre città, ma per far questo le stesse devono essere realmente considerare come un patrimonio di tutti i cittadini, per cui tutti gli abitanti sono tenuti ad operare per la loro riqualificazione e rivitalizzazione, attraverso forme di pianificazione e progettazione partecipata e con un atteggiamento di attenzione al bene comune e di stimolo degli amministratori locali.

In questo quadro, le pubbliche amministrazioni dovrebbero quindi assumere un ruolo di coordinamento degli attori locali ed operare per individuare strategie ed azioni concrete (in un’ottica di regia proattiva), al fine di ricostituire l’ormai perduto milieu urbano, l’insieme delle specificità culturali e identificative, proprie e specifiche di ogni singola comunità locale.

Inoltre dovrebbero essere programmate adeguate politiche temporali urbane, da attuare mediante specifici strumenti di pianificazione da predisporre per lavorare sugli aspetti orari e temporali delle funzioni urbane: mobilità, spazi e attività collettive, servizi di interesse pubblico, fra cui le attività commerciali della città, che potrebbero disporre di orari più flessibili e “competitivi” con quelli di apertura/chiusura dei centri commerciali.

Non si tratta però di far nascere esclusive dinamiche concorrenziali tra centri commerciali e città, piuttosto di re-instaurare modelli di vita urbana più armoniosi e rispettosi degli esseri viventi e del territorio.
E’ solo mediante la definizione di un quadro complessivo d’insieme che tenda ad essere costruito tenendo conto di più aspetti della società in modo congiunto che si possono creare delle alternative di vita valide, che siano fondate su un modello di sviluppo diverso, orientato alla qualità della vita, e che più ci possono permettere di valorizzare le risorse ambientali e umane, senza alterare in modo prepotente i delicati equilibri ecologici, economici e sociali, come avviene invece odiernamente.