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Elogio dell’imbecille

di Mario Grossi - 02/08/2010


È un dato di fatto, non è una dichiarazione carica di presunzione da chi pensa, a torto, di essere un intelligentone. Che sia innata oppure indotta dalla società, dalla cultura o dalle consuetudini, la stupidità è una presenza ingombrante, tanto che molti si sono presi la briga di investigarne le cause e gli effetti, l’origine e gli eventuali approdi.

Tra gli ultimi, Pino Aprile con un breve saggio edito da Piemme nel luglio scorso che porta l’abusatissimo titolo Elogio dell’imbecille. Peccato per il titolo privo di fantasia e ultimo di una serie infinita di stucchevoli “elogi” perché il libro è curioso e divertente, costruito con argomentazioni lineari nella loro ovvietà. L’autore, famoso per aver scritto di recente Terroni, ci riprova e credo avrà successo.

Tutte le argomentazioni, che messe insieme configurano una teoria generale, partono da una semplice constatazione. La stupidità, presente da sempre nel mondo tende a crescere costantemente.

Perché, si domanda l’autore, sulla terra ci sono tanti imbecilli? E perché, dovunque gli stupidi prosperano, riuscendo spesso a raggiungere posizioni di successo e di potere? In fin dei conti se l’intelligenza, come sempre si è creduto, è il motore del progresso e sancisce il successo dell’uomo perché è sempre meno presente sul pianeta?

La risposta di Pino Aprile è di quelle che risvegliano una lettura sonnacchiosa. Lo scopo della selezione naturale per tutti gli animali è quella di assicurare la sopravvivenza  e per assicurare la sopravvivenza sono selezionate quelle caratteristiche che meglio si adattano a tale scopo.

Se nel nostro lontano passato l’intelligenza si è dimostrata lo strumento più utile per portare i nostri antenati al successo fatto di popolamento di tutti gli spazi disponibili, di incremento numerico della specie, oggi, che il successo è avvenuto, non è più necessaria per assicurare il predominio sul globo ed è per questo che viene abbandonata.

Insomma oggi non è più necessario essere intelligenti per sopravvivere, tutti i problemi che potevano essere risolti con l’intelligenza sono alle nostre spalle e la selezione naturale abbandona questo strumento utilissimo nel passato per avvalersi di altri.

L’errore, spiega l’autore, sta nel fatto di credere che l’intelligenza sia una caratteristica acquisita e stabile del genere umano e non uno strumento messo in mano alla selezione naturale in un particolare momento per assicurare il trionfo della specie.

Il punto di partenza di queste considerazioni sono gli ominidi al loro comparire. Pochi e deboli, in un ambiente ostile, i nostri progenitori hanno sviluppato quei caratteri che nel loro complesso vanno sotto il nome di “intelligenza” appunto per sopravvivere in tale mondo.

«Sul nostro pianeta, la regola per la sopravvivenza è “il numero o la forza”; non l’uno e l’altra». «La regola è questa: i pochi hanno la forza, i deboli hanno il numero». «I deboli e rari non hanno futuro». Questa era la condizione degli ominidi: pochi e deboli. Fu dall’istinto di conservazione che scaturì una via di salvezza nuova, variante della forza, che infranse la regola: l’intelligenza.

Oggi che il nostro numero ci ha assicurato di prosperare oltre ogni misura, l’intelligenza ha esaurito il proprio ruolo: non è più necessaria, e viene dismessa come, in passato, altre caratteristiche caduche.

«Come ogni altra specie, noi abbiamo un solo, esclusivo interesse: salvare noi stessi. La gazzella non corre per garantire la sopravvivenza della velocità; il leone non azzanna per tramandare la forza. Così l’uomo non vive per scongiurare l’estinzione dell’intelligenza, che è semplicemente un mezzo, comodo finchè serve, ma provvisorio, ove se ne trovasse uno migliore».

Oggi che lo scopo della nostra sopravvivenza è compiuto, l’intelligenza non serve più, almeno non tanta quanta ne fu necessaria in passato. Per la continuità della specie importa la quantità e non la qualità. All’aumento della “massa biologica” cresce la sicurezza e diminuisce la necessità di avvalersi degli intelligenti.

Anzi oggi siamo in piena esplosione demografica ea mentre cresce il nostro corpo, inteso come numero di persone presenti tra i poveri e come peso corporeo tra i ricchi, non cresce la massa cerebrale, tanto da poter dire che il rapporto tra massa e cervello tende a diminuire.Questo è un primo indizio per dire che la selezione naturale dopo aver percorso la via dell’intelligenza, ha imboccato ormai quella della quantità.

Un secondo indizio è rappresentato dallo studio comparato delle masse cerebrali. Quella dell’uomo di Neanderthal era di circa 1600 centimetri cubici, la media dell’uomo moderno è di circa 1300 centimetri cubici.

È vero che l’intelligenza non si misura solo un tanto al chilo e che il cervello ha qualità per come si usa, ma l’unico dato relativamente certo è questo. La nostra evoluzione ci spinge ad avere corpi più grandi e cervello più ridotto.

Altro indizio che la natura si sta muovendo verso una selezione che tende a reprimere l’intelligenza, è la costatazione che il cervello dell’uomo non può aumentare senza limiti senza che si creino problemi con quella che è la strettoia pelvica. Un cranio oltre certe dimensioni provoca, durante il parto, la morte della madre e del nascituro. Ne consegue che un neonato ha maggiori possibilità di sopravvivenza se ha la testa piccola (ed un cervello di conseguenza di dimensioni correlate).

Ma la Natura agisce, alla nascita, anche con altre trappole sempre per opporsi alla troppa intelligenza. Un riduttore dell’intelligenza è rappresentato dall’insulto ipossico, quel breve ma grave momento in cui, staccato dal cordone ombelicale, il bambino, prima di respirare autonomamente con i suoi polmoni, ha un intervallo asfittico durante il quale una parte di cellule neuronali muore. Si parla di 200/300 milioni di cellule, numero esiguo rispetto al totale, ma indicativo di una volontà di potatura naturale dell’intelligenza.

A fianco della selezione naturale poi agisce una selezione culturale che si affianca a questo processo che tende a deprimere la qualità.

L’uomo è l’animale in cui l’aggressività intraspecifica è stata potenziata ai massimi livelli. Ne è testimonianza la guerra. «Basti pensare a che cosa è una battaglia: l’occasione per radunare in uno stesso luogo i più forti e i più validi, di una parte e dell’altra, e di farli fuori».

«Il codardo scappa e ingravida la vedova dell’eroe».

«L’aggressività intraspecifica opera una scrematura del genere umano, una riduzione chirurgica del suo valore; è uno strumento creato dall’evoluzione per abbassare il nostro livello qualitativo».

Lo impararono a loro spese i Greci che radunarono sotto le mura di Troia i più belli, i più forti, i più intelligenti, i più dotati della loro stirpe.

«In patria rimasero gli scarti. I più tonti, i più vili e gli inabili; a loro toccò di provvedere alla continuità della razza». Con il risultato che, poche decine di anni dopo, i resti degli Achei furono sottomessi senza sforzo dai Dori.

«A Sparta, solo ai migliori era concesso l’onore di andare in battaglia, a patto però che avessero già dei figli».

Ma anche gli istituti umani organizzati gerarchicamente spingono in questa direzione come è dimostrato dal principio di Peter che postula: «In qualsiasi gerarchia, ognuno tende a essere promosso, finchè non raggiunge il suo livello di incompetenza; pertanto ogni incarico è destinato a finire nelle mani di un incapace».

Il principio di Peter agisce secondo un meccanismo logico abbastanza semplice. Chiunque entra in organismo gerarchico e svolge bene il suo lavora di solita fa carriera, passo dopo passo, se si comporta bene, è probabile che sarà ancora promosso. Fino a quando non ottiene un incarico con un grado di difficoltà superiore alle sue capacità. A questo punto la sua carriera si arresta, ma non verrà degradato, continuerà a occupare quel posto che ha fatto emergere la sua natura di incapace e per il qual si è dimostrato inadatto.

Così come vivere insieme agli altri in una società che, anche se molto vasta, notoriamente è composta da una miriade di organizzazioni più piccole. Si possono classificare i diversi gruppi umani secondo il livello di capacità intellettuali richiesto per diventarne membri. Per entrare in un club di tifosi del Milan, i requisiti sono minimi: basta saper gridare “forza Milan”. Per essere accolti nella ristretta comunità degli astrofisici, sono necessarie ben altre doti.

Ma il punto è che, in entrambi i casi, il livello intellettuale che identifica il gruppo coincide con il requisito minimo per aderirvi.

Questo fa sì che anche la vita sociale agisce come un depotenziatore dell’intelligenza. Lo stare insieme ha un effetto deprimente sullo sviluppo e perfino sul semplice esercizio delle facoltà mentali perché comporta un livellamento verso il basso.

Ma allora: come è possibile che la società continui il suo cammino nonostante l’aumento della stupidità? Per Pino Aprile c’è una sola risposta possibile: «l’intelligenza non è (più) necessaria per far marciare il mondo: l’imbecillità sa farlo altrettanto bene. E persino meglio».

L’errore è dare, sulla stupidità, un giudizio etico o estetico. Essa va considerata “tecnicamente”, alla pari dell’intelligenza, come uno degli strumenti di cui l’evoluzione può disporre. Se l’imbecillità avesse un valore negativo per la nostra specie, i casi sarebbero due: o ci saremmo estinti da un pezzo, o non ci sarebbero più cretini.

Non c’è altra conclusione che questa: l’imbecillità è necessaria alla sopravvivenza della nostra specie, per quanto possa dar fastidio agli intelligenti rimasti.

Tutti cretini e contenti? Buona lettura!