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Musulin e Forgach, le due «eminenze grigie» che precipitarono la guerra del 1914

di Francesco Lamendola - 01/09/2010



La storiografia di matrice idealista, in tutte le sue varianti dall’hegelismo, al crocianesimo, allo stesso marxismo, ci ha abituati, e male abituati, a vedere nella storia (ci stava sfuggendo dalla penna l’espressione «nei processi della storia», come se fosse assiomatico che la storia sia un processo o un insieme di processi, quindi una vicenda organica ed evolutiva) lo svolgimento di una marcia inarrestabile dell’Idea e una incarnazione dello Spirito Assoluto, volta a volta nella fattispecie dello Stato, del Progresso, del Comunismo.
Di conseguenza siamo ormai assuefatti a dare per scontato che gli eventi della storia, e specialmente i grandi eventi, non possano essere frutto del caso, o essere largamente influenzati da circostanze casuali; perché anche il caso, in effetti, non sarebbe che una delle strategie adottate da una razionalità occulta per portare a compimento i suoi piani («l’astuzia della ragione», diceva Hegel, con l’aria compiaciuta di uno che ritiene di saperne più di Dio stesso).
La prima guerra mondiale, per esempio, non poteva non scoppiare e non poteva non portare alla luce le contraddizioni di quella che Lenin chiamava la fase suprema del capitalismo, ossia l’imperialismo: come se l’imperialismo non fosse una veste che chiunque può indossare, anche uno Stato marxista-leninista, come ben si è visto nel corso del XX secolo!
Invece, più si studia con imparzialità e con mente sgombra da preconcetti la crisi politica e diplomatica del luglio 1914, più se ne ritrae la forte convinzione, che diviene quasi una sensazione fisica, che una quantità di circostanze estemporanee abbiano dato la spinta definitiva in direzione della guerra ad una situazione che era ancora aperta, apertissima a sviluppi diversi; e che a ciò abbiano contribuito da un lato la pochezza, l’imprevidenza, la superficialità e l’avventurismo di non più di una dozzina di statisti e ambasciatori, dall’altro, le manovre occulte di gruppi di potere segreti (primi fra tutti, la Massoneria e il Sionismo), ben decisi a perseguire i loro scopi particolari, a costo di mettere l’Europa e il mondo a ferro e fuoco.
Per ora, ci limiteremo a una breve riflessione sul primo aspetto e, più in particolare, sul ruolo decisivo giocato da due oscure figure di funzionari di second’ordine del ministero degli Esteri austro-ungarico: Alexander Musulin e Janos Forgach; a riprova del fatto che non sempre, come diceva Disraeli, i veri protagonisti della storia sono gli uomini di potere che agiscono sotto i riflettori della stampa e dell’opinione pubblica, ma - al contrario - sono delle figure che stanno nell’ombra e che muovono i “potenti” come burattini, sfruttandone debolezze e insufficienze; delle autentiche “eminenze grigie” che il grosso pubblico, forse, non arriverà a conoscere neppure dopo decenni e secoli che gli eventi storici si sono verificati.
Il conte Janos (Johann) von Forgach, nato nel 1870 e morto nel 1935, fu ambasciatore austriaco a Rio de Janeiro dal 1905 al 1907 e poi a Belgrado, dal 1907 al 1909; in questo secondo incarico si trovò a svolgere un ruolo importante nella crisi del 1908, allorché l’Austria-Ungheria, con mossa unilaterale, si annetté l’ex provincia ottomana della Bosnia-Erzegovina (già militarmente occupata dal 1878), rischiando di provocare una conflagrazione europea, che fu evitata solo perché la Russia, uscita da poco dalla sconfitta con il Giappone e dalla rivoluzione del 1905, non osò reagire alla mossa dell’Austria, sostenuta dalla Germania.
Nel 1909, tuttavia, sembrò che la brillante carriera di Forgach fosse terminata, perché il conte risultò coinvolto in un clamoroso caso giudiziario a sfondo diplomatico (fuga di notizie all’estero e alto tradimento), il cosiddetto processo Friedjung di Agram (Zagabria) e al termine di esso, pur evitando la condanna, venne spedito a Dresda in una sorta di esilio professionale, che durò dal 1911 al 1913.
Ma il destino fu straordinariamente benevolo con Forgach (forse un po’ meno con la sua patria e con l’Europa), perché nel 1912 divenne ministro degli Esteri austro-ungarico il conte Berchtold, suo estimatore ed amico d’infanzia, che lo volle a capo della Seconda Sezione del Ballhausplatz, in pratica la Sezione Politica del ministero. In tale veste egli esercitò un ascendente molto forte sul suo diretto superiore, uomo ambizioso e al tempo stesso indeciso, di cui divenne l’inseparabile confidente e consigliere in tutte le questioni di maggiore importanza.
Insieme al conte Hoyos, capo di Gabinetto di Berchtold, ed allo stesso Musulin, fu uno dei cosiddetti “giovani ribelli”, ossia un gruppo di giovani diplomatici della Duplice monarchia che auspicavano una linea di azione più aggressiva in politica estera, ai quali faceva sponda, dalla parte dell’esercito, l’altrettanto aggressivo capo di Stato Maggiore, generale Conrad von Hötzendorf. Essi erano convinti che l’unica maniera per allontanare la minaccia del nazionalismo serbo e, più in generale, di una possibile disintegrazione dell’Impero, fosse quella di prevenire le mosse dei nemici esterni ed interni, sferrando una guerra preventiva contro la Serbia e mettendo quest’ultima in condizione di non costituire più una minaccia.
Già nel 1913, dopo la seconda guerra balcanica, il gruppo dei “giovani ribelli” aveva caldeggiato un attacco fulmineo contro la Serbia, pericolosamente rafforzata, a loro avviso, dalla vittoria sulla Bulgaria; progetto che era stato lasciato cadere solo perché a Vienna non si era certi del sostegno tedesco, né della remissività del governo di Pietroburgo. Ma durante la crisi del luglio 1914 Forgach svolse un ruolo importantissimo, e forse decisivo, nell’istigare Berchtold alla guerra e nel far redigere l’ultimatum austriaco alla Serbia in termini così arroganti, che nessuna nazione al mondo avrebbe potuto accettarlo integralmente, senza abdicare alla propria sovranità.
I calcoli di Forgach e di Musulin si rivelarono del tutto erronei: invece di una rapida azione di forza o, al massimo, di una guerra circoscritta nei Balcani, l’Austria andò incontro a capofitto ad una guerra mondiale che, dopo più di quattro anni di sofferenze inaudite e di devastazioni rovinose, ne segnò la totale scomparsa dalla carta geografica.
Eppure si vede che Forgach continuava ad avere parecchi “santi” in Paradiso, perché nemmeno il clamoroso fallimento del suo disegno politico fu sufficiente a troncare la sua funesta carriera diplomatica: infatti egli rimase ad occupare il suo posto al Ballhausplatz fino al gennaio del 1917, apparentemente inamovibile (mentre Berchtold, il suo capo, aveva dovuto andarsene fin dal gennaio 1915). Solo con la morte di Francesco Giuseppe e con l’ascesa al trono del giovane Carlo I d’Asburgo vi fu, ma ormai troppo tardi, un certo avvicendamento ai vertici politico-miliari dell’Impero. Forgach fu mandato a Kiev come plenipotenziario austriaco, in seguito al trattato di pace stipulato il 9 febbraio 1918 fra gli Imperi centrali e la Repubblica di Ucraina, la cosiddetta “pace del pane”.
Ma la speranza austriaca di risolvere le proprie difficoltà alimentari, divenute sempre più drammatiche, importando il grano dell’Ucraina, si rivelò ben presto illusoria, a causa del caos politico e militare che travolse la giovane repubblica, presa nel vortice delle lotte fra Bianchi e Rossi, fra nazionalisti e Cosacchi. Alla fine, nel novembre del 1918, Forgach venne richiamato in patria, quando ormai la sconfitta dell’Austria e della stessa Germania nella prima guerra mondiale era un fatto compiuto; e trascorse a Budapest il resto della sua vita (sua moglie, Gabriella Lovassy von Szakàl, vivrà fino al 1972).
Il barone Alexander Musulin svolse un ruolo altrettanto importante e altrettanto mal conosciuto di quello di Forgach nella crisi di luglio del 1914, anch’egli nella veste ufficiale di consigliere del ministro degli Esteri; fu lui, anzi, a redigere materialmente l’ultimatum alla Serbia che innescò la spirale inarrestabile delle dichiarazioni di guerra.
A proposito di quell’episodio decisivo della sua carriera diplomatica, Musulin è stato poi intervistato dal direttore del «Corriere della Sera», Luigi Albertini, che ne riferisce nel suo ormai classico studio «Le origini della guerra del 1914» (il primo volume è stato ristampato dalla Libreria Editrice Goriziana nel 2010, seguiranno il secondo e il terzo volume).
Come il suo collega Forgach, cui era intimamente associato, Musulin aveva svolto l’incarico di ambasciatore a Belgrado e, pertanto, conosceva di persona la capitale “nemica” che intendeva colpire; era stato anche - prima e dopo l’incarico a in Serbia - ambasciatore in Russia, per cui conosceva anche, o avrebbe dovuto conoscere, gli umori della corte zarista riguardo ai problemi balcanici. Eppure queste conoscenze di prima mano non gli furono di alcun aiuto nel giudicare la situazione, visto che o ritenne che il governo di Pietroburgo non si sarebbe mosso in aiuto dei Serbi, oppure che, anche facendolo, l’Austria, spalleggiata dalla Germania, non avrebbe avuto niente di serio da temere.
In pratica, gli mancò completamente la capacità di giudicare il problema serbo nel contesto europeo; non tenne conto, inspiegabilmente, dell’alleanza militare che legava la Francia alla Russia, né delle probabili mosse dell’Inghilterra, se la Francia e la Russia fossero state coinvolte in un conflitto contro la Germania. Vide l’attentato di Sarajevo esclusivamente nell’ottica dei problemi interni dell’Austria-Ungheria e della supposta necessità di tagliarli con la spada, impartendo una drastica lezione alla Serbia. Sottovalutò l’avversario, ignorò l’impossibilità, per l’Austria, di far fronte a una guerra generalizzata di lunga durata; non si curò della Romania e consigliò Berchtold di tenere volutamente all’oscuro l’alleata Italia dei suoi piani aggressivi: insomma, non ne indovinò una e puntò il destino della sua patria al tavolo di un tragico gioco d’azzardo.
Veramente, gli storici discutono ancora sul peso effettivo dell’azine di Musulin nella crisi di luglio; alcuni lo vorrebbero nel ruolo di semplice esecutore di direttive superiori, anche se fu chiamato, proprio per le sue doti di scrittore, a redigere personalmente la nota ultimativa per il governo di Belgrado. È certo, comunque, che fu chiesto il suo parere sulla risposta che Pasic fece recapitare al Ballhausplatz: parere che dovette essere totalmente negativo, se è vero che subito dopo il governo di Vienna dichiarò la guerra alla Serbia, Eppure, il mattino del 28 luglio, quando gli giunse comunicazione della risposta serba, lo stesso Guglielmo II, che fino ad allora aveva spinto i governanti austriaci ad agire con piglio deciso, si lasciò sfuggire, in una delle sue famose note scritte, che ogni causa di guerra era caduta e che la crisi era superata.
A guerra finita, Musulin scrisse un libro di memorie: «Das Haus am Ballplatz: Erinnerungen eines österreich-ungarischen Diplomaten» (Munich, 1924). L’opera contiene alcuni giudizi singolari, come ad esempio il seguente: «Gli uomini di governo principali della Monarchia credevano che la solidarietà degli interessi conservatori e dinastici europei si sarebbe manifestata verso di essi anche nel 1914; e lo credevano specialmente riguardo alla Russia». Una opinione che conferma come egli, che pure aveva soggiornato in Russia come ambasciatore, era così cattivo giudice di quel Paese, da pensare che la solidarietà dinastica dei Romanov verso gli Asburgo per l’attentato di Sarajevo sarebbe prevalsa sulle linea maestra della sua politica estera fino allora dettata dal panslavismo, che vedeva nell’Austria il principale ostacolo sulla via dell’espansione verso i Balcani, verso Costantinopoli e verso il Mediterraneo.
Il ruolo, oscuro e tuttavia determinante, svolto da queste due «eminenze grigie» nel consigliare, e mal consigliare, il ministro degli Esteri Berchtold nei giorni della crisi di luglio, è stato sinteticamente ma efficacemente ricordato dall’ottimo Giuseppe Romolotti nel suo ormai classico «1914, suicidio d’Europa» (Milano, Mursia, 1964, pp. 153-155):

«… oltre alle persone di proscenio e cioè ai personaggi di primo piano, noti ed appariscenti, hanno agito, spesso in modo determinante, personaggi pressoché oscuri: funzionari d’ambasciata, uomini di scarso nome, ma di reale ascendente. Tutto questo è risultato vero soprattutto a guerra da gran tempo finita, e molte zone oscure sono stare illuminate in modo a volte sconcertante. Citiamo, alla rinfusa, qualche nome: è noto l’ascendente che ebbe sempre Holstein, “eminenza grigia” della diplomazia tedesca, ancora al tempo di Bülow; ma non è altrettanto noto come, in Austria, il conte Berchtold, uomo di grande vanità, ma di scarsa personalità, si sia giovato e a volte abbia subito la prevalente azione di Forgach e di Musulin. Queste due figure, anche in sede di ricostruzione storica, sono rimaste quasi nell’ombra, eppure è nettamente provato che, ferma restando la responsabilità ufficiale della linea d’azione adottata da Berchtold, i due funzionari agirono con ambizioso, meschino machiavellismo a mettere a punto il piano che avrebbe dato fuoco alle polveri. Non si sa se li muovesse la convinzione di essere due piccoli Metternich, o se in loro covasse da tanto tempo l’attesa dell’ora X, da farli partire subito alla ricerca meticolosa di tutti gli espedienti per “truccare” la grande partita. Sono loro che provvedono a mantenere il più assoluto segreto (e questo potrebbe essere stato doveroso, in circostanze normali, ma bloccò ogni possibilità di via d’uscita) fra il 30 giugno e il 20 luglio, sul carteggio, i colloqui, le intese e i propositi del mal consigliato Berchtold. Sono loro che trovano cosa astuta proporre a Berchtold di “informare vagamente l’Italia nel pomeriggio del 23 luglio, che l’indomani si sarebbe presentato una nota grave a Belgrado, promettendo di esibirne il testo l’indomani al nostro Di San Giuliano”. Manovra ed espediente addirittura puerili, se si accoglie la nostra tesi che proprio questo andava cercando la Consulta, e cioè di “non essere informata per non essere impegnata”; manovra ancor più meschina nell’altra ipotesi, perché se si voleva l’Italia al proprio fianco, era bene darle in tempo ogni notizia ed ogni elemento perché bvenisse orientata l’opinione pubblica; manovra, infine, condannabile (e la condanna investe non soltanto le due eminenze grigie della Ballplatz, ma lo stesso Berchtold e gli ambienti di corte) perché allora resta vero che, forse, le altre potenze furono poi coinvolte, chi volentieri e chi malvolentieri, nel conflitto, ma che l’Austria vi andò incontro risolutamente, consapevolmente e con un piano studiato ed eseguito per renderlo inevitabile. È strano che questa parte, subdola e pericolosa, anche se soltanto strumentale avuta da Musulin e Forgach nelle settimane di luglio, non abbia trovato adeguata menzione; soltanto l’Albertini dice esplicitamente che “furono i due funzionari della Ballplatz, Musulin e Forgachh, a sottoporre a Berchtold un telegramma per von Merey (ambasciatore di Vienna a Roma) contenente le istruzioni di cui sopra; vago accenno a Di San Giuliano il 23 pomeriggio della nota che sarebbe stata consegnata il 24 a Belgrado; comunicazione del testo a consegna avvenuta”. Di San Giuliano era a Fiuggi; le poche ore di ritardo derivate da ciò fecero il resto, ma la stolta “trappola” inventata da Vienna non servì proprio a niente. Si temeva che la Consulta informasse subito Pietroburgo, come afferma Berchtold? Ma Roma sapeva già tutto tanto bene, che Di San Giuliano aveva già a lungo conferito con l’ambasciatore tedesco, Flotow, fin dal 14 luglio. Si voleva evitare che Roma si consigliasse con Bucarest e Costantinopoli? Ma i nostri ambasciatori Garroni e Fasciotti avevano già informato confidenzialmente la Consulta di quanto si sentiva dire in quelle capitali! Sembra proprio di dover concludere che i due collaboratori di Berchtold avessero pensato il gran colpo a sorpresa e che - dimenticando la sostanza tragica del rischio enorme - si compiacessero di apparire all’indomani del colpo riuscito i sagaci e meticolosi artefici di tutti gli espedienti che, disorientando le varie Cancellerie, avrebbero determinato il successo diplomatico-militare di Vienna.
“Infelix astutia”, è il caso di ripetere. Nessuna azione politica, per quanto è dato ricordare, fu condotta con tanta presunzione di abilità e con così disastrosi risultati, quanto quella eseguita da Vienna nel luglio del ’14.  Non riuscì ad isolare il conflitto; non si assicurò né intervento né benevolenza delle due alleate minori, Italia e Romania; non ottenne, almeno, il successo di prestigio de’occupazione immediata e limitata di Belgrado; non riuscì ad evitare la guerra che, in fondo, fu dichiarata proprio da Vienna il 28, quando l’orizzonte era già molto oscuro; non procurò all’esercito austriaco un solo successo militare, su nessun fronte di guerra; portò, infine, alla disgregazione e al crollo dell’Impero.
Ammettiamo pure che queste ultime, apocalittiche prospettive fossero allora imprevedibili. Ma aver tanto tramato per sorprendere e disorientare gli altri, e restare invece impaniati in una strettoia senza via d’uscita, suona condanna piena all’operato dei due collaboratori di Berchtold e, per la verità, dello stesso ministro.»

Se il ruolo decisivo svolto da Musulin e Forgach nella crisi di luglio, all’ombra del Ballplatz, fosse confermato, ne uscirebbe rafforzata una vecchia tesi della storiografia tradizionale, poi messa in ombra e quasi ridicolizzata da due o tre generazioni di storici ben decisi a sostenere l’inevitabilità della guerra a causa degli appetiti imperialistici delle grandi potenze e soprattutto della Germania guglielmina (vedi l’ormai celebre, ma non convincente, «Assalto al potere mondiale» di Fritz Fischer, classico studio a tesi antitedesco e basato sul senno di poi); e cioè che l’elemento determinante nella scelta fra pace e guerra fu svolto proprio dalla vecchia Austria, tormentata dalla paura della propria debolezza e convinta di poter fare una piccola guerra balcanica per prevenire le spinte centrifughe degli Slavi presenti al suo interno, magari come primo passo verso il progetto di riforma “trialista” perseguito dall’arciduca ereditario Francesco Ferdinando.
Non solo: sarebbe pure accertato che, nello stesso governo austriaco, contro tutte le sue  secolari tradizioni di prudenza e di saggia circospezione, a prevalere in quei giorni febbrili di luglio furono proprio i falchi, ossia quei “giovani ribelli” che, un po’ a somiglianza dei Giovani Turchi, volevano rilanciare una politica di potenza, a costo di sfidare il rischio di una guerra per la quale la Duplice Monarchia non era preparata né materialmente, né spiritualmente.
Ma tant’è: la tentazione di prendere la scorciatoia delle armi, quando non si vuole percorrere la strada ben più lunga e impegnativa delle riforme politiche, è sempre in agguato nei momenti di crisi, sia per le potenze giovani, che per quelle ormai in declino, come era il caso dell’Austria-Ungheria nel 1914. E fu un vero peccato che ad avere l’ultima parola siano state delle arroganti ed ambiziose nullità, come Musulin, Forgach e lo stesso Berchtold: quello stesso Berchtold che nell’inverno 1919, poco dopo la fine della guerra, fu visto fare la bella vita nei migliori alberghi svizzeri, indulgendo alle sue grandi passioni del buon vino e delle belle donne, apparentemente senza ombra di rammarico per l’amaro destino della vecchia Austria, che la sua politica avventata aveva contribuito a disintegrare.
Non avrebbe meritato di finire così, uno Stato multietnico che aveva assicurato per secoli, bene o male, la pace e una certa prosperità economica a ben dieci popoli diversi nel cuore della Mitteleuropa, e questo anche nell’epoca dei nazionalismi esasperati.
D’altra parte, se nei momenti decisivi per la vita di una nazione, ad avere l’ultima parola sono delle arroganti, ambiziose nullità, vuol proprio dire che quell’ordine sociale è giunto al capolinea ed ha esaurito la propria funzione storica…