Da quando si moltiplicano gli allarmi per le conseguenze ambientali del dilagare della zootecnia nel mondo si moltiplicano anche i più o meno goffi tentativi di dimostrare che “son tute balle” e che anzi mangiar carne fa bene alla salute, fa bene all’ambiente, fa bene a tutto.

L’ultimo tentativo è quello di Luigi Bignami che, sul quotidiano La Repubblica del 23 luglio scorso (*), riprendendo parzialmente un articolo della rivista inglese di divulgazione scientifica New Scientist, vorrebbe dimostrare che l’eliminazione della zootecnia provocherebbe più danni che benefici. L’articolo di Repubblica comincia elencando le cause del notevole impatto ambientale degli allevamenti, che non sarà male ricordare:

L’agricoltura necessaria per allevare gli animali è la prima imputata per tali danni: basti pensare all’acqua necessaria per l’irrigazione, all’uso dei combustibili per i trattori, ai pesticidi e ai fertilizzanti immessi nei suoli che causano l’eutrofizzazione dei laghi. E del grano che si produce nel mondo per allevare gli animali solo il 10% si converte realmente in carne, latte o uova: il resto serve per nutrire l’animale durante la sua vita. Ci sono poi le conseguenze legate al trasporto della carne che richiede ulteriori grandi quantità di combustibili fossili. Oltre al fatto che l’uso degli antibiotici nell’allevamento del bestiame rende i batteri più resistenti ad essi quando interessano l’uomo. E gli animali da allevamento sono la causa prima dell’erosione dei suoli a causa del loro calpestio. Altri esempi negativi? L’immissione di metano (importante gas serra) nell’atmosfera emessa dagli animali da allevamento e la distruzione delle foreste per far posto alle terre per gli animali. Sembrerebbe davvero, dunque, che un mondo senza allevamenti sarebbe davvero più “verde”.

Ma una “indagine a più ampio spettro” porterebbe a conclusioni addirittura opposte. Conclusioni basate su quali argomenti? Ad esempio questi:

per oltre un miliardo di persone nel Terzo Mondo un piccolo numero di pecore, capre o mucche sono la base del sostentamento e piccoli allevamenti di animali in aree semidesertiche crea senza dubbio meno impatto ambientale che non grandi distese di frumento o ortaggi in grado di sostituire la quantità di nutrienti presenti nella carne per tali popolazioni.

Sottolineo l’uso truffaldino delle parole “piccolo” e “grande”. Un allevamento, benché “piccolo”, ha bisogno di grandi estensioni di terreno destinate a pascolo. Una singola pecora ad esempio ha bisogno di circa un ettaro. E quando questi pascoli sono in “aree semidesertiche” fanno presto a trasformarle in aree totalmente desertiche. Il pascolo infatti è notoriamente una delle prime cause dell’avanzamento dei deserti in queste aree. Le “grandi distese” di frumento o ortaggi al contrario, presupponendo opere di irrigazione e fertilizzazione del terreno, sarebbero un forte ostacolo a tale avanzata. A parte il fatto che sarebbero certamente meno “grandi” delle enormi estensioni di terreno che richiede un allevamento.

Un grosso errore poi, lo si farebbe se si eliminassero i maiali (…) che non hanno bisogno di grano. Essi infatti, possono vivere con gli avanzi delle tavole, ricche o povere che siano. “I maiali sono una vera pattumiera dell’uomo moderno. Noi diamo loro i nostri avanzi e loro ci restituiscono carne”, sottolinea Tara Garnett che dirige il Climate Research Network della University of Surrey in Guildford (UK).  

La storiella dei maiali alimentati con gli avanzi di cucina non è la prima volta che la sento. Durante un mio recente incontro pubblico ad esempio una persona pretendeva che sua madre nutrisse il proprio maiale in questo modo. Facciamo un po’ di conti: un maiale ha bisogno di circa 10 Kg di cibo al giorno che possono arrivare a ben 46 Kg per una scrofa in fase di allattamento con 10 maialini. In Italia ci sono 5.4 milioni di maiali che divorano dunque (fattrici escluse) 54.000 tonnellate di cibo al giorno. Pretendere di coprire questo enorme fabbisogno con i soli avanzi di cucina è semplicemente ridicolo.

Senza allevamenti si avrebbe un deficit non indifferente per quel che riguarda i sottoprodotti di origine animale. Un mondo senza carne non avrebbe a disposizione circa 11 milioni di tonnellate di cuoio e 2 milioni di tonnellate di lana e ciò vorrebbe dire sostituire i materiali che si fanno con essi con materiale per lo più derivato da combustibili fossili producendo ulteriore anidride carbonica.

Oppure con materiali derivati da fibre vegetali quali già ne esistono e ancor più ne esisterebbero se si promuovesse una adeguata ricerca in questo settore.

La mancanza di animali vuol anche dire un minor uso di fertilizzanti di origine animale, ossia di letame e questo implicherebbe un maggior uso di fertilizzanti artificiali.

L’uso dei fertilizzanti di origine animale oggi è pressoché azzerato perché le deiezioni degli allevamenti non sono ritenute idonee allo scopo. I fertilizzanti artificiali sono gli unici utilizzati nell’agricoltura convenzionale. Quanto all’agricoltura biologica, i concimi organici di origine animale sono superiori rispetto a quelli di origine vegetale per uno solo dei tre nutrienti principali delle piante: l’azoto. Ma l’azoto può essere validamente fornito con cicli di rotazioni comprendenti leguminose o pratiche come il sovescio. Utilità non significa insostituibilità.

“Un mondo senza animali  vorrebbe dire anche un mondo senza latte, perché non si può produrre latte senza carne”, spiega Helmut Haberl, un ecologista sociale presso l’Istituto di Ecologia sociale di Vienna. Le vacche da latte devono partorire ogni anno per produrre latte e solo la metà delle progenie è femmina. Cosa si dovrebbe fare dei maschi? Ucciderli appena nati? Sarebbe un mondo più ecologico questo?

No, sarebbe una variazione sul tema di questo stesso mondo. Anche perché quando si parla di impatto ambientale degli allevamenti se ne parla, com’è ovvio, indipendentemente da ciò che gli allevamenti producono: latte, carne o altro che sia. Quanto al latte, non c’è alcun bisogno di rinunciarvi perché un alimento perfettamente analogo lo si può ricavare dalla soia con un impatto ambientale decisamente minore.

L’articolo si conclude con un’apologia degli allevamenti intensivi su cui non mi soffermo e con un generico auspicio che il mondo industrializzato comunque riduca i propri consumi di carne ma solo per far posto a quelli, crescenti, dei paesi “in via di sviluppo”. Su quali solide basi argomentative sia fondato un simile auspicio, lo abbiamo appena visto.

(*) Luigi Bignami, Un mondo senza carne? Non è detto sia più “pulito”, La Repubblica, 23 luglio 2010.