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Howl (Urlo)

di Valerio Zecchini - 13/09/2010

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“Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude strascicarsi per strade negre all’alba in cerca di una pera di furia”. Sono questi i versi che Allen Ginsberg “urlava” per la prima volta nel 1955 nella Six gallery di San Francisco; sono questi i versi quelli che aprono l’opera che sarebbe poi divenuta il poema cardine della cosiddetta Beat Generation: Howl, appunto.
Un testo che narra con stile inedito le molteplici esperienze dell’autore (l’omosessualità e l’amore nei confronti di Peter Orlovsky), i rapporti e le conversazioni con gli amici (tra cui diversi artisti, come Jack Kerouac, Gregory Corso e William Burroughs), il dissenso verso lo stato americano (denominato “Moloch”), lo sviluppo di un movimento di scrittori dissidenti che voleva cambiare il mondo. Proprio questa vivacità intellettuale, unita a un massiccio uso di droghe allucinogene come il peyote, genererà le rime che un paio d’anni più tardi saranno censurate e portate in un’aula di tribunale per oscenità nella persona dell’editore Lawrence Ferlinghetti. Il lavoro degli esperti documentaristi Rob Epstein e Jeffrey Friedman prende questa direzione, cercando di ricostruire il momento topico di fermento socio-culturale e riflettere sulla libertà di espressione e sul ruolo dell’artista nella società.
La narrazione avviene attraverso tre momenti distinti ma uniti dallo stesso filo della riabilitazione professionale del giovane Ginsberg (James Franco, perfettamente a suo agio, che offre un’interpretazione credibile): gli aneddoti di vita con le interviste rimaneggiate, il processo del 1957 e lo stesso poema fuso con l’animazione di alcuni graphic novelists . Ed è probabilmente questo dissolversi dei versi nei disegni uno degli aspetti più interessanti di Howl; una rielaborazione animata del quadro sovversivo di San Francisco, della visionarietà del poeta, e di tutto il contesto appartenente all’immaginario “beat”, come la ribellione o il ritmo del jazz stile bebop, che ritroviamo nella musicalità delle rime. Anche il processo – il cui dibattito è riportato fedelmente – si ritaglia uno spazio discreto e adeguato alla rappresentazione senza cadere nella retorica dello “show” e ci mostra le dissertazioni tra gli avvocati e i vari critici letterari chiamati in causa per esprimere il loro giudizio sull’opera controversa.
Quanto al suo contenuto, non meraviglia che nel clima maccartista dell’epoca ne sia stato messo in discussione il valore culturale in quanto il poema è effettivamente audace nella sua esposizione stilistica e utilizza un linguaggi sfrontato dove la componente sessuale appare predominante; oltre a questo aspetto di Howl colpisce la particolare energia, il fascino psichedelico e la grande acutezza di osservazione che conferiscono all’opera una modernità innata e longeva.
Peccato che la produzione successiva di Ginsberg, a parte l’altro bellissimo poema Holy (Santo), che fu poi brillantemente musicato da Patti Smith, non sia stata all’altezza di Howl. Comunque, grazie anche al clamore suscitato dal processo, questo libro di poesie divenne l’opera – simbolo della Beat generation insieme al romanzo On the road (1957) di Jack Kerouac. Nei decenni a venire, questa letteratura ribelle avrebbe dato nuova linfa ai tanti movimenti antagonisti d’Europa e d’America.
Il film, che si struttura su una lunga intervista a Ginsberg/Franco il cui interlocutore rimane perennemente fuori campo, approfondisce la riflessione su argomenti come il divieto di manifestare la propria identità e ragiona sulla sempre cangiante definizione di oscenità. A tratti si ha la sensazione di assistere a un freddo esercizio di stile a causa della scarsa interazione tra i personaggi, tuttavia Howl rimane una pellicola ricercata, un bel film letterario di cui sarebbe stato opportuno evitare il doppiaggio.
Fernanda Pivano fu in Italia l’ambasciatrice e la paladina del fenomeno beat, il quale influenzò anche la destra culturale dell’epoca. E non poteva essere altrimenti, dato che ai marxisti-leninisti di stretta osservanza, ai depositari della rivoluzione, ai custodi dell’ideologia ortodossa quegli “anarchi” irrazionali e individualisti sempre in cerca di una via personale alla spiritualità, non potevano che apparire come nemici di classe. Contestualmente, non piacevano all’establishment i maestri che si erano scelti: un maledetto come Céline, un irregolare come John Fante, per non dire del vecchio Ezra Pound – Kerouac farà dire a Japhy, uno dei protagonisti dei Vagabondi del Dharma: “Pound era un buon diavolo, anzi, il mio poeta preferito”. E nel 1967 Allen Ginsberg venne in Italia proprio per incontrare Pound che, uscito dal manicomio, viveva da qualche anno a Rapallo. E’ famosa la foto che ritrae il vecchio poeta insieme a Ginsberg e alla Pivano a Portofino il 23 settembre di quell’anno. Precedentemente era stato in riverente pellegrinaggio nella dimora fuori Parigi dello scorbutico Céline. Per non parlare poi del convinto anticomunismo sbandierato da Kerouac, o della sua feroce avversione per lo stile di vita consumista.  Perciò in questi anni di ostracismo dell’elite culturale di sinistra (che in seguito sarà minuziosamente spiegato dalla Pivano) i beatniks non solo venivano letti ma continuamente citati e abbondantemente saccheggiati dagli ambienti della destra intellettuale italiana. Piaceva, soprattutto, quel loro essere “anarchici di destra” che appariva molto in sintonia con alcune suggestioni juengeriane ed evoliane. Lo stesso Evola in “Cavalcare la tigre” aveva valutato positivamente la via beat alla tradizione e la sua contiguità col buddismo zen: “l’alcool, il sesso, la musica jazz, la velocità, le droghe, sono state dei mezzi usati per poter sostenere con sensazione esasperate il vuoto dell’esistenza. Un vuoto che per la gioventù internazionale del secondo dopoguerra era stato accentuato, in modo spesso traumatico, sia dalle vicende belliche vere e proprie, sia dalle successive, e cospicue conseguenze”.
In buona sostanza gli artisti anticonformisti della Beat generation rappresentavano, per la destra antagonista degli anni ’60 e ’70, una sorta di reincarnazione dei ribelli e degli avventurieri che qualche decennio prima avevano occupato Fiume.  Ma tutto questo accadeva quando ancora esisteva il Fronte della Gioventù Bruciata, prima del micidiale abbraccio con la Maggioranza Silenziosa: anzi, più che un abbraccio, un patto di sangue – che fa sì vincere tutte le elezioni, ma in cambio esige la perdita dell’anima e di qualsiasi appeal erotico.