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Yemen: Una battaglia decisiva nell’ordine simbolico, contro la monarchia saudita

di René Naba - 14/09/2010


 
Yemen: Una battaglia decisiva nell’ordine simbolico, contro la monarchia saudita

L’attacco fallito a un aereo nigeriano a Detroit (USA), nel dicembre 2009, quattro mesi dopo l’attacco fallito contro un principe saudita, responsabile della lotta contro il terrorismo in Arabia Saudita, il principe Mohammed bin Nayef Ben Abdel Aziz, ha sollevato i timori degli statunitensi e ha fatto rivivere il loro interesse verso lo Yemen, temendo che il paese sia utilizzato come nascondiglio dagli uomini di Al Qaeda nella penisola arabica. L’attacco contro l’Arabia del 27 Agosto 2009, inoltre, è stato rivendicato dal capo regionale di al-Qaida, Al Nasser Whayshi, alias Abu Bassir, come anche l’attacco contro il cacciatorpediniere USS Cole, nel porto di Aden, nel 2000. Designato quale bersaglio prioritario da parte degli statunitensi, Abu Bassir è stato ucciso tre mesi dopo la sua rivendicazione del caso di Detroit. Dal 2009, in meno di un anno, le autorità saudite hanno sventato quattro attentati contro il principe Mohammed, un record mondiale difficilmente eguagliabile.

L’attentato di Detroit è stato utilizzato per attivare l’attuazione della nuova dottrina statunitense della guerra clandestina contro il terrorismo, di cui lo Yemen è il banco di prova. La dottrina Obama sostiene l’uso di piccole unità mobili di commando di parà per le operazioni speciali assegnate al monitoraggio dei leader di al-Qaida in Pakistan al Nord Africa, dall’Uganda al Kenya, via Somalia, e in tutti i paesi del Sahel (Algeria, Mali, Mauritania) e dell’Asia centrale. Meno costoso, in termini di bilancio e di immagini, contando sulla collaborazione di imprese di lavori pubblici operanti nell’area, mira a sostituire la Dottrina Bush. Uno degli errori principali della nuova guerra degli Stati Uniti, passato inosservato al giudizio arabo e della pubblica internazionale, è stata anche la morte del prefetto del distretto di Maareb, il 25 maggio 2010, un incidente dell’intervento illegale USA. L’uomo era in trattative con al-Qaida la liberazione della zona di sua responsabilità. La sua morte ha sollevato un vento di rivolta all’interno della sua tribù, che da allora è stata discretamente compensata dal governo degli Stati Uniti. Fin dall’inizio di questa dottrina Obama, tre leader di al-Qaida sono stati uccisi in Yemen, il leader regionale, Nasser al Whayshi, Nasser al Chihri a Rafda e Jamil al Anbari, il 24 marzo 2010, secondo il quotidiano arabo pubblicato a Londra “Al Quds al Arabi” (16 agosto 2010).

Il sistema statunitense è completato in Africa orientale dalla base aerea di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano, e dalla co-locazione della base francese di Gibuti di “Camp Lemonier”. La base di Gibuti permette agli Stati Uniti e alla Francia di dominare l’estremità orientale della vasta striscia petroliera che attraversa l’Africa, oggi considerata vitale per i loro interessi strategici, una striscia che va dall’oleodotto Higleg-Port Sudan (1600 km) nel sud-est, all’oleodotto Ciad-Camerun (1000 km) e al Golfo di Guinea a ovest. Una postazione di osservazione degli Stati Uniti, in Uganda, dà a essi la possibilità di controllare il Sud Sudan, dove si trova la maggior parte delle riserve di greggio sudanesi.

La presenza degli Stati Uniti a Gibuti, ha anche il compito di individuare i gruppi terroristici collegati con quelli del Medio Oriente, e di servire da piattaforma operativa per la guerra clandestina contro al-Qaida in Africa orientale, soprattutto in Somalia, che secondo Washington ospita il comoriano Fazul Abdullah Mohammed e il keniota Saleh Ali Saleh Nabhan, coinvolti negli attacchi contro le ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania nel 1998, dove 224 persone sono state uccise.

Al-Qaida ha realizzato un decentramento del suo movimento, in un approccio simmetrico alla dottrina statunitense della furtività, dando autonomia a ampi comandi regionali, in virtù della nuova strategia della ‘lotta diffusa’, implementata con successo da Hezbollah Libanese contro Israele, nel 2006. Dalla ripresa delle ostilità su vasta scala, nello Yemen, al-Qaida ha reso possibile la riunificazione dei due rami che operano nella zona, in Arabia Saudita e nello Yemen, per avviare nel 2008 “Al-Qaida nella penisola araba“, attaccando obiettivi strategici, come l’ambasciata degli Stati Uniti nel 2008 e un centro di sicurezza di Aden, dove i detenuti erano membri dell’organizzazione, nel giugno 2010, al fine di influenzare il separatismo meridionale yemenita, e contribuire a delegittimare il governo centrale. Gli statunitensi vedono questo ramo come la più efficace esecuzione divisione della società madre.

Al Qaida ha anche una filiale somala, “i famosi Chebab” (i giovani) che tengono testa al governo filo-saudita e filo-occidentale di Mogadiscio, segnalandosi presso l’opinione pubblica internazionale con un raid mortale in Uganda, l’11 luglio 2010, facendo una sessantina di morti; e un ramo del Nord Africa, che attua le operazioni tra il ramo africano e quello arabo: “Al-Qaida nel Maghreb Islamico (AQIM).” Risultante da un processo di fusione, AQIM è il prodotto, nel gennaio 2007, dell’inclusione nella rete di bin Laden del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (GSPC) algerino, a sua volta fondato nel 1998 da dissidenti del Gruppo Islamico Armato (GIA).

Operante generalmente nei deserti di Algeria, Mali, Niger e Mauritania, al-Qaida ha approfittato dei confini porosi per espandere la sua area di operazioni nella regione arida del Sahel, puntando ora al Burkina Faso, il cui Presidente Blaise Compraoré, il negoziatore per la liberazione dell’agente francese Peter Calmatte (febbraio 2010), ha appena compiuto un riavvicinamento spettacolare con gli Stati Uniti. L’AQMI ha attuato, il 24 luglio 2010, l’esecuzione dell’ostaggio francese Michel Germaneau, punto che contrassegna la resa dei conti con la Francia, in quello che sembra essere una strategia della tensione volta ad inviare una avvertimento a quello che vede come l’islamofobia del potere francese, tra il clamore dei media in Francia, dedicati alle “caricature del Profeta“, sotto l’egida della coppia giornalistica Daniel Leconte e Philippe Val, e le polemiche sul velo e la catena self service Halal.

Una battaglia decisiva nell’ordine simbolico contro l’Arabia Saudita

Il coinvolgimento di al-Qaida nel conflitto nello Yemen e nel suo ambiente somalo, risuonava come un affronto ai suoi ex compari, l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti, e allo stesso tempo sottolineava l’irriverenza alla strategia statunitense nel suo obiettivo principale, “la guerra globale contro il terrorismo,” la madre di tutte le battaglie.

A capo del paese per 32 anni (1978), il presidente Ali Abdullah Saleh accusa i ribelli di cercare di rovesciare il suo regime per ripristinare l’Imamato zayidita, abolito nel 1962 da Sana’a, e di essere manipolati dall’Iran. Gli houthisti, nel frattempo, si lamentano di essere emarginati dal governo sul piano politico, economico e religioso, e chiedono la restaurazione dell’autonomia di cui godevano prima del 1962. Assicurano di voler difendere l’identità minacciata sia dalla politica del governo centrale, che mantiene la propria regione nel sottosviluppo, e dalla pressione del fondamentalismo sannita, per la quale Sanaa mantiene spesso un’ambiguità.

Provenienti dalla corrente religiosa sciita zayidita, gli houthisti vivono negli altopiani, soprattutto nella provincia yemenita di Saada, e mostrano molte differenze dogmatiche rispetto agli sciiti iraniano duodecimani. Essi rappresentavano, nel 2007, circa il 30% di 22,2 milioni di yemeniti, che sono in prevalenza sunniti. Inoltre, condividono molte interpretazioni religiose con la maggioranza sunnita Shafita. Gli houthisti negano ogni uso della loro causa da parte di una potenza straniera, e insistono, invece, sull’aiuto che il regno saudita avrebbe portato al presidente.

La nuova guerra nello Yemen, ha avuto inizio nel 2004 in seguito alla cattura di importanti leader houthisti e alla morte in combattimento del loro leader, Hussein al Houthi, ucciso nel settembre dello stesso anno da un missile, durante un’operazione clandestina della CIA in ritorsione all’attacco contro il cacciatorpediniere USS Cole. Hussein, leader del movimento, è stato successivamente sostituito da suo fratello Abdul Malik.

Ma al di là del conflitto tribale, gli yemeniti nutrono solidi risentimenti verso l’Arabia Saudita, di cui non tollerano l’annessione di tre verdeggianti province, Asir, Najran e Jizan (2), che criticano, inoltre, di aver mantenuto a lungo l’instabilità nel paese, finanziando direttamente il bilancio della difesa, quindi bypassando il potere statale, in favore alternativo a due confederazioni tribali principali: Beni Hached e Bakil. Lo sceicco Abdullah Hussein Al Ahmar, uomo forte della tribù Hached, leader dell’al-Islah (Riforma) e presidente del Parlamento yemenita, si dice riceva sovvenzioni sauditi, nel nuovo confronto.

Yemen e Iraq, due paesi confinanti con l’Arabia Saudita, costituiscono i due baluardi della difesa strategica del Regno wahabita, il primo a sud, il secondo a nord dell’Arabia Saudita. E’ in questi due paesi che l’Arabia Saudita s’è inserita nella lotta per assicurare la continuità della dinastia wahhabita, per almeno due volte negli ultimi decenni. Lo Yemen è stato utilizzato, in effetti, come campo dello scontro inter-arabo tra repubblicani e monarchici, al tempo della rivalità Faisal-Nasser, negli anni ‘60, e l’Iraq, la scena dello scontro tra sciiti rivoluzionari e sunniti conservatori, al tempo della rivalità Saddam-Khomeini negli anni ‘80.

Al-Qaida nello Yemen è in realtà un ritorno ai fondamenti del conflitto che oppone il movimento alla famiglia al-Saud. Usama Bin Ladin è considerato un legittimo titolare di allori raccolti sui campi di battaglia in Afghanistan, cosa che ha avuto l’effetto di rafforzare la posizione saudita verso i suoi alleati statunitensi, un ruolo che è negato dagli al-Saud.

Pur avendo un certo seguito sia nell’Islam dell’Asia (Afghanistan, Pakistan), che nell’Islam dell’Africa (sub-sahariana del Sahel), Usama bin Ladin soffre di un grave handicap nel nucleo storico dell’Islam del mondo arabo, a causa del suo passato legame con gli statunitensi, durante la guerra anti-sovietica in Afghanistan (1980-1990), deviando quasi cinquantamila combattenti arabi e musulmani dal campo di battaglia principale, la Palestina, mentre Yasser Arafat, il leader dell’OLP, era assediato a Beirut dagli israeliani, con il supporto degli Stati Uniti (giugno 1982). Se si può affermare di aver contribuito a far precipitare il collasso del “regime ateo” dell’Unione Sovietica, i suoi critici lo accusano di aver privato del loro principale sostegno militare, i paesi arabi del ‘campo di battaglia’, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Egitto, Siria, Iraq, Algeria, Yemen del Sud, Sudan e Libia.

La sua autorità si scontra, quindi, nel mondo arabo, col carisma di leader autentici dimostratosi tali agli occhi di ampie fazioni del mondo musulmano arabo, quali lo sceicco Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, il movimento sciita libanese, autore di due imprese militari contro Israele (2000, 2006) e Hamas, il movimento sunnita palestinese, il cui incomparabile vantaggio su Usama bin Ladin è il fatto che non hanno mai abbandonato la lotta contro Israele, il nemico principale del mondo arabo.

L’autodafé del Corano, una manna ideologica, una leva per il reclutamento per al-Qaida

La distruzione da parte dei suoi alleati taliban dei Budda di Bamiyan (3), nell’Afghanistan centrale, nel 2001, alienò all’Islam quasi un miliardo di buddisti, aumentando i sospetti contro di lui. Questo atto diventa ancora più importante, a posteriori, quando i musulmani, a loro volta, stigmatizzano il progetto di uno piccolo gruppo di cristiani fondamentalisti della Florida, di voler bruciare 200 copie del Corano, il libro sacro dei musulmani, sabato 11 settembre, nel nono anniversario degli attentati negli Stati Uniti.

Il progetto del pastore Terry Jones del Colomba World Outreach Center, di bruciare il Corano è stato chiamato “gesto distruttore, che minaccia le truppe occidentali in Afghanistan“, dal Presidente Obama. È, in ogni caso, una manna ideologica e potrebbe servire come giustificazione a posteriori per il raid di al-Qaida contro gli USA, sostenendo l’islamofobia nella società occidentale, come leva per il reclutamento nell’organizzazione islamista, nell’intero periodo di commemorazione degli attentati contro gli USA.

Usama Bin Ladin appare, in retrospettiva, come il tacchino della farsa della vicenda afgana, nella sua versione anti-sovietica, dal momento che ha portato a fare crollare un alleato dei paesi arabi del campo di battaglia, l’Unione Sovietica, e rafforzato il partner strategico d’Israele, gli Stati Uniti. Cinquantamila arabi e musulmani si arruolarono sotto la bandiera dell’Islam, sotto la guida di Usama bin Ladin, ufficiale di collegamento dei sauditi e degli statunitensi, per combattere in Afghanistan l’ateismo sovietico, in una guerra finanziata in parte dalle petro-monarchie del Golfo, fino a venti miliardi di dollari, una somma equivalente al bilancio annuale di un quarto dei paesi membri dell’organizzazione pan-araba (4).

In confronto, l’Hezbollah libanese con un numero molto inferiore di combattenti, stimato in duemila combattenti, e con pochi soldi rispetto a quelli impegnati per il finanziamento degli arabi afgani, ha causato lo sconvolgimento psicologico e militare più significativo che la Legione islamica, nell’equilibrio delle potenze regionali.

Il raid dell’11 Settembre 2001 compare, così, a posteriori, come una rappresaglia a questa doppiezza, e allo stesso tempo un tentativo di trascinare gli Stati Uniti, con la risposta che non mancherebbe di suscitare, in una guerra di usura nel pantano afgano. Tale, almeno, è una interpretazione che ha avuto luogo in ambienti politici arabi, sulle motivazioni di Usama Bin Ladin nella scelta dei bersagli degli attentati dell’11 settembre 2001.

La creazione di al-Qaida per la penisola arabica nello Yemen, potrebbe avere un effetto destabilizzante sul regno, che “non sarà immune da un crollo, in caso di caduta dello Yemen”, ha ammonito il 17 luglio 2010, il ministro dell’istruzione superiore yemenita, Saleh Basserrate, deplorando la mancanza di cooperazione saudita nel risolverne le difficoltà economiche (5). L’allarme è stato ritenuto sufficientemente grave da indurre il re Abdullah ad impegnare nella lotta le sue forze nello Yemen, nell’autunno del 2009, accanto alle forze governative, e di superare le sue dispute con la Siria, incitando il suo braccio destro in Libano, il nuovo Primo ministro libanese Saad Hariri, a volgersi verso Damasco.

Quasi un milione di lavoratori yemeniti sono stati espulsi dall’Arabia Saudita nel 1990, per l’allineamento del governo di Sana’a nella disputa territoriale di Saddam Hussein con il Kuwait, spingendo il governo dello Yemen, nella speranza di ottenere dall’Arabia assistenza economica, a disattivare le sue pretese territoriali, col dispiacere di una frazione dell’opinione pubblica yemenita. Il coinvolgimento di un membro del contesto familiare del principe Bandar bin Sultan, figlio del ministro della Difesa e presidente del Consiglio nazionale di sicurezza, la riattivazione dei simpatizzanti di al-Qaida in Siria e il Libano del Nord, nella regione del campo palestinese di Nahr el-Bared, ha dato la misura dell’infiltrazione dell’organizzazione islamista nei circoli dei governanti sauditi, mentre stava minando il regno nei confronti dei suoi interlocutori, sia come che statunitensi.

Sheikh Maher Hammoud, un mufti sunnita della moschea “Al Quds” di Saida (sud del Libano), ha apertamente accusato il principe Bandar dalla TV satellitare Al-Jazeera, sabato 26 giugno 2010, d’aver finanziato i disordini in Libano, in particolare contro le zone cristiane di Beirut, come tattica diversiva, senza che questa affermazione sia smentita, o il dignitario citato in giudizio, portando gli USA a dichiarare “persona non grata” Bandar, l’ex beniamino degli Stati Uniti, il “Grande Gatsby” dell’establishment statunitense.

Significativamente, un responsabile di al-Qaida nella penisola arabica, non è altro che l’imam radicale Anwar al-Aulaqi, un uomo che gli statunitensi identificano come responsabile della strategia di comunicazione di Al Qaida destinata al mondo di lingua inglese, tramite il sito on-line “Inspire“. Yemenita nato negli Stati Uniti, ha rivendicato come suo discepolo il mancato attentatore del volo Amsterdam-Detroit del 25 Dicembre 2009, illustrazione sintomatico della confusione che regna nelle relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo musulmano e la strumentalizzazione statunitense dell’Islam nella sua guerra contro l’Unione Sovietica. Ora è una priorità della dottrina Obama.

L’ancoraggio di un organismo a maggioranza sunnita, escrescenza del rigorismo wahhabita, sul lato sud dell’Arabia Saudita, porta il segno di una sfida personale do bin Laden agli antichi padroni, in quanto porta sul posto stesso della loro antica alleanza, lo scontro sulla d legittimità tra la monarchia e il suo ex servitore.

Sullo sfondo dello showdown della controversia Usa-Iran sul nucleare iraniano, Usama bin Ladin, di origine yemenita, decaduto dalla nazionalità saudita, ha scelto di combattere per la terra dei suoi antenati.

Per portare, nell’ordine simbolico, la battaglia decisiva contro la monarchia saudita, che egli considera come una negazione dell’Islam, l’usurpatore saudita di province yemenite, in una battaglia di ritorno, il cui fine ultimo deve essere il ripristino della sua legittimità, almeno della legittimità del marchio della sua organizzazione in rapido declino nel mondo arabo. Con paradossalmente, degli osservatori passivi, ma dai dividendi possibili, l’Iran sciita e, soprattutto, la Russia, estromessa da Socotra, che ha combattuto in Afghanistan per la causa dell’ateismo.
Riferimenti

2- Le tre province yemenite Jizan, Asir e Najran erano state annessa dall’Arabia Saudita nel 1932, l’annessione fu ratificata dall’accordo di Taif del 1934. Lo Yemen si oppose alla proroga di venti anni di questo accordo, scaduto nel 1992.

3 – I Buddha di Bamiyan erano due statue monumentali del Budda in piedi, scavate nel fianco di una rupe situata nella valle di Bamyan nell’Afghanistan centrale, 230 chilometri a nord ovest di Kabul, a un’altitudine di 2500 metri. L’intero sito è patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Il ‘Grande Buddha’ (53 metri) risale al V secolo, il ‘piccolo Buddha’, nella seconda metà del terzo secolo. Le statue sono scomparse dopo essere state distrutte dai taliban nel marzo 2001.

4-Mikael Awad, politilogo egiziano, l’intervento sul network pan-arabo ‘Al Jazeera’, 2 febbraio 2010, trasmissione “al Ittijah al Mouakess“, (Il senso contrario).

5- Cfr. “La chiamata in soccorso dallo Yemen all’Arabia Saudita“, editoriale di Abdel Bari Atwan, direttore del quotidiano panarabo Al Quds Al Arabi, pubblicato a Londra, 17 Luglio 2010
Per ulteriori informazioni:

1 -Cfr. Arabie saoudite: la grande frayeur de la dynastie wahabite

http://www.renenaba.com/?p=701

2 Cfr. Yémen: La lutte pour le pouvoir dans le sud Yémen pro soviétique

http://www.renenaba.com/?p=766

Traduzione di Alessandro Lattanzio

Fonte: Il blog di René Naba (http://www.renenaba.com/)

http://www.mondialisation.ca/PrintArticle.php?articleId=21003

Leggi la prima parte – YEMEN: l’affronto di bin Laden ai suoi ex sponsor

http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=20915