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Quel libertario che cercava Dio anche nei cani

di Francesco Pullia - 15/09/2010

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Tra i maggiori autori, non solo italiani, della seconda metà del Novecento, Carlo Coccioli è stato ignorato e ostracizzato, a tal punto da sentirsi costretto ad andarsene in Messico dove morì il 5 agosto del 2003, a 83 anni.

Non è difficile immaginare perché, nonostante scrivesse magistralmente in italiano, francese e spagnolo e i suoi numerosi libri, tra cui diversi memorabili, siano stati tradotti in almeno quindici lingue, abbia ricevuto un simile trattamento. Scontò alcune colpe imperdonabili in un paese come il nostro. Indovinate un po' quali? Proviamo a elencarne alcune: 1) aveva una prosa invidiabile; 2) pubblicò con editori come Vallecchi e Rusconi allora snobbati dalla cortigianeria intellettuale nostrana; 3) non si assoggettò all'egemonia della mafiosità culturale sinistrese, non frequentò circoli salottieri pseudoavanguardistici preferendo, da anticonformista qual era, all'insulsaggine sessantottesca la via, senza dubbio più ardua e impegnativa, di una spiritualità accesa e priva di sconti. Libertario dello spirito, non fu né baciapile né militante, gramscianamente "organico". Possedeva, pertanto, tutti i requisiti per essere messo ai margini in un paese, come il nostro, dominato dal servilismo. Quando nel 1950 uscì Il cielo e la terra, sicuramente uno dei suoi capolavori, Henry Daniel-Rops, recensendolo entusiasticamente, ravvisò nel romanzo «una preoccupazione specificamente metafisica» che poneva lo scrittore «sulla stessa linea di un Kierkegaard, di un Léon Bloy, di un Bernanos».

Eppure in quella splendida, e ovviamente quasi introvabile, raccolta di saggi che è Rapato a zero (Vallecchi, 1986), con amaro sarcasmo doveva ammettere che gli editori che accettavano di pubblicarlo se ne assumevano il rischio, ben sapendo di avere a che fare con uno scrittore non di cassetta e per nulla considerato. «Editarmi - confessò - è molte volte una "cortesia della casa". Non vi è record di assenza che in patria mia non batta: non esisto nelle enciclopedie, né nelle antologie, né negli schedari, neppure nei riepiloghi d'insieme e neanche nei convegni o congressi o kermesse. Le volte in cui si allude a me si ripete invariabilmente, scotendo il capo, che sono appunto un caso forse perché Carlo Coccioli parla dell'anima e in Italia l'anima non interessa. L'italiano sarà tutto quello che si vuole, navigatore e santo, ma homo religiosus non è. È inesorabilmente un uomo profano che si porta la mano ai testicoli quando in sua presenza qualcuno allude a sorella Morte corporale». E ancora: «Scrittore visibilmente religioso, con un gran parlare di Dio o d'Infinito Assoluto, risulta che non sono un cattolico e nemmeno, bontà divina, un acattolico o un anticattolico alla Dario Fo... sono una sciarada anche per me stesso! Un fiume, questo lo constato, mi trascina: ma di dove venga e dove vada la sua impetuosa corrente non lo so ... Dio, o ciò che possa essere, è per me più absconditus del santo misteriosissimo di cui si lagnava Isaia l'amaro.... Quel tremendissimo Grande Sfuggente è, per mia disgrazia, l'unica realtà che a me importi». Attratto dall'India, non certo per moda ma perché sospinto dall'incessante indagare, si accostò prima alla tradizione vedica (La casa di Tacubaya, Rusconi, 1982), poi al buddhismo (Piccolo karma, Mondadori, 1987 e Buddha, Rusconi, 1990), senza tralasciare l'approfondimento della religiosità ebraica e cabalistica: «Viene l'età in cui ci si accorge che Milarepa è più importante di Marx e di don Sturzo. Paragonato con questo tibetano semianalfabeta, Platone fa la figura del pedante, san Tommaso del seminarista». Scomodo lo fu sempre e in ogni caso, come quando, in tempi ben diversi da quelli odierni, diede alle stampe a Parigi, nel 1952 (quasi sessant'anni fa!), Fabrizio Lupo, romanzo che destò all'epoca scandalo, perché narrava della presa di coscienza da parte del protagonista (cattolico) della propria omosessualità. In italiano venne tradotto solo ventisei anni più tardi (Rusconi, 1978). Vegetariano, convinto animalista ante litteram, Coccioli ci ha lasciato con Requiem per un cane, ristampato finalmente, dopo tanto tempo, per i tipi di Marsilio, un gioiello letterario originato dal dolore per la perdita del cane Fiorello (Requiem per un cane, edizioni Marsilio, pp. 135, € 12,50).

«È un libro», come scrive nella bella prefazione Marco Lodoli, «che suona come un omaggio sofferto alla caducità dell'esistenza, al tempo che fugge e ci porta con sé, anche se non capiamo perché. È una lunga dichiarazione d'amore a un compagno a quattro zampe e pelo lungo, un barbone di nome Fiorello che, senza accorgersene, raccoglie nella sua breve vita il raggio segreto della grazia». Uscite come di getto, queste pagine traboccanti di tenerezza scandiscono momenti cruciali di un percorso di conoscenza: «Guardare un cane», dice l'autore, «è guardare la natura: rientrare nel ritmo e nel ritmo c'è Dio». È tutto un affastellarsi di pensieri, visioni, ricordi («Dormivamo nella medesima stanza udendo nel sonno i canti che sgorgavano dalla strada fino a fondersi coi primi scampanii dell'alba» e più avanti: «Se stendevo un braccio, lo toccavo […] Senza disturbarmi mai, mi restava accanto costantemente: percepiva con l'olfatto, credo, la mia metallica solitudine»), liriche impressioni con al centro la fugacità e drammaticità dell'esistenza («La vita è luce, e la luce si fa più luminosa quando l'assediano le tenebre»).

Ma proprio nel momento in cui il dubbio sembra prevalere («che cosa sia l'eternità io non lo so») si profila un barlume, la convinzione che ci sia un luogo in cui, senza separazione di specie, ci si ritrovi tutti in un «livellamento amoroso di esseri»: «Per te - scrive Carlo Coccioli congedandosi dal suo Fiorello e dai lettori - e per tutto quello che è stato con me e se n'è andato, continuo ad attendere con disperata speranza l'Altra Dimensione».