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Dimenticata la tradizione - la storia, il passato - e i valori che porta con sé, distrutto a colpi di materiale tutto quanto di spirituale vi poteva essere nella vita dell’uomo, non è rimasto che la possibilità di vivere l’immediato, senza curarsi di altro.

In altre parole, rimosso il passato dimenticandolo come inutile, e pensando al futuro come una cosa vana e troppo ignota da poterla anche solo sperare, l’unico spazio di manovra nel quale operare è il presente, unicamente il presente, peraltro svincolato da qualsivoglia legame o destino. Il che significa - insieme al fatto di poter pensare che non proveniamo da nulla e non andiamo verso nulla, e che dunque nessun legame abbiamo con chi c’era prima di noi e con chi ci sarà dopo di noi - libertà assoluta. Apparente.

È su questa libertà che ci interroghiamo nel corso di tutto il numero speciale (e in pratica monografico) del Ribelle che avete tra le mani. Perché questa libertà non è tale, e vedremo perché e come. Con una aggravante, la quale peraltro conferma la tesi di fondo del giornale e che i lettori attenti certamente non mancheranno di cogliere. L’aggravante risiede nel fatto che pensiamo di godere di una libertà assoluta proprio perché il nostro mondo non riconosce più alcuna cosa che non sia l’individuo e il momento presente, senza nessun legame con il prima e il dopo, oltre che con chi ci circonda e con la terra sulla quale viviamo - e ci sentiamo dunque assolutamente liberi - mentre allo stesso tempo ci indica per filo e per segno come spendere questa nostra presunta libertà. In pratica, una libertà coatta.

Il meccanismo è diabolicamente perfetto: avendoci svuotati di ogni senso, sia personale sia comune, avendoci tolto l’idea della provenienza e la possibilità di pensare consapevolmente al dopo, avendoci apparentemente liberato dai limiti, la nostra società ci ha dapprima dissanguato di tutto, per poi indicarci le modalità per sopperire al vuoto. Ingannandoci: perché ciò che ci facciamo infilare nelle vene per colmare il vuoto di senso che sentiamo, l’inutilità con la quale trascorriamo le nostre giornate, in una parola l’immensità di questa finta libertà goduta, non serve a colmare la lacuna. Se non a tempo. Il tempo di arrivare alla cassa. Qualche minuto oltre, per poi sentire nuovamente il vuoto e dunque la necessità di tornare a prendere una altra dose. E poi ancora una. E poi ancora una. All’infinito.

Ma il discorso è ancora più ampio, perché se da una parte avvertiamo il disagio e il malessere di questa finta libertà che in realtà non riusciamo a governare temporaneamente se non con i mezzi che ci impongono di usare, ebbene mettere invece a fuoco i motivi stessi di questo malessere, e capire a fondo i meccanismi distorti e inutili (e utili a pochi, ovvero a chi ha interesse che rimaniamo in tale condizione, in altre parole ai pusher) può servire per togliersi dal giogo dello strozzino di turno. Almeno combattere e provarci.

Apparentemente siamo liberi di fare qualsiasi cosa, di comportarci come vogliamo. Il Nirvana è a portata di tutti, purché si lavori sodo (si lavori sodo…) abbiamo il diritto e, ci fanno credere, la possibilità di accedervi.

E siccome la ricerca della felicità è un diritto, almeno così è stato sancito da un certo punto in poi, se non la possiamo cercare la colpa è nostra, e ci dobbiamo sentire anche incapaci. Al di là del fatto che chi (gli Stati Uniti, per la precisione) sancisce che la felicità è un diritto dovrebbe prendersi la briga di definirla, la felicità, lasciando il concetto nel vago ci si fa invece credere che ognuno può trovarla come e dove vuole. Ma le cose, come vediamo giorno dopo giorno, non stanno proprio così. La felicità ci dicono che è una e una sola, e i popoli, le persone, le menti che non la accettano vi vengono forzati a crederla. 

Con invasioni militari o democraticamente culturali. O semplicemente modificando la società giorno dopo giorno sino a renderla vivibile in un unico modo. Il loro.

La nostra società, nel suo complesso, si muove in una unica direzione, ovvero quella della tecnoscienza e della economia. La felicità si raggiungerà quando avremo piegato del tutto la natura ai nostri scopi e quando saremo riusciti, in ogni modo, a realizzare il nostro massimo profitto. L’essere è stato spazzato via in luogo dell’avere. Sempre di più.

Di qui tutte le indicazioni - abbiamo visto, imposte con la forza o meno - di imparare il concetto come un mantra. Di farlo penetrare in noi in tutti gli aspetti della nostra vita. Ovviamente per guidare le nostre scelte, i nostri comportamenti.

E la libertà di cui parlavano prima? In cosa si risolve il fatto di aver eliminato tutto quanto vi era di sacro nella vita? Molto semplice: nell’apparenza di poter scegliere qualsiasi cosa, purché sia all’interno di un ambito prestabilito, nella direzione indicata, a favore del modello che si reputa in grado di condurci a tale felicità.

Chi non si adegua viene eliminato. Fisicamente o psicologicamente. In primo luogo perché chi non si riconosce in tale obiettivo è considerato inutile al progredire dell’ingranaggio infernale, in secondo luogo perché rappresenta l’orrore allo stato puro per i padroni (e padrini) del vapore. Chi non si adegua è la prova vivente della possibilità di vivere in modo altro, di desiderare qualcosa d’altro che non sia l’esempio talmudico indicato dal nostro modello. Una scheggia impazzita all’interno di una megamacchina che si reputa perfetta. È l’autentico ribelle del quale parliamo praticamente in ogni numero.

Tutti gli altri? Come si comportano tutti gli altri? Replicanti. Non altro che replicanti. 

Convinti di muoversi liberi nel migliore dei mondi possibili, e invece imbrigliati nelle sole scelte ritenute accettabili, al seguito dei soli modelli comportamentali indicati dal sistema. 

Puoi acquistare una maglietta di un colore oppure di un altro colore, ma entrambe sono fabbricate nelle fabbriche di schiavi cinesi. E ovviamente non puoi fare a meno di acquistarne almeno una.

Puoi scegliere una utilitaria oppure una berlina, ma nella nostra società non puoi fare a meno dell’automobile. E se non la hai sei un disadattato. Non parliamo se ti muovi in bicicletta.

Puoi comperare un quotidiano oppure un altro, e dunque hai la massima libertà, ma tutti provengono dallo stesso mondo industriale e capitalista, e la libertà, per crearne un altro, di giornale, si infrange non appena sei fuori da qualche lobby, non appena non partecipi ai salotti che poi ti fanno accedere ai contributi statali. Non appena ti aumentano le tariffe postali…

Puoi scegliere Rai o Mediaset, o persino La7, ma le facce che trovi su ogni canale sono sempre le stesse, a rotazione. 

I modelli sono quelli prestabiliti, veicolati dai falsi eroi, dall’industria culturale che spaccia sempre la stessa storia e la stessa vita mascherata ad arte da caso a caso.

Puoi insomma scegliere quello che vuoi, ma all’interno di ciò che vogliono tu scelga. Da uno scaffale o un altro, ma all’interno dello stesso supermercato.

E la libertà tanto decantata dove è finita allora? Ora che non dobbiamo più rispettare i valori prepolitici perché sono fuori moda e poco utili allo scopo, ora che non dobbiamo più rispettare la natura che ci permette la vita perché tanto la tecnologia penserà a risolvere tutto, ora che possiamo consumare anche per le generazioni future perché tanto non potranno mai venirci a rimproverare e questo ci hanno fatto credere che è quello che conta, di tutta questa finta libertà, cosa ce ne facciamo?

Ci hanno preso in giro. Ci hanno svuotato di tutte le cose indispensabili. Siamo sacchi vuoti senza storia né futuro, senza direzione né significato. Il massimo che possiamo fare è replicare, seguendo i modelli imposti. I nostri comportamenti li prendiamo da lì, dall’unico bouquet di esempi che ci mettono davanti agli occhi ogni giorno.

Eppure, per fortuna, c’è ancora chi si ribella. Chi è orgoglioso ogni volta che “dice no”. Chi si sente vivo davvero ogni volta in cui, anche nel piccolo, opera una scelta opposta a quella imposta. Chi conserva ancora un po’ di umano dentro di sé. Chi in primo luogo è.

Fonte: www.ilribelle.com (dal numero 23/24 di agosto/settembre 2010 del mensile La Voce del Ribelle)