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Gesù ebreo?

di Francesco Lamendola - 20/09/2010





È in atto un tentativo di rigiudaizzare Gesù Cristo: la sua figura, il suo messaggio, soprattutto il suo significato complessivo nella storia umana.
È un tentativo subdolo, perché prende le mosse da una giusta esigenza storiografica: quella di inserire Gesù nel contesto culturale che gli è proprio, il Giudaismo, dopo che duemila anni di Cristianesimo avevano finito per distaccarlo da esso in maniera impropria.
La verità che Gesù era Ebreo sarebbe perfino ovvia, se in tale affermazione non si celasse una insidia ancor più pericolosa della sua decontestualizzazione dalla religione, dalla cultura e dalla storia ebraiche: quella di insistere così tanto sulla sua ebraicità, da annacquare e, alla fine dei conti, da rimuovere e cancellare l’universalità del suo messaggio, la gigantesca grandezza della sua figura e il suo ripudio di ogni esclusivismo, ivi compresi quelli di tipo religioso.
Ha cominciato, vent’anni or sono, Riccardo Calimani, col suo «Gesù ebreo» (Rusconi, 1990); proseguono, ora, Corrado Augias e Mauro Pesce, con «Inchiesta su Gesù» e «Inchiesta sul Cristianesimo» (quest’ultimo col significativo sottotitolo: «Come si costruisce una religione»; entrambi editi da Mondadori, rispettivamente nel 2006 e nel 2008).
Calimani è ebreo ed Augias si premura di informarci, anche se non c’entra nulla col suo discorso, che la sua famiglia è di lontane ascendenze giudaiche (a pag. 46 di «Inchiesta su Gesù»), così come sono moltissimi gli autori ebrei che si sono occupati, nel corso degli ultimi decenni, della figura di Gesù, col particolare intento di “storicizzarla”: valga per tutti l’esempio di quell’Hugh J. Schonfield che nel suo controverso libro «Gesù non voleva morire» (Tindalo, 1968; ma il titolo originale è «The Passover Plot», 1965) spinge la “storicizzazione” fino a sostenere che Gesù finse di morire sulla croce, ma venne deposto e salvato prima che le sue funzioni vitali venissero irrimediabilmente compromesse. Scenario che sembra anticipare, nella sua assoluta mancanza di serietà storica, quello delineato dallo scrittore Dan Brown con il suo ormai famigerato (e letterariamente illeggibile) «Il Codice Da Vinci».
E, a proposito di Dan Brown, sembra proprio che i due libri della coppia Augias-Pesce vadano nella stessa direzione, e sia pure ad un livello culturalmente molto più sofisticato: il nocciolo della loro tesi, infatti, è che il Gesù storico, benché non si sappia molto di lui (concetto che Pesce ribadisce quasi ad ogni pagina), fu certamente tutt’altra cosa dal Cristo della fede; che quest’ultimo è stato una completa re-invenzione di San Paolo; che egli fu uno dei tantissimi “rabbi” che pullulavano in Palestina a quel tempo, anche se, indubbiamente, non fu un personaggio ordinario ma fuori dell’ordinario.
Il suo stesso messaggio finisce per essere stravolto, mediante tecniche di manipolazione molto sottili e che possono benissimo sfuggire al lettore un po’ frettoloso e privo di un adeguato retroterra culturale. Così, ad esempio, avviene quando si dà a credere che la frase contenuta in Luca, 19, 27, abbia per soggetto Gesù e non invece il protagonista della parabola da lui narrata; o come quando si afferma che il Vangelo di Giovanni non conosce le parabole dei tre Sinottici, senza distinguere fra “non conoscenza” e “conoscenza che vuole evitare ripetizioni”; oppure ancora quando, tirando le date un po’ per i capelli, Pesce si sforza di spostare in avanti la presunta data di composizione dei Vangeli canonici di qualche anno o di qualche decennio, per convalidare la tesi che essi vennero composti molto dopo la morte di Gesù e da persone che non avevano alcuna esperienza diretta dei fatti narrati: tesi che viene data per scontata, mentre è tutta da dimostrare.
Gesù “ebreo”, dunque.
Ma, tanto per cominciare: “ebreo”, in che senso?
La parola ha due distinti significati: nazionale e religioso. Nel linguaggio comune essi finiscono per coincidere; ma, evidentemente, non sono sinonimi: una cosa è appartenere al popolo ebreo, una cosa aderire alla religione giudaica.
Al tempo di Gesù i due concetti coincidevano? La cosa è oltremodo dubbia: tutto l’Antico Testamento è pieno delle lotte (non solo spirituali) sostenute dai patriarchi, dai profeti e da alcuni re di Giuda e d’Israele per ristabilire la religione mosaica, contro le tentazioni sempre risorgenti del politeismo praticato dai popoli vicini; e, al tempo di Gesù, la situazione non era certo cambiata, stante la profonda ellenizzazione della Palestina e la presenza dell’occupante romano. Dunque, si poteva essere Ebrei ma non seguaci della religione giudaica; e, viceversa, ci si poteva convertire al Giudaismo pur senza essere Ebrei.
Tuttavia, ammettiamo che Gesù, anzi, che Jeshu (abbreviazione di Yehoushua) si potesse ritenere un perfetto ebreo sia riguardo alla stirpe, sia riguardo alla religione: peraltro, sono veramente un po’ troppe le cose che non sappiamo, a cominciare dalla lingua che lui ed i suoi contemporanei parlavano, in Galilea e in Giudea: l’ebraico o l’aramaico? Sia come sia, Gesù era ebreo; e, dal punto di vista religioso, un ebreo estremamente osservante: su questo non c’è dubbio.
Tale, tuttavia, è il dato di partenza. Gesù non “era” ebreo; “partiva” dalla condizione di ebreo. Tutto sta a vedere se egli condivideva il feroce, implacabile esclusivismo, al tempo stesso nazionale e religioso, dei suoi compatrioti; tutto sta a vedere se il suo messaggio si possa, o meno, considerare rivoluzionario nei confronti della cultura del suo tempo e della religione professata dalle autorità rabbiniche, prime fra tutte quella dei Farisei e del gruppo facente capo al Sommo Sacerdote del Tempio di Gerusalemme.
Ed è qui che bisogna mettere le cose in chiaro. Se si insiste oltre misura sulla ebraicità di Gesù; se, per esempio, si dice e si ripete continuamente che il suo zelo religioso era, in tutto e per tutto, quello di un pio ebreo del suo tempo, allora si perde di vista l’essenziale: che il suo messaggio fu di carattere rivoluzionario (non in senso politico, ma religioso); che fu diretto, con estrema coerenza e decisione, contro i Farisei e contro la tradizione legalistica del Tempio; che sia con le sue parole, sia con le azioni, non fece altro che sfidare e, quasi, provocare, Farisei e sacerdoti: che, insomma, la sua visione dell’uomo e del suo riscatto non ebbe nulla a che fare con la religione istituzionalizzata del suo tempo, ma anzi si pose come nettamente eversiva rispetto ad essa.
E si perde di vista il fatto, che oggi può non piacere ad alcuni e si capisce anche il perché, che la sua morte fu voluta, deliberata, perseguita ed ottenuta essenzialmente dalle autorità religiose del Tempio; e che i Romani non ne furono altro che lo strumento. Tale è, senza possibili ambiguità, la versione del racconto evangelico («e che il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli», fu la formula adottata testualmente dalla folla che, davanti al Pretorio di Pilato, pretendeva l’immediata messa a morte di Gesù).
Per cui, o si ha il coraggio intellettuale di dichiarare che i Vangeli canonici sono totalmente inattendibili, oppure la si smette di dire che la sua morte fu voluta dai Romani per motivi politici e si riconosce che la responsabilità di essa ricade sui suoi correligionari, che spinsero un assai riluttante Pilato, il procuratore romano, ad emettere una sentenza capitale, minacciando, se egli non lo avesse fatto, di denunciare il suo scarso zelo all’imperatore romano.
Entrando nelle case dei pubblicani e facendo di essi dei propri discepoli; frequentando ogni sorta di peccatori e prostitute; predicando di non essere venuto per i sani, ma per i malati, vale a dire per quelli che l’Ebraismo rigettava con ribrezzo e riservava alle fiamme della Geenna; scacciando i venditori dal tempio; sostenendo apertamente che non l’uomo è fatto per il Sabato, ma il Sabato per l’uomo; mettendo in ridicolo i sacerdoti e i leviti, ad esempio nella parabola del buon Samaritano, ed esaltando la pietà dei non Ebrei, come appunto gli aborriti Samaritani, Gesù proclamava qualche cosa di nuovo e di diverso dalla tradizione mosaica: per cui il Cristianesimo non è stata affatto una “invenzione” dei suoi seguaci, ma una realtà da lui fondata.
Giusto, dunque, storicizzare la figura di Gesù ed inserirla nel suo contesto giudaico; inaccettabile, invece, fare di lui SOLTANTO un ebreo, un predicatore ebreo che si rivolgeva esclusivamente agli Ebrei: perché, in questo modo, si stempera la sua figura tra le tante che agirono e predicarono in quell’epoca; mentre egli fu ANCHE un ebreo, che però introdusse un tale spirito di novità nel Giudaismo, da distaccarsi irrimediabilmente dal solco della tradizione mosaica.
Né si può obiettare che il Sinedrio volle la morte di Gesù proprio per timore di una possibile repressione romana, causata dalla sua predicazione: innanzitutto perché Gesù fu molto attento nel non permettere che la sua dottrina venisse interpretata in senso grettamente nazionalistico («date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio»); e poi perché, appunto, la Palestina del tempo era percorsa in  lungo e in largo da predicatori religiosi, sul tipo di Giovanni il Battista: ma per nessuno di essi il Sinedrio chiese l’incriminazione; eppure, quanti di essi predicavano, loro sì, in senso favorevole al partito antiromano degli Zeloti!
Quando, vent’anni or sono, apparve il «Gesù ebreo», la reazione degli studiosi, dei biblisti e dei teologi cattolici fu di segno largamente positivo: si era in pieno spirito post-conciliare, di dialogo interreligioso; e, inoltre, in pieno pontificato di Giovanni Paolo II, che così profondamente si era scusato con gli Ebrei (nonché con molti altri interlocutori passati e presenti, dai Musulmani a Galilei) per le “colpe” dei Cristiani. Beata ingenuità, essi non si accorsero dell’insidia; non videro che, dietro il pretesto di storicizzare maggiormente la figura di Gesù, la posta in gioco era la negazione che Gesù avesse fondato una nuova religione e il suo ritorno in un ambito esclusivamente giudaico. Come dire: «Gesù è cosa nostra; è stato un rabbi giudeo, tutt’al più un eretico della nostra religione: voi Cristiani ne avete fatto un personaggio avulso dalla storia, un Cristo della fede che non ha alcun rapporto con l’uomo nato da Maria e da Giuseppe, vissuto in Palestina al tempo di Augusto e morto sulla croce durante il regno di Nerone».
Ora, è ben vero che si discute tuttora, e la cosa è perfettamente lecita, se Gesù, durante la sua vita pubblica, si sia realmente proclamato il Messia, l’Unto del Signore, in un senso più profondo e radicale di quello che avrebbe potuto rivendicare un comune mortale; ed è altrettanto vero che si discute tuttora che peso abbia avuto, nel contesto della teologia cristiana degli esordi, il fatto che San Paolo abbia spostato la prospettiva escatologica dall’insegnamento di Gesù alla fede in Gesù, e precisamente in Gesù crocifisso e poi risorto.
Certo, il Vangelo di Giovanni, più dei Sinottici, non lascia molti margini di dubbio in proposito: basti dire che inizia con l’affermazione che Cristo, in quanto Verbo, era presso Dio prima ancora che il mondo venisse creato; e che, pertanto, l’incarnazione del Gesù storico non segna la sua “comparsa”, ma piuttosto il momento della sua missione terrena, conclusa la quale egli è tornato a Dio, non senza aver lasciato presso gli uomini lo Spirito divino, quale sostegno vivo e operante all’interno delle loro anime.
Del resto, quale storico delle religioni troverebbe normale insistere oltremodo sul fatto che Buddha era indiano o che Mohammed era arabo; oppure, se vogliamo guardare alla religione e non alla stirpe, che Buddha veniva dall’alveo dell’Induismo e Mohammed da quello del Giudaismo e dello stesso Cristianesimo? Quel che conta, è sapere se essi operarono, oppure no, una rottura radicale con la tradizione del loro tempo.
Dopo di che si può anche ammettere che i seguaci del Buddha, per esempio, abbiano forzato  il suo messaggio, e di molto, trasformandolo in un Dio; ma resta il fatto che Buddha, con il suo insegnamento, è andato consapevolmente e deliberatamente oltre l’ambito della religione del suo tempo; tanto è vero che il sistema filosofico-religioso da lui fondato non prende posizione riguardo al problema di Dio, ma si concentra interamente sulla liberazione dell’uomo dalla morsa del dolore e dell’illusione. Qualcosa di simile si può dire per Mohammed, che, partendo dal Giudaismo e dal Cristianesimo, elabora una nuova forma di monoteismo ancora più radicale, ancora - se possibile - più intransigente di quelli.
Che senso avrebbe, dunque, parlare di un “Mohammed ebreo” o di un “Mohammed cristiano”? Certo, aiuterebbe a non trascurare il fatto che egli prese largamente spunto da quelle due religioni, per elaborare il proprio insegnamento; ma nulla di più. Analogamente, ricordare che Gesù era ebreo serve a meglio comprendere il suo modo di pensare e di agire; ma anche a misurare in tutta la sua portata la rivoluzione che egli ha compiuto rispetto alla religione giudaica.
Come già aveva visto Marcione, non vi è molto in comune fra il Dio “giusto”, e perciò terribile, dell’Antico Testamento e quello infinitamente misericordioso del Nuovo.
Il fatto che, ancor oggi, il Cristianesimo abbia in comune con il Giudaismo una buona parte del proprio testo sacro, è suscettibile di creare una situazione paradossale: anche se proprio il confronto fra lo spirito del Vecchio Testamento, in cui prevale un tono di gelosa, corrucciata intolleranza da parte di Yahvé e il ritratto fiducioso e benevolo che Gesù fa del Padre celeste, testimonia nel modo più eloquente l’abisso che separa le due concezioni.
Gesù “ebreo”, dunque?
No, grazie.
Almeno se, con questa formula, si intende che egli sia stato solo e unicamente un rabbi, un maestro fra i tanti, nell’ambito esclusivo del Giudaismo.