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La rinascita dell’Europa barbarica

di Luca Leonello Rimbotti - 21/09/2010

L’ineguagliabile potenza identitaria che si irraggia dalla storia della civiltà europea non deriva esclusivamente dall’eredità classica. Lo abbiamo già altre volte sottolineato, precisando che alla nostra Tradizione parteciparono con eguale dignità – anche se con diversa qualità realizzativa – molte altre componenti. L’antichità greco-romana, in questo senso, è accompagnata dal Germanesimo non meno che dal mondo celtico o slavo nel contribuire a definire il volto europeo in tutte le facce del suo prisma. La Grecia e Roma furono le realizzazioni somme di un modello civile di convivenza ben più esteso, che riposava su un vasto basamento di cultura popolare e di solidarismo sociale di tipo tradizionale. Magari privo di imponenti realizzazioni tecniche, letterarie o artistiche, ma ugualmente di elevata dignità. La cultura orale è stata ovunque nel nostro continente uno scrigno di valori che l’alta cultura e il senso del potere imperiale non fecero che innalzare ai massimi vertici.

Anche nelle aree rimaste al di fuori del raggio del dominio romano, l’Europa mostrò di possedere preziosi bacini tradizionali, solo apparentemente di natura diversa o inferiore. L’Europa romana e l’Europa barbara furono i due lati della stessa medaglia, con le stesse radici ed uguali inclinazioni sociali e mitopoietiche.

L’Europa originaria e primigenia, la Ur-Europa, precede sia Omero che Virgilio. La Roma arcaica di Romolo, per dire, è ancora un insediamento contadino indistinguibile da una tribù germanica, è ancora uno spaccato primordiale di civiltà popolare indoeuropea. La classicità greco-romana, quella del diritto, della filosofia e dell’amministrazione, dello Stato e dell’alta capacità tecnica che realizzarono l’Acropoli, la statuaria di Fidia, il Colosseo o gli acquedotti, sorse su un sostrato precedente, altamente omogeneo, che in molti contesti si perpetuò al di qua come al di là del limes. Civiltà europea sono infatti anche il mito etnico, i culti ereditari, la tradizione popolare, il solidarismo di villaggio e di stirpe. Aspetti di identità popolare presenti tanto ad Atene e a Roma quanto nelle realtà tribali germaniche, celtiche, slave. Ci sono insomma un’alta cultura e una cultura diffusa, che, indipendentemente dallo sviluppo, ci parlano di un’unica radice. E che, insieme, formano ciò che Benveniste studiò come istituzioni indoeuropee. Qualcosa di sostanzialmente unitario sin dalle origini proto-storiche, promanante da una coesione principiale di ceppo etnico, che è stata confermata da studiosi delle scuole più diverse.

Recenti tendenze della storiografia progressista sul mondo greco-romano rivelano  il fraudolento tentativo di barattare il sistema imperiale – fino a tarda epoca fondato su gerarchie sacre, sulla protezione della consanguineità di stirpe, sul mito popolare, sulla sacralità dello spirito guerriero, su profondi valori identitari - come fosse una anticipazione dell’attuale globalizzazione etno-pluralista, operando pedestri paralleli tra Imperium e governance USA. Non entriamo qui nel merito di simili manovre di equiparazione tra una civiltà altamente edificatrice e una società violentemente distruttiva. Vogliamo però segnalare che, in questo contesto di studiata   mistificazione, appaiono talvolta segnali di opposto segno. Quando, ad esempio, si afferma che «l’Europa ha anche delle potenti radici barbariche», si dice il vero. E, in un colpo, ci si sbarazza di quanti, invece, vorrebbero che le radici europee venissero identificate con ciò che non fu affatto originario, ma tardo e sovente casuale o addirittura del tutto estraneo: dal giudeocristianesimo all’islamismo, giù giù fino all’illuminismo e ai diritti liberali dell’individuo…

A scrivere che l’Europa ha potenti radici barbariche è uno storico polacco, Karol Modzelewski, nel lbro L’Europa dei barbari. Le culture tribali di fronte alla cultura romano-cristiana, recentemente pubblicato da Bollati Boringhieri. Comunque venga giudicato, si tratta di un tentativo di rivalutazione delle culture tradizionali europee, che spesso – e proprio a seguito della cristianizzazione e poi dell’involuzione progressista – furono e sono ancora oggi liquidate come aspetti secondari, primitivi, anzi demonizzabili, di un permanere di sostrati pagani e pre-cristiani. Che invece meritano la giusta considerazione da parte di chiunque abbia a cuore la difesa dell’identità europea, quale essa fu davvero all’origine.

Partendo da questo studio, facciamo solo qualche breve osservazione. Lo stesso Modzelewski scrive subito che «i popoli barbarici furono soggetti agli influssi della civiltà mediterranea fin dalla remota antichità». Al di sotto della cristianizzazione delle aree europee rimaste fuori dall’Imperium – che certamente integrò germani, baltici, slavi, ugro-finni nella cristianità bizantina e romana – continuarono a vivere società e istituzioni che rimontavano a epoche remote, e che presentano straordinarie somiglianze tra mondo greco-romano, sia arcaico che classico, e mondo barbarico. Vogliamo ricordare che parecchi decenni prima di Dumézil, ad esempio, l’antropologo Henry Sumner-Maine individuò «l’identità della comunità domestica degli slavi del sud con la gens romana, il genos ellenico, la sept celtica e la parentela dei teutoni», paragonando queste costituzioni tribali ai Rajput della società braminica indù. Si indicava nella comunità domestica una caratteristica generale europea, laddove, dalla comunità di villaggio russa, bulgara, croata, dalmata, fino a quella romana, era evidente la stessa devozione alla così chiamata parentela di grande sangue, quella patrilineare tipica della società indoeuropea. L’embrione sociale, nel ghenos greco come nella gens romana, come nella Gewere germanica, come nell’artel slavo – nucleo razziale dell’obscina russa, la comunità di villaggio – è sempre innestato sullo stesso schema: il vincolo del retaggio di sangue, la responsabilità solidale, l’associazione cooperativa, la fedeltà fanatica alla terra.

È questo un aspetto che, ovunque, l’Europa ebbe a fondamento della propria società, si trattasse di grandi edificazioni come Atene e Roma o di nuclei arcaici di culture ancora solo orali. In ogni caso, era la consanguineità che dava vita all’organizzazione sociale consapevole: a un certo punto, un capofamiglia diventa il capo, il capo diventa sovrano, lo Stato embrionale si forma e, in certe situazioni evolve, in altre rimane allo stadio tribale. Ma non muta di segno interiore. Ne sono prova gli organismi di decisione pubblica: dalla boulé greca ai comizi curiati romani al mir russo al ThingHerzen e dallo stesso Engels, nei suoi studi sulle origini della famiglia. germanico, è un unico dispiegarsi della “democrazia totalitaria” ancestrale, che accomuna l’ideologia gerarchica con quella dell’uguaglianza di stirpe. Queste attinenze, tra l’altro, vennero notate anche dal socialista

Questa è l’Europa barbara sulla quale poté sorgere il grande ciclo della classicità, che finché poté conservò al suo centro l’affinità biologica naturale. A Roma, alla curia si apparteneva per nascita, come alla Stamm germanica. L’accesso all’agorà ateniese era permesso solo ai Greci figli di Greci. Ugualmente, dell’obscina russa si faceva parte se membri comunitari. E, su tutto, si aveva una cerniera aggregante di religiosità: la sacra devozione che questi agglomerati umani portavano alla terra comune: la terra del popolo identificata col nume, con l’anima collettiva della stirpe eterna.

Quando gli studiosi rilevano che, ad esempio, la Germania non-romanizzata, per l’appunto quella barbara di oltre-Reno, di oltre-Elba, presentava il cosiddetto Fronhof, il dominio signorile semifeudale, origine della marca germanica, strutturato come la villa e la colonia romana; oppure, quando si prova l’identica struttura di ciò che gli studiosi chiamano famiglia stipite (basata sull’eredità indivisa del podere) dall’Italia e dalla Spagna romane fino all’Hannover, all’Holstein, agli Stati scandinavi, dove mai mise piede un legionario romano, la conseguenza che ne deriva è quella di essere di fronte a un sistema sociale primordiale perfettamente omogeneo, che va ben al di là delle vicende storiche e delle conquiste militari.

L’Erbhof, per dire di un esempio tipico, cioè il podere ereditario germanico-barbarico, è l’esatto corrispondente del klerosFustel de Coulanges: ma è già in Esiodo che si legge di come, a Sparta, la terra fosse così strettamente legata all’eredità di sangue da esserne proibita in ogni caso la vendita o l’alienazione. Se pensiamo che una delle cause della rovina del mondo rurale è stato nell’Europa moderna l’indebitamento della piccola proprietà contadina nei confronti degli usurai urbanizzati, noi vediamo in quale profonda misura l’Europa non importa se altamente civilizzata o barbarica – avesse chiaro che il nesso tra comunità di sangue, terra e protezione della tradizione era la vita stessa del popolo. Come in Grecia la syngheneia e a Roma lo ius sanguinis determinavano i valori ereditari, così, ad esempio, la società slava arcaica conosceva il mygkag, il clan basato sulla trasmissione dello sperma, considerato sostanza sacrale al pari del sangue. E, nel campo religioso, si avevano le medesime simbologie solari: da Apollo al Sol Invictus fino al russo-alano Ruxs, in stretta parentela con i culti di luce persiani e indo-vedici. greco che fu studiato da

Memorie primitive? Non si direbbe, se gli storici – a partire dal Duby – hanno definito ancora il Medioevo europeo essenzialmente come «una società di eredi». Oppure se, come ha scritto lo storico Jacques Heers, la feudalità europea, quasi tutta di ascendenza germanica, ripristinò il retaggio del clan familiare, rimasto intatto fino alla Rivoluzione francese e anche oltre. Modzelewsi, nel libro sopra ricordato, si occupa della secolare lotta fra la tradizione etnica e l’avanzante civiltà cristianizzata, apripista del progressismo. Descrive il sentimento dell’onore comune in uso in epoca medievale nelle società parentali dell’area slava, baltica, germanica. Parla di gerarchie sociali, comunità di vicinato, riti di assemblea e di culto, giuramenti di stirpe, giurisdizioni comitali. Rileva che, in tutti questi casi, sull’individuo slegato e astratto prevaleva la legge fraterna dell’ethnos. E conclude affermando che il retaggio barbarico è un cardine dell’identità nostra, sul quale bene o male riposa ancora oggi l’Europa: «Il legame nazionale si è sostituito a quello tribale, ma nello stesso tempo ha recepito e ha conservato fino ad oggi una parte delle rappresentazioni e dei simboli che in un remoto passato servivano a designare una comunità etnica…». Alla luce dell’assalto che oggi Occidente, Oriente e Terzo Mondo portano all’Europa, non è giunta l’ora – come fece Malaparte già nel 1925, quando parlò di rivolta dell’Italia barbara contro la modernità liberale – di un risveglio del popolo profondo e delle tradizioni ataviche europee?