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Un libro è sempre un amico?

di Francesco Lamendola - 22/09/2010



Si suol dire che i libri sono i nostri migliori amici e che incontrare sulla propria strada un buon libro è come trovare un vero amico.
Non è certo nostra intenzione raffreddare l’entusiasmo di chicchessia nei confronti della lettura e, in modo particolare, del libro, proprio noi che abbiamo sempre visto nei buoni libri dei preziosi e insostituibili compagni di viaggio.
Tuttavia, non possiamo trattenere un interrogativo: tutti i libri sono buoni e, pertanto, qualsiasi libro è sempre da considerarsi come un amico?
Con questo, non intendiamo far balenare neppure da lontano i roghi dell’intolleranza: ed è da vedere se fosse più intollerante, in fatto di libera lettura, il Medioevo oppure l’età moderna, visto che David Hume - per fare un esempio - consigliava di gettare nel fuoco tutti i libri che non rispondevano ai requisiti stabiliti dalla sua filosofia scettica e razionalista.
I libri vanno rispettati, sempre, così come i loro autori: essi meritano lo stesso rispetto che si deve ad ogni essere umano.
Ciò non significa che gli esseri umani siano tutti ugualmente rispettabili: meritano tutti rispetto in quanto esseri umani, ma non tutti godono di una uguale dose di rispettabilità. Rispettabilità e rispetto sono due cose diverse: la prima misura il giudizio morale della società nei confronti di un individuo; il secondo è un atteggiamento doveroso nei confronti di chiunque e che eventuali azioni sbagliate non dovrebbero mai far venire meno del tutto.
Anche un assassino merita rispetto, in quanto essere umano, benché l’azione da lui compiuta sia esecrabile; la stessa punizione che la società decide di applicare nei suoi confronti, non dovrebbe prescindere da una sostanziale forma di rispetto verso la sua persona.
Credere nella persona, infatti, significa distinguere fra l’uomo attuale e l’uomo potenziale. L’uomo attuale è soggetto a debolezze, errori, traviamenti; l’uomo potenziale, o uomo perfettibile, è sempre al di sopra delle proprie miserie, perché in lui traluce - magari sotto un pesante strato di detriti - la scintilla divina che vi fu impressa «ab origine».
Ed ora torniamo al libro.
Come la persona, il libro - qualunque libro - merita tutto il nostro rispetto; però non tutti i libri sono rispettabili in eguale misura. Ve ne sono alcuni di furbastri, che strizzano l’occhio ai bassi istinti del lettore, esattamente come certi politici gonfi di demagogia strizzano l’occhio ai più bassi istinti della plebe; questi non meritano certo lo stesso grado di considerazione di quegli altri, che sono frutto di lunghe veglie e di sudate conquiste spirituali.
Ma anche fra quelli che vengono scritti con assoluto disinteresse e con caparbio sforzo di verità, non tutti possiedono uguale rispettabilità. Alcuni sono stati scritti da chi intingeva la penna nell’inchiostro del fanatismo, dell’odio e del desiderio di vendetta; da cattivi maestri che hanno seminato una messe deleteria, che ha plagiato e traviato più anime.
D’altra parte, quando ci si addentra su questo terreno, bisogna essere consapevoli che si tratta di un terreno estremamente delicato. È vero che l’autore ha una responsabilità morale nei confronti dei lettori, però non sarebbe giusto esagerarla oltre misura. Innanzitutto, l’autore in buona fede non scrive per il successo, ma perché crede nelle proprie idee; forse non si cura nemmeno di sapere se avrà i «suoi venticinque lettori» e, del resto, la storia è piena di scrittori che sono stati letteralmente “scoperti” dal pubblico solo dopo la morte.
Certo, le idee espresse in un libro possono anche essere pericolose, fuorvianti, perfino criminali; ma resta il fatto che, normalmente, un lettore di sano giudizio se ne renderà conto fin dalle prime pagine. Se continuerà la lettura e se ne verrà influenzato nelle proprie scelte di vita, allora vuol dire che condivide quelle idee e, forse, le carezzava già da prima, magari in forma ancora indistinta. Non sarebbe giusto, pertanto, scaricare ogni colpa sul solo autore, affinché il pubblico possa rifarsi una verginità a poco prezzo.
Del resto, bisognerebbe vedere fino a che punto il libro sia espressione dell’animo del suo autore, e fino a che punto, invece, il suo autore sia lo strumento di un’idea che lo ha soggiogato e che continuerà a vivere anche dopo di lui, magari per secoli; così come, forse, viveva ancor prima che lui nascesse.
In generale, noi moderni occidentali, figli di una civiltà individualistica per eccellenza, tendiamo ad enfatizzare il ruolo del singolo individuo e, probabilmente, a gonfiarlo molto al di là del giusto e del ragionevole. Crediamo, piuttosto ingenuamente, che il singolo individuo sia un signore che, a un certo punto, si mette a fare, o a scrivere, delle cose particolari e che tali cose cambieranno il corso della vita dei suoi contemporanei, forse anche dei posteri.
In realtà, sarebbe più verosimile immaginare l’individuo come una canna attraverso cui fischia il vento; il vento che è qualcosa di più grande di lui e anche più grande della società del suo tempo: il vento che soffia direttamente dall’Essere.
Noi non potremmo fare nulla, se questo vento più grande di noi non facesse appello alla nostra disponibilità: avere un’idea, diffonderla, scrivere dei libri per seminarla ovunque, questo  vuol dire rispondere alla chiamata, essere degli strumenti volonterosi.
La chiamata, è chiaro, può venire dall’alto, ma anche dal basso: dalle regioni superiori dello spirito, così come dalle regioni infere.
E qui torniamo al nocciolo della questione: come distinguere un libro buono, ispirato dall’alto, da un libro cattivo, ispirato dal basso?
In linea di massima, vale ancora e sempre la vecchia regola aurea, secondo la quale un albero si riconosce dai suoi frutti. Nessun albero buono darà mai frutti cattivi, né alcun albero cattivo sarà in grado di produrre dei frutti buoni.
Ciò premesso, vi è ancora qualcosa da dire, non tanto sui criteri per giudicare la bontà di un libro (che, come quella delle persone, non è questione che si possa decidere a tavolino, ma solo attraverso il rapporto diretto), quanto sulla relativa imprevedibilità degli effetti che la lettura produce, esattamente come la frequentazione di una persona in carne ed ossa.
Intendiamo riferirci a quel fattore misterioso, insondabile, per cui - a determinate condizioni - anche da una esperienza in se stessa negativa, si può trarre un utile insegnamento per la propria vita; come pure - e qui il discorso si fa davvero inquietante - può accadere che da un libro ispirato a idee buone, possa scaturire una influenza nefasta su certi lettori. Insomma, al di là delle intenzioni di chi parla, scrive, agisce, e senza con ciò volerne ridurre la responsabilità, sta di fatto che non sempre gli effetti corrispondono esattamente a quanto sarebbe parso prevedibile.
I genitori, e specialmente i genitori di oggi, lo sanno bene: non è scontato che un buon esempio da parte loro sortisca automaticamente un buon risultato nella crescita dei propri figli; così come, anche se più raramente, non è detto che un ragazzo debba crescere “male”, pur avendo ricevuto cattivi esempi dai suoi genitori. Vi è sempre una componente personale di rielaborazione in ciò che si riceve, e ciò vale anche per il lettore nei confronti dell’autore di un libro.
Arrivati a questo punto, dobbiamo affrontare una questione particolarmente delicata e, ai nostri giorni, quanto mai impopolare: se, cioè, la larghissima diffusione delle idee consentita dai libri, anche nella loro recentissima versione informatica, sia da considerarsi realmente un bene per la società nel suo complesso; se, in altre parole, la diffusione delle idee sia un bene in se stesso evidente, indipendentemente dagli orecchi in cui esse cadono e, quindi, dalla possibilità di essere rettamente intese e, se del caso, rettamente tradotte in azioni concrete.
Abituati a un democraticismo di bassa lega che non guarda affatto alla qualità, ma solo alla quantità dei servizi erogati - scuola di massa, università di massa, mezzi d’informazione di massa, turismo di massa e via dicendo - abbiamo perso di vista l’essenziale: e cioè che le idee non sono una merce qualsiasi, come la frutta o la verdura, e che non basta spalmarle a tappeto, per produrre effetti positivi in quanti le ricevono.
A costo di suscitare le ire di qualcuno, osiamo anzi affermare che la mezza istruzione, la mezza cultura, la mezza intelligenza delle cose, sono più esecrabili della perfetta ignoranza: perché chi crede di non sapere, e non sa, non possiede neppure quella doverosa forma di umiltà che consiste nell’avere un atteggiamento di ascolto e di accoglienza verso il reale.
Non per nulla alcuni dei più grandi maestri che l‘umanità abbia avuto - Gautama Buddha, Socrate, Gesù Cristo - non vollero scrivere nulla; mentre altri, come Platone, divisero i propri insegnamenti “essoterici”, messi per iscritto e, quindi, teoricamente rivolti a chiunque, da quelli “esoterici”, esclusivamente orali, che erano indirizzati specificamente ai discepoli di provata intelligenza e con i quali esisteva un rapporto diretto e personale.
L’idea che si possa mettere qualsiasi libro nelle mani di chiunque è un’idea ingenua e pericolosa al tempo stesso: perché vi sono idee le quali, per essere digerite e ben comprese, necessitano di una idonea preparazione, senza la quale si possono generare i più gravi fraintendimenti. In fondo, è lo stesso principio che vale per la ginnastica e per la pratica sportiva: quale mai istruttore, serio e rispettabile, partirebbe subito dagli esercizi più difficili e impegnativi, trovandosi a davanti dei semplici principianti?
Quando mai un maestro di nuoto direbbe ai suoi allievi del primo corso che devono attraversare la Manica, o un maestro di karatè che essi devono cimentarsi con degli atleti del decimo dan? Oppure come potrebbe un maestri di roccia spingere il proprio allievo alle prime armi, su per una parete di sesto grado? Ebbene, per la lettura e la comprensione dei libri è esattamente la stessa cosa: solo che, poiché chiunque è in grado di leggere MATERIALMENTE un libro (purché sia alfabetizzato), si pensa – sbagliando - che chiunque sia anche in grado di capirlo.
Ovviamente, la soluzione a questo problema non può trovarsi in alcuna forma di censura preventiva; diciamo onestamente, anzi, che soluzioni non ve ne sono affatto, poiché si tratta di una delle tante contraddizioni che caratterizzano l’evoluzione tecnologica, economica, sociale e culturale della modernità.
La modernità, basata sull’idea di una crescita costante e illimitata, suscita essa stessa delle forze che, poi, non trovano il modo di essere riassorbite nel circolo del suo organismo e finiscono per destabilizzarlo, al di là di qualsiasi intenzione o previsione. È una continua proliferazione di effetti secondari, una metastasi permanente di contraddizioni che non riescono a produrre i propri anticorpi: e questo perché la filosofia grettamente utilitaristica e individualistica che ne sta alla base non possiede in se stessa, a monte di qualsiasi espressione pratica, la capacità di mediazione tra spinte contrarie che è tipica, invece, della filosofia cui si ispirano le società tradizionali (come quella medievale o, ultima in ordine di tempo in Occidente, quella contadina), fondate sul valore-cardine della stabilità.
Potremmo fare numerosi esempi al riguardo, ma uno per tutti crediamo posa bene rendere l’idea di questo aspetto compulsivo e, al tempo stesso, distruttivo della società moderna: la continua, ossessionante, instancabile sollecitazione sessuale, che, nata da ragioni di mero profitto economico, attraverso la televisione, la stampa, la letteratura e il cinema, finisce per provocare più tensioni di quante non sia in grado di assorbirne la pur rilassata morale sessuale della società permissiva. Anche perché, nella odierna realtà virtuale dominata dall’informatica e dalle sue forme di immaginario collettivo, esiste una discrepanza notevolissima e, per giunta, strutturale, fra apparenza e sostanza, fra ciò che si dice e la cosa detta: come sosteneva McLuhan, nell’epoca della televisione (e ciò vale, a maggior ragione, per il computer) «il mezzo è il messaggio».
Dunque, tornando alla domanda che ci eravamo posta inizialmente, se cioè un libro sia sempre e comunque da considerarsi un amico, la risposta non potrà che essere affermativa, ma solo in riferimento al lettore spiritualmente evoluto e consapevole. Per lui, nessuna lettura potrà mai risultare dannosa: ancorato a solidi valori e dotato di prudenza e senso delle sfumature, saprà vedere il lato buono anche nelle dottrine più discutibili, ed estrarne la parte utile, separando così il grano dal loglio.
Per il lettore inconsapevole, invece, perfino la lettura di libri eccellenti potrebbe risultare pericolosa, data la sua incapacità di filtrare le idee attraverso la propria intelligenza, la propria sensibilità e, soprattutto, attraverso una adeguata consapevolezza spirituale.
Ma di ciò, vorremo ritenere responsabile l’autore di quelle idee?
Sarebbe come voler addossare ai grandi maestri spirituali la responsabilità per i delitti commessi dai loro più degeneri seguaci: operazione sommamente scorretta e quasi sempre condotta in piena e deliberata malafede.