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Addio alla Sakineh americana

di Roberto Zavaglia - 26/09/2010

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E se un giorno Ahmadinejad intimasse al governo italiano di sospendere la pena dell’ergastolo per Rosa e Olindo, i coniugi assassini di Erba, poiché la loro vita è sotto la responsabilità della Repubblica islamica iraniana? E’ un’ipotesi assurda, ma è quello che ha fatto Sarkozy nei confronti di Teheran a proposito della condanna a morte di Sakineh. In entrambi i casi siamo di fronte a crimini “comuni”, con almeno un elemento di somiglianza. Anche i legali di Rosa e Olindo, come quelli della donna iraniana, sostengono che la confessione dei loro assistiti è stata estorta dagli inquirenti.
  Nessuno si stupisce che Sarkozy pretenda di far valere la sovranità francese in Iran, perché si parte  dall’implicito presupposto che i “nostri” sistemi giudiziari garantiscono ogni diritto, mentre quelli degli “altri” sono semplici imposture per nascondere la sopraffazione, essendo in vigore fra popoli ancora semibarbari. Qualche giorno fa, però, i lettori dei giornali hanno scoperto che c’è una Sakineh anche nella “più grande democrazia del mondo”. Si chiama Teresa Lewis ed è stata condannata a morte e giustiziata per lo stesso identico crimine di Sakineh: concorso nell’omicidio del marito, materialmente eseguito dal suo amante. Chi ha difeso la Lewis sostiene, come nel caso dell’iraniana,  che la sentenza capitale è ingiusta perché il tribunale non ha tenuto conto degli elementi a sua discolpa. In particolare, la Corte d’Appello non ha accettato le dichiarazioni con cui  l’assassino, poi suicidatosi in carcere, ha confessato di essere stato l’ideatore del delitto e di avere coinvolto la sua amante grazie al dominio psicologico che esercitava su di lei.
  Secondo le perizie psichiatriche, la 41enne statunitense ha un quoziente di intelligenza bassissimo, ma il giudice non si è fatto alcun problema a condannare alla pena capitale quella che è da considerarsi una disabile mentale. L’opinione pubblica internazionale ha avuto conoscenza di questo caso solo perché il presidente iraniano Ahmadinejad, negli Usa per partecipare all’Assemblea generale dell’Onu, ne ha parlato in un discorso pubblico, per sottolineare il diverso standard occidentale sui diritti dell’uomo: indignazione collettiva per Sakineh, disinteresse totale per la Lewis. Nei media si è subito alzato un coro che nega ogni possibile paragone. Pierluigi Battista, per esempio, sulla prima pagina del Corriere della Sera di giovedì, ha parlato di  “sfrontatezza” di Ahmadinejad. Secondo il molto liberale editorialista, “la pena di morte rappresenta un orrore, sempre”, ma in Iran lo è molto di più.
  A inorridire Battista è il sistema della lapidazione, che disgusta profondamente anche noi, ma sul quale torneremo più avanti. L’impossibilità di raffrontare le due identiche condanne sarebbe rappresentato dal fatto che in Iran, anche per i reati comuni, manca ogni garanzia giudiziaria, la tortura è pratica quotidiana, gli avvocati sono imbavagliati e, insomma, è inesistente “ogni parvenza di Stato di diritto”. Dall’esame di quali atti giudiziari Battista tragga questa sua convinzione non è dato di sapere, ma ovviamente nessuno gli chiederà mai di dimostrare le sue drastiche osservazioni. Il suo sillogismo è il seguente: il sistema politico iraniano non è di tipo liberale, i non liberali sono dei bruti, l’Iran è un posto brutale. Dall’apparato giuridico, fino a, immaginiamo, la produzione agricola o l’edilizia popolare tutto è nequizia.
  Sul caso Sakineh è difficile avere notizie certe, per quanto ci si sforzi a cercarle. La stessa “Amnesty International” ha dichiarato di non conoscere gli atti giudiziari. Per la grande stampa occidentale si tratta di una condanna comminata per un semplice adulterio. Navigando fra i siti di “controinformazione” non si riesce a chiarire tutti i dubbi. Quello che siamo riusciti a capire, collazionando una serie di fonti diverse e con il beneficio di inventario, è che la condanna a morte è stata inflitta per il concorso nell’omicidio del marito e non per il solo adulterio. Della lapidazione, che giustamente preoccupa Battista, non ci dovrebbe essere pericolo perché l’Iran ha rinnovato, nel 2008, la moratoria già stabilità sei anni prima nei confronti di questo genere di esecuzione, mentre in Parlamento è depositato un progetto di legge per la sua abolizione. Almeno secondo le fonti ufficiali, non esistono, negli ultimi anni, casi di lapidazione, che era in voga ai tempi del filo occidentale Reza Pahlevi ed è tuttora applicata dall’altrettanto filo occidentale Arabia Saudita, senza che Battista e il suo giornale se ne diano grande pena.
  Sul capo di Sakineh (voglia Iddio che l’informazione sia vera) non pende “da un momento all’altro” l’esecuzione in modo arbitrario, perché il suo caso sarebbe tuttora all’esame della Cassazione, dopo i due primi gradi di giudizio. Il quadro che ragionevolmente ci si può fare è semplicemente quello di una persona la quale è stata condannata, con prove che nessuno in Occidente è in grado di valutare, a causa di un reato per il quale in Iran, come in diverse decine di altri Stati, è prevista la pena di morte. L’enorme eco suscitata dalla vicenda è frutto della campagna organizzata dal giro del solito Bernard Henry Lévy che, da sempre, è alla ricerca di crimini dei nemici dell’Occidente, con i quali commuovere l’opinione pubblica e dare una lucidata da coraggioso difensore dei diritti umani alla sua immagine di attempato playboy zazzeruto, con l’eterna camicia bianca sbottonata fino all’ombelico.   
  La strumentalizzazione del dramma di Sakineh, più in piccolo, ripropone quella della frase di Ahmadinejad sulla “cancellazione dalla mappa di Israele”, gabellata per un proposito genocida, quando invece si trattava di un auspicio, legittimo come era quello sul crollo del comunismo in Russia, della fine dell’identità sionista dello Stato, con l’instaurazione di pari diritti per arabi ed ebrei. Con ciò non esprimiamo alcuna fede nella perfezione del sistema giuridico iraniano, il quale sarà pieno di difetti come altri, e ammettiamo che, se accusati di qualche crimine, preferiremmo essere giudicati a Londra (a New York no, a meno di possedere una fortuna per pagare avvocati di grido in grado di farci assolvere pure se colpevoli) piuttosto che a Teheran. Non ci sembra che, però, tutte le eventuali storture dipendano dal “dispotismo” della Repubblica Islamica. Chi ricorda il film “Fuga di mezzanotte” non ha nessuna voglia di provare di persona se i giudici e i secondini della pur laica e democratica Turchia sono davvero così fetenti come li si rappresentava…
  Con o senza lapidazione, la pena capitale di Stato è già una tortura: anni interi passati ad aspettare nella cella della morte che la burocrazia faccia il suo corso; notti infinite in cui si alternano  speranza e disperazione. Le campagne propagandistiche a senso unico rendono più difficile lottare contro questa barbarie e, demonizzando il “nemico”, preparano il terreno ad altre Abu Ghraib.