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Houellebecq il mediatico, ritorna in splendida prosa

di Gian Paolo Serino - 26/09/2010




Ogni suo libro è destinato a suscitare clamore mediatico. E anche il nuovo attesissimo romanzo di Michel Houllebecq, lo scrittore francese contemporaneo più tradotto e conosciuto al mondo, non sembra far eccezione. In molti, soprattutto intellettuali e giornalisti francesi, si chiedono se la grande visibilità che precede ogni sua opera più che per meriti letterari non sia costruita ad hoc per farsi pubblicità. Di certo l’obiettivo è sempre raggiunto: in Francia ogni suo nuovo libro è atteso come un’epifania.

Mediaticamente lo scrittore è un abilissimo radical chic dal cuore di velluto: un Proust postmoderno che alla madeleine predilige il sesso estremo, che alla politica preferisce l’anarchia individualista (oggi la posizione migliore per dire tutto e non subire niente) e che all’accademismo di certi intellettuali preferisce un argot che sembra popolare ma è quanto più salottiero possa esistere.
Anche in Italia l’attesa del nuovo romanzo La carta e il territorio è frenetica: i lettori lo troveranno in libreria solo da mercoledì prossimo, ma sono settimane che quotidiani e magazine si contendono ogni scusa per superare l’embargo al libro imposto da Bompiani: il dicktat è chiaro, non se ne può scrivere sino al giorno dell’uscita. E allora ecco comparire interviste rilasciate a giornali francesi prontamente riproposte da noi, pagine sul presunto plagio dello scrittore che era stato accusato di aver copiato molti passaggi del libro addirittura da Wikipedia. Accuse subito smentite dagli stessi responsabili dell’enciclopedia Internet più famosa del mondo, ma che evidentemente non sono servite a placare l’ansia da prestazione della critica italiana.
Noi sfondiamo l’embargo, non siamo pubblicitari alla mercé delle case editrici, abbiamo letto il libro e ve lo raccontiamo. Prima sorpresa: in La carta e il territorio non c’è nulla da eccepire. Houllebecq dopo gli ultimi romanzi flop è finalmente tornato alle vette narrative de Le particelle elementari, il suo romanzo d’esordio, con passaggi che incantano per l’estrema poesia della prosa. In molti, in primis gli editori, sembrano aver dimenticato che Houellebecq è su tutto un grandissimo poeta: la sua raccolta Il senso della lotta, tradotto e pubblicato da Bompiani nel 2000 con curatela di Aldo Nove, è da tempo scomparsa dal catalogo. Un vero peccato perché in quei versi comprendiamo che lo scrittore non sia un fenomeno da baraccone, come in troppi tendono a volerlo definire, ma soltanto «un lupo in una steppa incolta»: un intellettuale divoratore di vita che si trova in una società dove tutti cercano di mimetizzarsi facendosi assorbire dal terreno. Houellebecq si ribella a questi meccanismi (sembra chiudere un occhio soltanto verso quelli che regolano l’uscita dei suoi libri) e ci racconta il nostro oggi con lo sguardo antico di un flâneur e lo spaesamento di un hooligan scaraventato in un asilo nido. Lo scrittore è chiaro sin dall’incipit: «Io tedio il mondo e il mondo tedia me», citazione di Charles D’Orleans, che del “cavalier cortese” in questa frase non ha proprio nulla. Perché Houellebecq - e lo dimostra in questo libro mai come in passato - più che un moderno situazionista è un citazionista. Non è Umberto Eco, la cui abilità narrativa sta tutta nel cognome, ma un ricercatore della parola. Non un semiologo ma un destabilizzatore di quello che chiamano sentire comune (un tempo la chiamavano più semplicemente ignoranza), un intellettuale sempre contro quella che Pasolini chiamava «omologazione» e che il francese definisce «modernità frenetica» di una società «polarizzata intorno ai suoi grandi ipermercati e ai suoi personaggi people...». Per Houllebecq il problema (molte volte è stato accusato di razzismo soprattutto della cultura islamica) non sono i «boat people», ma noi: dei «life people» che si aggrappano ai parabordi della vita per non diventare dei «border live».

Attraverso una trama perfettamente congegnata e godibilissima leggiamo la storia di un artista che si dedica a opere ispirate alle carte geografiche della Michelin e che per la prefazione al catalogo della sua nuova mostra chiede aiuto a uno scrittore di successo. Che altri non è se non lo stesso Michel Houllebecq il quale nel romanzo, senza volervi svelare la trama, finirà brutalmente assassinato, «spiaccicato sul pavimento e ridotto a fettine». Da lì parte un’indagine esistenziale (con meccanismi narrativi molto, troppo, simili ad Agatha Christie) in cui lo scrittore vivente attraverso il suo alter ego defunto spara a zero su tutti: dall’arte iconizzata di Picasso alla letteratura contemporanea, dai falsi miti del moderno luccichio consumista a tutta la disperazione di chi continua a scrivere pur vivendo come una «vecchia tartaruga malata». Sempre più lontano (lui, depresso bipolare come il protagonista del libro) da quella febbrile felicità provvisoria, da quella «felicità epicurea, tranquilla, raffinata senza snobismo, che la società occidentale propone ai rappresentanti delle sue classi medio-alte a metà della vita».
In questo nuovo Houellebecq, la violenza del linguaggio è ingentilita da una violenza più raffinata, da una scrittura più meditata, meno compulsiva, paradossalmente più cesellata ma molto meno costruita. C’è molta feroce innocenza in questo romanzo, quasi un’ingenuità che stride con la figura mediatica di pensatore porta-a-porta disposto a tutto pur di apparire sui giornali. Un Houellebecq più posato, per quanto lo possa essere un Che Guevara dell’upper class quando decide di passare dalle molotov all’inchiostro. Un Houllebecq che è un dovere civile leggere: non lasciatevelo scappare. Può sembrare un spot, ma non lo è. È soltanto la dichiarazione d’amore di chi ha ritrovato un vecchio amico che si era allontanato. Perso tra le elucubrazioni dei suoi romanzi precedenti, del suo apparire a ogni costo sino a perdere la coerenza letteraria. Non è uno spot. Altrimenti avremmo rispettato l’embargo dell’ufficio stampa. Che Bompiani ce la mandi buona.