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FMI contro Wall Street?

di Ilvio Pannullo - 01/10/2010



Sono tornate a cantare le sirene dell’ottimismo: la crisi che non c’era è già finita. Siamo già in ripresa: si ritorna a vedere il segno positivo davanti agli indicatori che misurano la dignità e il benessere dei popoli, quindi tutto é finalmente tornano a splendere come prima ed il futuro sarà migliore del presente. Ma siamo davvero sicuri che tutto vada bene? Chi l’ha detto che la crisi è finita? Sulla base di quali dati economici poggia quest’importante affermazione?  Ovviamente si guarda allo stato di salute dell’economia americana per capire cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro. Se infatti Wall Street starnutisce, a Londra generalmente il termometro punta ai 40 gradi, ma se l’economia americana ha un raffreddore, in Europa si rischia di morire per un’influenza virale.

Ecco allora il resoconto in breve di quanto è accaduto recentemente nel cuore pulsante dell’impero: la settimana si è chiusa decisamente in bellezza per la piazza azionaria americana che, a distanza di poche ore dalla flessione di giovedì, non solo è riuscita a recuperare le perdite, ma è stata capace di spingersi anche oltre. Gli acquirenti hanno assunto da subito il comando sfruttando alcune positive indicazioni arrivate dal fronte macroeconomico. Prima dell’apertura a Wall Street è stato diffuso l’aggiornamento relativo agli ordini di beni durevoli che sono scesi dell‘1,3% ad agosto, oltre le previsioni degli analisti che puntavano ad un ribasso dell’1%.

A compensare questa delusione ci ha pensato, però, il dato al netto della componente trasporti, che ha evidenziato una variazione positiva del 2%, rispetto allo 0,8% atteso. Sul versante immobiliare - vero indicatore del reale stato dell’economia americana - si segnala invece che le vendite di case nuove si sono attestate a 288mila unità, in linea con la rilevazione precedente che è stata rivista al rialzo da 276mila a 288mila unità. Il dato si è rivelato inferiore alle previsioni degli analisti che avevano messo in conto una salita a 295mila unità.

Un’indicazione questa che tuttavia non ha scalfito l’ottimismo del mercato che ha continuato a guardare con fiducia alle prospettive della ripresa economica negli Stati Uniti. Il risultato è stato quello di una vera e propria corsa all’acquisto che ha permesso ai tre listini principali di terminare gli scambi sui massimi intraday (l’indicatore finanziario creato da David Bostian che mette in relazione il movimento di prezzo con i volumi scambiati di un titolo).

ll Dow Jones e l’S&P500 sono saliti rispettivamente dell‘1,86% e del 2,12%, mentre il Nasdaq Composite si è fermato a 2.381,22 punti, in salita del 2,33%. Tutto fantastico verrebbe da pensare. Peccato però - ha ammonito il Fondo Monetario Internazionale - che America ed Europa si trovino oggi di fronte alla peggiore crisi dell’occupazione dagli anni ’30. Il rischio - dice sempre il FMI - è “un’esplosione di agitazioni sociali” a meno che non si proceda con attenzione.

Una persona mentalmente sana a questo punto potrebbe interrogarsi sul perché di una situazione tanto paradossale. Com’è possibile che le borse di mezzo mondo addirittura recuperino terreno mentre i dati sul lavoro descrivono una realtà simile a quella che poi sfociò nella Seconda Guerra Mondiale? E’ possibile un tale evidente ossimoro? Può il sole essere freddo? La risposta è una e una soltanto: sì, il sole può essere freddo e i mercati in rally possono descrivere una realtà socioeconomica che definire drammatica sarebbe un eufemismo. Questo è il quadro che ci viene descritto dalle massime autorità di vigilanza dell’economia mondiale : “Il mercato del lavoro è in gravi difficoltà. La Grande Recessione si è lasciata alle spalle una terra desolata di disoccupazione”. A dirlo è stato Dominique Strauss-Kahn a capo dell’FMI, a Oslo nel corso di un summit dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO).

Strauss-Khan ha detto che una doppia recessione rimane improbabile, ma ha sottolineato che il mondo non è ancora sfuggito ad una crisi sociale ben più grave. Ha sostenuto che sia un grave errore pensare che l’Occidente sia di nuovo in salvo dopo aver barcollato così vicino all’abisso lo scorso anno. “Non siamo al sicuro”, ha detto testualmente. Nel rapporto congiunto FMI-ILO si afferma che dall’inizio della crisi sono andati perduti 30 milioni di posti di lavoro, di cui tre quarti nelle economie più ricche. La disoccupazione globale ha raggiunto il livello di 210 milioni d’individui senza lavoro.

Per non lasciare niente al caso, ha aggiunto che “la Grande Recessione ha lasciato ferite aperte. Un’alta e duratura disoccupazione rappresenta un rischio per la stabilità delle democrazie esistenti”. Si guardi a titolo di esempio alla Grecia, letteralmente strozzata dai debiti e costretta a sopportare la perdita di diritti acquisiti in secoli di lotte tra capitale e lavoro. Misure draconiane che verranno sopportate da chi ha già sopportato di tutto e che ora, non avendo più nulla da perdere, è disposto a perdere tutto pur di conservare quella dignità che spetta ad ogni essere umano. Con tutto quello che questo può significare in termini di violenza e repressione della stessa in nome di un presunto “ordine pubblico”.

Lo studio citato evidenzia poi che le vittime più giovani della recessione, sui vent’anni o poco più, riportano danni permanenti perdendo la fiducia nelle pubbliche istituzioni. Una nuova spirale è costituita da un apparente declino della “intensità dell’occupazione per lo sviluppo” perché il contraccolpo sulla produzione provoca un minore incremento del numero di lavoratori. Per questo motivo è difficile riassorbire tutti quelli lasciati fuori dal mondo del lavoro, anche se la ripresa riprende il ritmo.

Il mondo dovrebbe creare 45 milioni di posti di lavori all’anno nella prossima decade solo per stare a galla. Insomma nella migliore delle ipotesi si tratta di favole, nella peggiore di un depistaggio voluto e lasciato serpeggiare nel mainstream televisivo per distrarre le masse dal nocciolo del problema, che rimane la creazione di un mercato mondiale dei capitali e delle merci senza però che a globalizzarsi siano anche i diritti civili, politici e sociali.

Olivier Blanchard, il capo economista del FMI, ha detto che in passato la percentuale di lavoratori disoccupati è cresciuta ad ogni fase negativa, ma questa volta la cifre hanno visto un’impennata. “La disoccupazione a lungo termine è fortemente allarmante: negli USA la metà dei disoccupati è stata lontano dal lavoro per oltre sei mesi, qualcosa che non avevamo visto dai tempi della Grande Depresione”, ha detto. La Spagna ha subito il colpo più duro, con la disoccupazione vicina al 20%. Il tasso della Gran Bretagna è salito dal 5,3% al 7,8% negli ultimi due anni. Attualmente i disoccupati britannici raggiungono i 2,48 milioni.

Mr. Blanchard ha richiesto uno stimolo monetario addizionale quale prima linea di difesa se “i rischi peggiori dovessero materializzarsi”, ma ha aggiunto che le autorità non dovrebbero escludere un'altra spinta fiscale, nonostante le preoccupazioni sul debito. “Se lo stimolo fiscale aiuta a evitare la disoccupazione strutturale, effettivamente si paga da sé”, ha affermato. I Paesi più avanzati non dovrebbero, stando a quanto detto dal capo economista del FMI, dare una stretta alle politiche fiscali prima del 2011: restrizioni precoci indebolirebbero la ripresa ha dichiarato il rapporto, sgridando la Coalizione in Gran Bretagna, i falchi dell’opposizione in Germania, e i Repubblicani USA. Sotto il socialista francese Strauss-Kahn, pare, infatti, che il FMI abbia assunto un aspetto finalmente keynesiano.

Dunque non “meno Stato” come sempre veniva insegnato prima che il mondo della finanza crollasse sopra l’economia reale con le sue bolle e i suoi debiti, ma “più Stato”. Dunque non tagli alle tasse, ma una loro rimodulazione, affinché chi ha accumulato ingenti fortune in questi anni di espansionismo monetario paghi quanto dovuto, proporzionalmente al proprio reddito. Ma in America, patria della libertà, questo suona come socialismo. E l’impero - si sa - con i comunisti non discute, semplicemente li passa per le armi.

Nonostante infatti la povertà (in particolare quella estrema) abbia fatto uno straordinario balzo in avanti durante la recessione, milioni di persone abbiano perso la casa e i giovani non riescano a trovare un lavoro; malgrado ciò, le manifestazioni di collera - quella forma di rabbia che porta a paragonare il presidente Obama a Hitler, o ad accusarlo di tradimento - non la si trova tra gli americani cui toccano queste sofferenze. Ma la si trova tra quelli più privilegiati, che non hanno l’ansia di perdere il proprio lavoro, le loro case o la loro assicurazione medica, ma che sono scandalizzati ed indignati all’idea di dover pagare tasse leggermente più alte.

Questa rabbia dei ricchi monta da quando Obama è entrato in carica. All’inizio è rimasta confinata a Wall Street, ma adesso pare stia contagiando l’intero paese. Quando il miliardario Stephen Schwarzman ha paragonato una proposta di Obama all’invasione della Polonia da parte dei nazisti, la misura in questione prevedeva di sopprimere una nicchia fiscale di cui beneficiavano in particolare gestori di fondi come lui. Oggi, che si tratta di decidere della sorte delle riduzioni d’imposte stabilite da Bush - le tasse imposte ai più ricchi forse torneranno ai livelli dell’era Clinton - la collera dei ricchi si è amplificata. E da alcuni punti di vista ha cambiato natura.

Da una parte, questa collera ha guadagnato il dibattito pubblico. Una cosa è quando un miliardario si sfoga durante una cena; un’altra quando la rivista Forbes pubblica in un articolo che il presidente degli Stati Uniti tenta deliberatamente di distruggere l’America in nome di un programma “anticolonialista” venuto dal Kenia, e che “ gli Stati Uniti sono guidati secondo i sogni di un membro della tribù Luo degli anni ’50.” Quando si tratta di difendere gli interessi dei ricchi, sembra che le normali regole del civile e razionale dialogo non siano più applicabili.

Come ha puntualizzato in suo recente intervento Paul Krugman, “i ricchi hanno più influenza”. “Ciò - scrive l’autore sul New York Times - è in parte dovuto alle loro contribuzioni alle campagne elettorali, ma dipende anche dalla pressione sociale che possono esercitare sui politici. Questi ultimi passano molto tempo con i ricchi. E quando i ricchi sono minacciati di pagare un supplemento d’imposta del 3 o 4 per cento sul reddito, i politici ne hanno compassione in maniera assai più acuta rispetto a quando si confrontano con la sofferenza delle famiglie che perdono il lavoro, le case e le loro speranze”.

La verità è che una guerra di classe effettivamente c’è ed è la guerra che i grandi proprietari - quella superclasse descritta dal premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz in un suo famoso saggio - muove quotidianamente, con mezzi crescenti e tecniche sempre più sofisticate, non contro i poveri, ma contro quella classe media oramai in via di estinzione, ovunque nel democratico Occidente. Tocca darsi una svegliata o, presto, non ci sarà un futuro per tutti.