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I nostri padroni inglesi

di Franco D'Attanasio - 04/10/2010






Riporto un articolo tratto da Libero di Domenica 26 Settembre. Veramente poche parole sarebbero da aggiungere data l’eloquenza di ciò che ci rileva l’autore Ugo Bertone.
Come sempre più spesso accade in questo periodo buio della storia politica italiana, notizie di tale portata finiscono letteralmente sotto traccia, all’opinione pubblica si dà in pasto tutt’altra roba. Così questa verminosa classe politica che ci ritroviamo ai vertici può continuare indisturbata ad ingrassare spolpando letteralmente quel che rimane delle ossa del nostro disgraziato paese. Un’ennesima conferma di ciò che andiamo dicendo oramai da anni intorno alla sporchissima operazione “mani pulite” ed al ruolo che in tale contesto ha svolto quel che veniva identificata come sinistra, un’accozzaglia di lerci individui per lo più formata dai rinnegati del “comunismo” stile PCI, i quali non hanno avuto nessun ripensamento nel mettersi al servizio dell’establishiment finanziario e politico anglo-americano. Il fine di quest’ultimo era e rimane quello di annientare letteralmente ogni sussulto di dignità ed autonomia che possa promanare dalle parti più vitali del nostro tessuto sociale e produttivo. Ma è un po’ tutta l’Europa che è messa così, sicuramente un po’ meglio la Germania, ma se non si inizia, fra le altre cose, a smettere di essere ossequiosi nei confronti dei diktat provenienti dalle oscure burocrazie dell’UE, non potremmo che continuare ad affondare con esiti politici e sociali del tutto imprevedibili. Le nuove regole comunitarie − anch’esse del tutto ignorate dai soloni della “democraticissima” informazione italiana e sapete a chi mi riferisco in particolare − approvate di recente sono state elaborate al solo fine di strangolare soprattutto i paesi meno sviluppati della stessa Unione; ma sarà questa la volta buona che qualcuno molto influente inizi seriamente a protestare?

Listini che viaggiano
Piazza Affari finisce in Sri Lanka
I padroni inglesi della nostra Borsa hanno deciso di delocalizzare il sistema informatico Così Milano rischia di trasformarsi in una succursale del potente London Stock Exchange
Ugo BERTONE
La notizia, sepolta sotto l'emo­zione per la "spallata" anti Profumo, è passata in silenzio. Ma proprio lo stesso giorno del braccio di ferro in piazza Cordusio, il supplemento Lom­bardia del Sole 24 Ore ha rivelato che "un pezzo di Borsa vola verso l'Asia".
In sostanza, anche se mancano con­ferme ufficiali, i vertici del London Stock Exchange, che ha ormai trasfor­mato Piazza Affari in una controllata più che un partner, stanno vagliando l'ipotesi di trasferire in Sri Lanka alcu­ni segmenti dell'Information Techno­logy oggi attivi a Milano. Per carità, da Piazza Affari è presto arrivata la preci­sazione che "Milano continuerà ad es­sere una sede importante del gruppo". E così via. Ma la trama del film, a giudicare dalle scene che si sono girate fi­nora sembra segnata: palazzo Mezza­notte, un tempo simbolo del dinamismo finanziario del Paese, ormai serve per le sfilate di moda. O per il medio levato al cielo di Maurizio Cattelan. E mai metafora fu più vera o significa­tiva.
Già, non si tratta di fare del campa­nilismo provinciale, ai tempi dell'eco­nomia globale. O nemmeno di far pre­sente che Piazza Affari, già motore di occupazione di colletti bianchi ad alta­qualificazione, ha già perduto il re­sponsabile dell'ufficio legale, delle re­lazioni esterne e dell'ufficio studi, or­mai sostituiti dagli uffici della sede britannica. Ma vale comunque la pe­na di ripercorrere dal '97, per combi­nazione la data d'avvio dell' avventura di Alessandro Profumo alla guida di Unicredit, la parabola delle occasioni perdute dalla piazza finanziaria me­neghina.

1) Per prima cosa va rilevato che la privatizzazione della Borsa si è rivelata l'affare migliore della recente storia bancaria italiana. Nel 1998, lo Stato, infatti, ha incassato la bellezza di 158 miliardi di vecchie lire al momento di cedere, pro-quota, il vecchio ente pubblico alle banche. Nel giugno del 2007, invece, al momento dello scam­bio azionario con il London Stock Exchange, Piazza Affari è stata valuta­ta 1,6 miliardi di euro. Un guadagno strepitoso. O anche di più visto che i dividendi versati ai soci dalla Borsa italiana spa, nel frattempo, avevano ampiamente ripagato il prezzo d'ac­quisto.

2) Al momento della fusione con Londra il sistema bancario italiano di­sponeva del 28 per cento circa della società dell'Lse. Inoltre, quasi in coin­cidenza con la fusione, il Nasdaq de­cise di vendere la sua quota. Era l'oc­casione per consolidare, attraverso l'investimento delle Fondazioni inte­ressate (Crt, Verona e Mps) , la presen­za italiana nell'azionariato. Mica per dominare la Borsa inglese, ma per tu­telare le leadership tecnologiche del mercato italiano, il più avanzato del mondo nella trattazione dei titoli di Stato.

3) È difficile sostenere che il mondo politico non fosse consapevole della partita: tra il 1999 e il 2006, le migliori menti della sinistra hanno dato vita a diversi comitati per la piazza finanzia­ria italiana. Il primo l'ha fondato lo stesso Carlo Azeglio Ciampi, poi c'è stata la versione Tommaso Padoa Schioppa . L'ultima versione, capita­nata da Vincenzo Visco, è del 2006: vennero mobilitati 44 esperti, senza alcun risultato tangibile.

4) Intanto la quota azionaria in ma­no alle banche italiane (Unicredit ed Intesa in testa) scese dal 28 al 18%. Le plusvalenze realizzate in Borsa servi­rono ad abbellire i bilanci. Intanto Londra, con il benestare dell'ad di Borsa Italiana, Massimo Capuano, si adoperò per evitare l'ingresso delle fondazioni italiane, giudicate "azioni­sti pubblici": meglio gli emiri del Qa­tar, insomma.

5) Oggi la situazione è largamente compromessa. Massimo Capuano, che ha accarezzato a lungo la speranza di diventare il numero uno della so­cietà, ha dato le dimissioni nello scor­so aprile, con un entusiasmo di poco superiore a quello di Profumo, come lui un prodotto del vivaio Mc Kinsey. Pure lui, del resto, può consolarsi con una liquidazione che sfiora i 6 milioni. Nel giro delle poltrone dell'Lse non c'è stato finora spazio per un nuovo ma­nager italiano operativo: esce di scena il vice presidente Angelo Tantazzi, so­stituito da Paolo Scaroni. Ma l'Italia resta fuori dalla gestione.

6) Nel frattempo, l'integrazione con Londra non ha portato benefici alla creazione di una piazza finanziaria
più solida. O tantomeno, nonostante tante dichiarazioni di segno contrario, ad un allargamento delle opportunità per le piccole e le medie imprese del made in Italy. Intanto sia Francoforte sia Parigi hanno difeso con le unghie le infrastrutture tecnologiche che per­mettono alla Deutsche Boerse (che nel board ha avuto a lungo Alessandro Profumo) e ad Euronext, terminale parigino dell'alleanza con Wall Street, di garantire impieghi a buon reddito per le piazze finanziarie locali. Da quelle parti, statene certi, di outsour­cing in Sri Lanka non se ne parla.