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Tutti i vizi della capitale

di Massimo Fini - 04/10/2010

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Nell’avvicinarsi del 150° anniversario dell’Unità d’Italia il presidente Napolitano non perde occasione per accompagnare l’indiscutibilità di questa Unità, che è sancita dalla Costituzione (art. 5), con una parallela intangibilità di Roma come capitale che invece nella Carta non c’è.

Eppure Roma è un caso quasi unico nel mondo Occidentale. Come Londra, Parigi, Vienna, è la città più importante del Paese, ma a differenza di loro non ha alcuna dimensione né retroterra industriale. Come Bonn, Washington, Canberra accentra le funzioni politico-amministrative ed è la classica città che “consuma e non produce”, ma a differenza di quelle, che hanno dimensioni ridotte, si avvicina ai tre milioni di abitanti.

Roma capitale ci appare oggi come cosa naturale, scontata, ovvia. Ma non era affatto ovvia quando, nel 1861, si trattò di scegliere. Con i suoi 200 mila abitanti e soprattutto con le sue strutture arcaiche, era poco più di un villaggio rispetto a Napoli che era quattro volte maggiore e a Torino e Milano che erano il doppio. Di Napoli, di Milano, di Firenze non aveva la vivacità culturale, di Torino la tradizione amministrativa. Non aveva una classe dirigente. Era una città in piena decadenza. Era la Roma del Belli non quella di Leone X, cioè del Rinascimento. Cavour e i piemontesi la scelsero, oltre che come simbolo unificante, proprio per la sua “debolezza“. I nostri Padri fondatori si ponevano già allora, a metà dell’800, il problema della megalopoli, del gigantismo, della “città assorbente“. Avevano sotto gli occhi Londra e Parigi e non volevano riprodurre quel modello. Ma Roma aveva già allora delle caratteristiche, strutturali, ambientali, psicologiche che, col tempo, si sarebbero riverberate sull’intero Paese. La Roma pontificia era una città totalmente parassitaria che viveva di clientele, di prebende, di espedienti, di elemosine. E tale è rimasta. Inoltre Roma è solo apparentemente equidistante, baricentrica. È molto più meridionale, oserei dire mediorientale, di altre città del Sud (Catania e Bari per esempio) e del meridionalismo ha preso il peggio, la totale mancanza di senso dello Stato e la contemporanea pretesa di essere assistiti dallo Stato, coniugata col millenarismo cattolico e la particolare mentalità dei romani per i quali, vivendo nel mito della “città eterna“, “tutto è stato sempre così e sarà sempre così”. Condannando con ciò l’Italia al suo straordinario immobilismo.

Comunque se fino agli inizi dei Settanta è rimasto un certo equilibrio con le altre grandi città italiane, negli ultimi quarant’anni Roma ha finito per accentrare tutto su di sé: oltre al potere politico-amministrativo, quello degli Enti pubblici, del Parastato, quello dell’informazione con la Rai-Tv quello finanziario, economico e persino industriale. Perché se le fabbriche stano altrove, la testa sta a Roma. E se un manager si stabilisce a Roma prende la mentalità romana. Anche un americano, se vive due anni a Roma, diventa romano. Perché Roma corrompe. Col suo clima, la sua dolcezza, i suoi cieli, le sue “ottobrate“, il suo ocra, la sua vita “easy“. Per questo Bossi, agli inizi, voleva rinchiudere i suoi in una foresteria. Ma nemmeno lui ce l’ha fatta. “L’etica protestante del capitalismo” non abita, e non abiterà mai, qui. E non sarà l’intisichito federalismo spalmato su 20 Regioni a salvarci dall’equivoco e asfissiante potere di Roma-capitale sull’Italia intera.