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Jérôme Kerviel: ecco il capro espiatorio

di Mario Braconi - 07/10/2010



Dopo un processo durato tre settimane, Jérôme Kerviel, il trader di Société Générale capace di far perdere alla banca francese quasi 5 miliardi di Euro grazie alle sue folli speculazioni sui derivati azionari, è stato condannato a scontare in galera un periodo cinque anni (anche se due gli sono stati condonati). Il dispositivo prevede altresì l’obbligo del condannato a rifondere le perdite subite della parte offesa in seguito alla sua condotta.

Una sentenza francamente ridicola, a cominciare dal vistoso artificio retorico mediante il quale si finge di considerare realistico lo scenario di un comune mortale (cui peraltro è stato ovviamente proibito per sempre di prestare servizio presso qualsiasi entità in qualche modo legata al mondo della finanza) che, dopo un lustro in gattabuia, trovi un’occupazione talmente redditizia da consentirgli di trovare i 4,9 miliardi di Euro necessari a rifondere il suo ex datore di lavoro. Considerando la retribuzione media delle famiglie francesi - stima del 2007 - ci vorrebbero “solamente” 136.000 anni, ovvero un intero albero genealogico di oltre 2.700 discendenti di Kerviel, il cui unico scopo nella vita dovrebbe essere quello di indennizzare la banca dove lavorò a suo tempo un lontanissimo predecessore.

Davvero esilarante, a questo proposito, la dichiarazione di Caroline Guillaumin, portavoce di SocGen, la quale, dopo aver affermato l’ovvio (“si tratta di una richiesta simbolica, che la banca non si attende verrà mai soddisfatta”), si spinge oltre, dicendosi soddisfatta della sentenza. Essa, infatti, stabilisce che “la totalità dei danni subiti dalla banca sono riferibili alle azioni di Jérôme Kerviel”. Se si volesse dar credito a una simile scempiaggine, si dovrebbe essere disposti a credere che un impiegato di livello medio, in totale solitudine, sia riuscito a costruire una posizione pari a 50 miliardi di Euro (un valore superiore a quello di mercato dell’intera istituzione finanziaria) sul mercato dei derivati su indici azionari senza che i suoi capi si rendessero conto di nulla. E’ un po’ come ammettere l’esistenza di benefattori che acquistano case intestandole a Ministri della Repubblica Italiana ad insaputa di questi ultimi: si può sempre sostenerlo, ma non c’è garanzia che l’effetto non sia una salva di pernacchie...

Comprensibile, ovviamente, l’entusiasmo della signora Guillamin, perché la sentenza è una specie di pietra tombale sulle inequivocabili responsabilità (certamente negligenza, ma non è da escludersi la connivenza) del management. Poiché il diavolo è nei dettagli, è bene infatti ricordare che i capi di accusa contro Kerviel sono stati abuso di fiducia, truffa e, in mancanza di meglio, “uso non autorizzato dei computer aziendali”.

Cose leggere per una persona che il Presidente della Banca, Monsieur Bouton, all’acme della caos, si era spinto a definire addirittura “terrorista”: un’accusa ancora più ridicola, che farebbe somigliare Kerviel al protagonista dell’ottimo film australiano The Bank (2001), nel quale un neolaureato in matematica, impiegato modello, conquista la sala cambi di una banca al fine di distruggerla (nella fiction, si trattava di una forma di vendetta per il comportamento immorale della banca nei confronti della sua famiglia, distrutta dall’atteggiamento predatorio della banca sua creditrice). Come? Con un modello di trading disegnato per fallire.

Ma la realtà è ben diversa: certo, Kerviel è uomo scaltro quanto superficiale, ma bisogna ammettere che per cominciare a giocare sporco gli è bastato essere un esperto del sistema di back-office di SocGen. Nè si può tacere del modo quanto meno disinvolto con cui la banca “controllava” il rischio che il trader caricava a bilancio: ad esempio, ricorda il Financial Times, veniva monitorata esclusivamente la posizione netta aperta e non il valore assoluto delle operazioni di segno opposto aperte da Kerviel (senza contare che questi era in grado di generarne di fasulle per compensare quelle troppo rilevanti, salvo poi sostituirle alla scadenza con altre finte transazioni dello stesso tipo).

In realtà, sarebbe stato facilissimo smascherare il truffatore, semplicemente facendo quella che per un qualsiasi contabile è un’operazione di routine: riconciliare la posizione sui libri con quella di cassa. Poiché i contratti incriminati erano future e questi, per loro stessa natura, richiedono un margine (ovvero l’obbligo del contraente a versare o ricevere un valore integrativo in caso di variazione rilevante nel valore nominale dell’operazione), sarebbe bastato mettere a confronto la posizione di cassa con quella risultante dalle posizioni in derivati per capire che alle operazioni inventate da Kerviel, come è ovvio, non corrispondeva alcuna marginazione (secondo il Financial Times, spesso le discrepanze erano di svariati miliardi - miliardi di Euro!).

La verità, ricorda sempre il quotidiano finanziario londinese, è che, nell’arco di soli 7 anni (dal 1999 al 2006) il valore apportato dall’unità investment banking di SocGen al bilancio consolidato si è triplicato, fino a pesare circa la metà del giro d’affari della banca francese: una gallina dalla uova d’oro, insomma, nel cui lussuoso pollaio di vetro e cristallo alla Défénce non era opportuno ficcare troppo il naso, a meno che non si desiderasse vedere il prezioso metallo trasformarsi in piombo.

Eppure i segnali di un certo lassismo nei controlli c’erano eccome: non solo un ex ispettore interno della banca ha fatto sapere a Agence France Presse che in SocGen “i controlli erano deboli, i trader non erano puniti se si comportavano male e le ispezioni venivano guardate con sufficienza”; ma nel 2007, solo pochi mesi prima dell’esplosione del caso Kerviel, la Commissione di controllo bancaria francese aveva scritto per ben due volte a Bouton a seguito di una serie di controlli, raccomandando particolare attenzione proprio al settore dei derivati azionari, il settore dove operava Kerviel. Risulta poi agli atti anche l’e-mail di un funzionario della vigilanza di Eurex, che chiedeva al trader ragioni di due grossi ordini.

L’impressione è che il comportamento di Kerviel sia stato tollerato per un lungo periodo; più precisamente fino a che ha prodotto utili (1,4 miliardi di Euro). Poi, non appena il mercato ha cominciato a girare contro e sono cominciate perdite sempre più irreparabili, è stato impossibile ignorare il caso del piccolo Re Mida trasformatosi di colpo in un flagello. A quel punto, la banca ha deciso di intervenire chiudendo tutte le posizioni in vendita montate da Kerviel.

Un vero harakiri: scaraventando sul mercato miliardi di contratti di vendita, oltre a provocare a tutti gli altri operatori danni irreparabili, i vertici di SocGen hanno prodotto un avvitamento verso il basso dei corsi azionari, cosa che ha moltiplicato le perdite anche per SocGen. Un vero e proprio “panic selling”: non a caso, per citare un altro celebre film sul mondo della finanza, “un venditore frettoloso è un venditore morto”.

Il conto da pagare, alla fine, è stato di 6,9 miliardi, ma a quel punto sono stati estratti dal cilindro gli 1,4 miliardi di euro di utili che Kerviel aveva prodotto in tempi di vacche grasse ma che erano rimasti nascosti (!) per lungo tempo in qualche piega di bilancio. E’ evidente che Kerviel è stato solo un ingranaggio (sia pure essenziale) in un meccanismo molto più grande; è altrettanto chiaro che sarà l’unico a pagare. La Banca continuerà a prosperare.