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Una serata di ordinaria ipocrisia mediatica intorno a una partita di pallone

di Francesco Bevilacqua* - 13/10/2010

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Un breve riepilogo dei fatti per chi non segue il calcio: ieri sera a Genova si doveva giocare Italia-Serbia, valida per le qualificazioni al campionato europeo del 2012. La partita tuttavia non si è disputata per via delle intemperanze dei tifosi serbi, che hanno scatenato incidenti prima e durante il match, costringendo l’arbitro a sospendere e poi ad assegnare la vittoria a tavolino all’Italia (non è ancora ufficiale ma succederà certamente così).

Questo è quanto. Non pretendo che le  mie opinioni che seguiranno siano condivise  dai più e neanche in qualche modo accettate, poiché si tratta di considerazioni strettamente personali. Credo tuttavia di dover offrire uno spuntio di riflessione per uscire dalla banalità e dalla miopia delle solite, ipocrite considerazioni che accompagnano sempre eventi di questo genere, trite e ritrite, che i media recitano e ci fanno recitare allo stesso modo in cui il prete fa ripetere la salmodia ai fedeli. Io ho provato a uscirne, magari riferendo solo una interpretazione di parte, ma vi consiglio di provarci anche voi… Per uscire dai luoghi comuni.

Durante tutto il collegamento, curato da Rai Sport, i vari commentatori hanno fatto a gara a chi pronunciava la frase o l’anatema più efficace e suggestivo nei confronti dei serbi, definiti ora facinorosi, ora folli, ora teppisti. Ai commenti facevano da supporto le immagini, che alternavano sapientemente riprese ora dei serbi intenti a cantare cori, esporre striscioni ed accendere fumogeni, ora della polizia schierata immobile a bordo campo, ora degli spettatori italiani, con particolare attenzione per famiglie e bambini. Tutto ciò è tipico della nostra cultura ipocrita e buonista.

Provo a spiegarmi meglio: frequento lo stadio da molti anni e ho maturato una visione particolare di questa sorta di “militanza” (che moltissimi hanno compiuto e compiono in maniera ben più consapevole e profonda di quanto non faccia io), di questo contesto di aggregazione tribale, quasi comunitaria, che in tutte le sue contraddizioni è forse l’ultima possibilità per un giovane di venire a contatto con dei valori – lealtà, senso di gruppo, rispetto per i più grandi, coraggio, fedeltà, altruismo – che nella nostra società sono quasi completamente scomparsi. Possiamo definirla con un’espressione un po’ retorica una “palestra di vita”. Da punto di vista sociologico poi, la curva di uno stadio è uno specchio della società (quante volte si è già sentita questa frase…), in cui si riversano tutte le pulsioni della gente, in cui spesso vengono rivendicate delle posizioni politiche o culturali, in cui si sfoga il senso di oppressione e alienazione dell’uomo post-moderno. I maniera analoga a quanto può succedere in una piazza, per le strade di una città, in un’arena o in qualsiasi altro luogo di pubblica frequentazione.

Questa premessa è doverosa per capire meglio l’interpretazione che do dei fatti di Genova. Quello dei serbi infatti non è stato solo un violento sfogo di gente esaltata, magari ubriaca, che ha voluto passare una serata all’insegna dell’eccesso. Chi ha seguito un po’ più attentamente i fatti (uno solo dei giornalisti Rai che commentavano la diretta ha avuto la coscienza di farlo) ha potuto notare che la protesta conteneva rivendicazioni politiche abbastanza nette: è stata bruciata una bandiera albanese, è stato esposto uno striscione che rivendicava la sovranità serba sul Kosovo, è stato assaltato il pullman delle squadra nel prepartita e sono stati minacciati i giocatori, in continuità con un altro fatto violento accaduto tre giorni fa a Belgrado, dove dopo il derby Partizan-Stella Rossa i tifosi hanno manifestato contro il Gay Pride (che per la terza volta, anche questa invano, gli organizzatori hanno cercato di far tenere nella capitale serba). La chiave di lettura che do io per i fatti di ieri sera è dunque quella di una cruenta rivendicazione politica.

Proseguiamo con le considerazioni. La cosa che mi ha dato più fastidio è stata l’ipocrisia dei media che hanno stigmatizzato il comportamento dei serbi e compatito le povere famiglie, i bambini con i genitori che erano andati allo stadio per partecipare a una festa. Certamente siamo tutti dispiaciuti per chi ha vissuto una delusione e non ha potuto gustarsi una partita che si annunciava pure interessante sul campo, ma sono convinto che nella vita esistano delle priorità. Senza mezzi termini, ritengo il messaggio politico che hanno voluto dare i serbi ieri sera più importante di una banale partita di calcio; come ci sentiremmo noi se le stesse persone che ci hanno bombardato per degli anni ci portassero via una parte del nostro paese? Lo considereremmo più o meno grave di una sconfitta a tavolino in una partita di qualificazione?

Un’altra immagine stucchevole che è stata mostrata è stata quella di una maestra che cercava di spiegare a una scolaresca seduta in tribuna perché la partita non si giocasse (o per lo meno questa è la spiegazione che hanno dato i telecronisti Rai), infarcita delle solite banalità sulla violenza e sulla parte sana del calcio. Ebbene, come ho detto, lo stadio, la curva è un luogo di socialità, di confronto e a volte anche di scontro. Malauguratamente per chi era allo stadio solamente per vedere Pazzini e Cassano, ieri sera è stato un momento di puro scontro, di quelli che accadono, che fanno parte della vita di una società, che vanno accettati, partecipati o evitati, analizzati o dimenticati ma che comunque non è possibile impedire. E quando accadono, si creano indubbiamente delle situazioni brutte, difficili da interpretare per un bambino di dieci anni, ma che fanno parte della vita e con cui egli stesso in futuro dovrà necessariamente confrontarsi. L’ipocrisia e l’errore è negarle, far finta che non esistano, stigmatizzarle come se fossero uno sbaglio o una degenerazione, mentre in realtà sono solo fasi evolutive della società, così come i terremoti (che pure sono brutti e provocano tanti morti) sono momenti evolutivi dell’assetto del pianeta.

Un altro assist in merito me lo offre l’ennesimo stucchevole commento sentito ieri sera, cioè che è stato rovinato anche il momento del ricordo dei quattro militari italiani uccisi in Afghanistan. Qui l’ipocrisia è al culmine: ci si lamenta che è saltato un banale minuto di silenzio per quattro militari morti, che non si è potuto appendere qualche striscione commemorativo e che la gente che li voleva ricordare è stata letteralmente cacciata dallo stadio da dei facinorosi. Ma cosa rappresenta quello che è successo ieri sera (in fin dei conti, qualche lancio di petardi e scaramucce con la polizia senza neanche dei feriti gravi) al confronto di ciò che da nove lunghi anni sta subendo il popolo afgano, schiacciato dalla prepotenza occidentale (sì, perpetrata anche dai quattro parà caduti a Kabul) o di quello che lo stesso popolo serbo ha dovuto subire dieci anni fa, vittima di strategie geopolitiche dei padroni del mondo? Compiangiamo le poche centinaia di bambini italiani che ieri erano sugli spalti del Ferraris, ma ci dimentichiamo delle migliaia di bambini serbi e afgani (e libanesi, palestinesi, birmani, guatemaltechi…) che sono morti e stanno continuando a morire vittime delle armi occidentali.

Quello di ieri sera è stato il trionfo del perbenismo del pensiero unico: convincere la gente (la violenza e la platealità dei serbi hanno offerto l’occasione giusta per farlo) che una partita di calcio è più importante di rivendicazioni politiche attinenti alla cultura, alla sovranità e alla sopravvivenza stessa di un popolo. Nessuno si è posto neanche per un attimo il problema di cosa volessero dire quegli striscioni e quelle azioni dimostrative, se ci fosse un motivo particolare per cui sono state messe in atto proprio durante quella partita, se non ci sia un messaggio politico collegato. Tutti si sono solo indignati perché non hanno potuto godere per novanta minuti delle prodezze degli ex campioni del mondo.

Infine permettetemi una stoccata all’organizzazione italiana. Si parla tanto dei grandi benefici della tessera del tifoso, del fatto che finalmente, come fece la Tatcher con gli hooligans inglesi (ma dove?!), anche il nostro bravo ministro Maroni sta debellando il fenomeno della violenza ultras negli stadi italiani. Senza stare a ricordare gli episodi nostrani che testimoniano il colossale fallimento di questa manovra, mi chiedo: com’è possibile che molte centinaia di tifosi serbi armati di coltelli e fumogeni abbia percorso mezza Italia da Belgrado fino a dentro lo stadio di Genova? Com’è possibile che il pullman della squadra sia stato fermato e assaltato senza che nessuno sia intervenuto? Com’è possibile che per mezz’ora i serbi abbiano fatto quello che volevano, riuscendo nell’intento di sospendere la partita, con la polizia che li guardava imbambolata a bordo campo? Com’è possibile che una partita così a rischio incidenti si sia giocata proprio a Genova, uno stadio ubicato in centro città, con una conformazione che tiene gli spettatori ospiti e di casa vicinissimi fra di loro e a ridosso del campo e con una logistica difficilissima da gestire? Mi viene malignamente da pensare che chi si sta vantando di aver debellato il fenomeno del teppismo da stadio in realtà non abbia la minima idea né del problema che pretende di affrontare né dei metodi per farlo.

*(Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle della redazione della Arianna Editrice. NdR)